LAURA

Sono sempre più giù, in mezza giornata è del tutto finito il calore umano raggranellato da Lucy, Matteo e i due pupastri (sempre felici di vedere zia Lallina). Sulla segreteria una chiamata senza messaggio: richiameranno.
Ho bisogno di una voce amica.
Per anni la mia voce amica è stata Pupa.
Il suo numero lo so a memoria. Una volta ho avuto un incidente, mi hanno portata al pronto soccorso, non ricordavo altro telefono che il suo.
Per dirvi.
Forse è in casa forse no. Sempre stata di orari fluttuanti. Forse è sul balcone, in pratica vive lì, l’unico angolo di casa non sotto monte. Se ci si mette in punta di piedi e si usa uno specchietto si vede un pitin di mare. Ma cielo tanto, sempre, da quell’angolo di balcone.
Terzo squillo e risponde la segreteria telefonica. Riattacco, non sono mai riuscita a comunicare subito con una segreteria telefonica inaspettata. Un tempo non l’aveva. Se poi è ancora il suo numero… E non quello di un estraneo.
Se lei fosse diventata un’estranea?
Controllo sull’elenco telefonico. Pulcra Paola, Corso Firenze: il numero è ancora quello.
Dopo dieci minuti, dandomi della scema per non averlo fatto subito, riprovo.
Ancora la segreteria, ma ora sono pronta e lascio il mio messaggio. Lo dico d’un fiato: — Ciao, Pupa, sono Laura. Mi richiami?
Meglio che niente, ma una segreteria non è un contatto umano.
Tempo di prendere la caffettiera per farmi un caffè e squilla il telefono: Pupa!
Sì, è lei.
— Non ci sono.
E riattacca.
Non può aver riattaccato, devo aver capito male, deve essere caduta la linea. Riprovo.
Risponde: — Pronto.
È lei.
— Ciao, Pupa…
— Ti ho detto che non ci sono. Non chiamare più.
Resto come scema con il cordless in mano e che fa tu tu tu… Pupa anche tu mi hai abbandonato… Perché tu quoque?

PUPA

Ero sul balcone a stendere, se non si approfitta di una giornata decente… Intanto mi prendevo un po’ di sole, che anche se invernale, qui da noi fa piacere. Casa mia è in Corso Firenze, tutta sotto monte, escluso il balcone, che fa angolo. Con un po’ di fantasia posso illudermi di vedere uno spicchio di mare. Dalle altre finestre ho un muraglione, ma è una zona che mi piace, gli affitti sono cari se vuoi bella vista. Mi accontento: chi si contenta gode.
Mi sono attardata a crogiolarmi in quella delizia. Vivrei sempre al sole. Già che c’ero mi sono guardata anche i miei fiori. Veramente di fiori non ce ne sono ancora, ma verranno.
Rientro sentendomi da papa, trovo 1 sulla segreteria telefonica. Controllo chi mi ha chiamato.
Per poco non dimentico di respirare: emozione, rabbia, voglia di scrollarla, di scrollarmi. Laura. Da quasi cinque anni ha troncato di netto un’amicizia… Dico di netto perché così è stato. Dall’oggi al domani e senza spiegazioni razionali.
E mi chiama.
Ora, quella impulsiva, diciamo pure uterina, delle due sono sempre stata io. Lei quella di testa. Prendo il telefono e le dico: — Non ci sono.
Una frase insensata. Non ci sono per lei, forse non ci sono con la testa…
Capocciona lo è sempre stata che deve sbatterci il naso almeno due volte o tre… Richiama subito. Se la conosco è rimasta in contemplazione del telefono, sicura di aver sentito male o che sia caduta la linea. Sempre stata così: si verifica un fatto per lei inaspettato… non capisce subito che è successo.
Riprova…
— Ti ho detto che non ci sono. Non chiamare più.
E le butto giù.
Appoggio le spalle al muro di cucina per stare in piedi. Vorrei richiamarla, ma non devo.
Devo ripensare a quattro anni fa.

Quattro anni prima

Pupa aveva rovistato nell’armadio materno per trovare qualcosa di adatto, di sobrio. Primavera: cosa c’era di più primaverile e tranquillo (a Genova) di gonna blu, gabardine che diventa subito lucido, indossa male e fa sudare, golfino rosa confetto.
Sandaletti blu: quelli atroci, che fanno sempre male peggio delle scarpe chiuse.
Quando si era guardata allo specchio aveva faticato a riconoscersi: chi era quella collegiale invecchiata anzi tempo? Aveva raccolto i capelli rossi con un fermaglio.
Aveva limitato il trucco all’essenziale.
Era uscita sperando di non incontrare amici vari.
Ma Laura aveva tanto insistito, a modo suo… — Sai, è uno molto sobrio, un po’ all’antica. Forse gonnellone e zoccoli…
Era stata ripagata di tanti sforzi vedendo un sorriso sulle labbra di Laura quando era arrivata da lei.
Laura quegli sforzi se li meritava in pieno. Per tutti gli anni del liceo le aveva passato i compiti di mate, di fisica, le aveva anche fatto i temi. Che lei non sapeva mai cosa scrivere! Anche per quel motivo aveva fatto lettere moderne: fantasia zero.
Laura non l’aveva mai derisa per quel suo folle amore per un mezzo sconosciuto.
In più Laura era una gran brava persona. Un po’ rimbecillita per quel suo uomo nuovo, ma se non la capiva lei! L’amore rimbecillisce.
— È già arrivato? — Le chiese entrando in fretta. Perché avevano deciso che lei sarebbe arrivata per prima, così Laura poteva controllare se la sua “tenuta” era in ordine. Ma le era venuto tardi, perché aveva faticato a raccogliere i capelli in modo decente. I suoi ricci rossi continuavano a scappare via da tutte le parti, più cercava di tenerli fermi più la facevano sembrare Medusa quella con i capelli serpenti che se li guardi muori.
Stavano fermi solo quando li lasciava come volevano, liberi e sciolti.
— No, non ancora. Mi ha detto che veniva per le sei. Arriverà non prima delle sei.
Laura era agitata di brutto, per lei doveva essere davvero importante. L’importante era non drammatizzare, così Pupa si guardò attorno. La nuova casa di Laura… Grande, certo. Ma un po’ triste. Ma se a lei piaceva così…
— Sa che ci sarò anch’io?
Laura scosse il capo. — No, è una sorpresa.
— Pensi davvero che sia contento di vedermi? Insomma, pensava di passare la serata con te e si trova un terzo incomodo fra i piedi.
— Oh, senti! Di tempo per stare noi due soli ne avremo. È l’inaugurazione della mia nuova casa. Sei la mia più cara amica, lui è il mio uomo: cosa c’è di sbagliato?
— Per me era meglio se glielo dicevi.
L’ombra nello sguardo di Laura le confermò che l’amica non aveva preavvertito il suo Umberto per timore che lui non si facesse vedere.
E Laura non era mai stata timorosa. Il bagno in mare lo faceva con bandiera rossa peggio dei bagnini.
A Pupa bastò vedere la faccia di Umberto per capire che lui non era contento di sapere che Laura non era sola. Sarebbe stato meglio se lui l’avesse detto chiaro e tondo, invece di raggelarsi in quell’espressione compunta. Aveva già di suo il naso sottile (secondo Pupa indizio certo di uomo infido) e gli era ulteriormente assottigliato (a lama di coltello),
Già, quando da Laura era riuscita a sapere la data di nascita di Umberto gli aveva fatto il quadro natale: autoritario, perfezionista, poco creativo, anche un po’ taccagno. Quando gliel’aveva detto, Laura aveva riso e poi: — Perfetto, ci completiamo. Io sono permissiva, casinista, creativa anche troppo, spendacciona. Lo cambierò.
Vedendo la casa che aveva scelto ed arredato, Pupa capì che sarebbe stato lui a cambiare Laura. (Anzi l’aveva già un bel po’ cambiata.)
Laura si agitava fra loro due come anima in pena, cercando di farli conoscere…
Aveva anche preparato una cena, cucinando come una brava massaia. Laura che viveva di focaccia e cose comprate fatte o portate da amici e vicini. Il gas le serviva per la caffettiera.
E dopo la cena mise in tavola caffè decaffeinato. Obbrobrio.
Il peggio era non sapere cosa dire.
Laura l’aveva avvertita: — Niente politica, religione, lavoro.
E una disgraziata di cosa parla? Vestiti? No. Sesso? NO!
Da mezz’ora Umberto le stava intrattenendo illustrando nei dettagli un piano di risparmio decennale che gli aveva consigliato un direttore di banca suo amico. Con oculati risparmi si sarebbe trovato un discreto capitale fra dieci anni.
Dieci anni? Ma chi pensa a come sarà la vita fra dieci anni?
Pupa stava morendo dentro. Guardò Laura, il suo sorriso fisso: era già defunta. Sembrava quelle foto che stanno sulle tombe, perenne falsa letizia.
Il tempo non passava mai e quello continuava fra rivalutazioni, interessi fissi, capitalizzazioni e piacevolezze varie.
Pupa di numeri non aveva mai capito niente e solo concentrandosi al massimo era riuscita per anni a copiare senza pasticciare quello che le passava Laura sottobanco. Così prese fiato e cercò di sterzare. Su cosa? Niente di più tranquillo dei ricordi di quando lei e Laura erano liceali.
Con maestria lo pilotò. Ricordi commoventi, ricordi allegri. Di quella volta che le avevano spedite in presidenza perché ridevano…
Mica colpa loro, colpa della prof. Lezione di drammaturgia: il massimo della tensione drammatica si ottiene quando l’eroe deve scegliere fra due beni, esempio amore e onore.
Laura si era girata appena e aveva sussurrato senza muovere le labbra: “Il massimo del comico quando l’eroina deve scegliere fra due mali. Esempio: con i primi caldi scegliere fra collant che pizzicano proprio lì o il male ai piedi che senza calze ti viene”.
Pupa aveva cominciato a ridere, Laura non era riuscita a trattenersi.
Pupa lo raccontò proprio bene, imitando sé stessa, Laura, la prof e il caro preside che, a fatica, si era trattenuto dal ridere. Ma poi, quando erano già in corridoio, l’avevano sentito sghignazzare alla grande. Un brav’uomo se ce n’era uno.
Umberto sembrava abbastanza divertito al racconto e Pupa ignorò volontariamente le occhiatacce dell’amica: finalmente si stava divertendo.
Scivolò appena, abbassata la guardia, vide che Laura riemergeva dal coma. Scivolò nel modo più cretino. Raccontando dell’esame di maturità, prova di mate. Di come Laura era riuscita a passarle tutto il compito, perfetto, impeccabile. — E diverso da come l’aveva fatto per sé. In pratica ne ha fatti due! — concluse Pupa. — È sempre stata una gran testa.
Capì subito di aver fatto non un passo falso ma un disastro. Non aveva mai visto labbra più strette di quelle di Umberto. E naso più affilato.
Silenzio. Rotto dalla voce di Umberto. — Non immaginavo. — Volse il viso verso Laura. — Non è stato un comportamento serio. Spero che tu te ne sia pentita.
Laura boccheggiava peggio di un pesce rosso nella sua palla.
Pupa sentì l’incazzatura per raccomandazioni, preparativi, corso di economia applicata per mettere insieme primo, secondo, contorno e dessert… L’incazzatura per tutto, insomma, esploderle dentro. Foruncolo strizzato: ma uno di quelli grossi. Alzò le mani e sganciò il fermaglio mentre i capelli rossi le si allargavano sulle spalle. Fissò Umberto. — Tu non hai mai passato un compito?
— Certo che no. Non sarebbe stato corretto.
Pupa si alzò, andò nell’ingresso dove aveva lasciato la sua borsa blu, come le scarpe, anche quella di sua madre; quando aveva chiesto a mamma se le prestava tutte quelle cose aveva dovuto ripetere la domanda. Sua madre l’aveva guardata come se non la riconoscesse e le aveva chiesto se aveva un funerale. Dalla borsa tolse il pacchetto di sigarette e l’accendino.
Anche se Laura le aveva detto che Umberto disapprovava il fumo e soprattutto le fumatrici.
Si era fumata in pace la sua sigaretta, sbattendosene del tossicchiare dello stoccafisso bastardo che stava portando la sua amica al camposanto. Si era anche slacciata due bottoni del maledetto golfino, che le stava stretto. Per quello stronzo si era pure messa il reggiseno, che odiava. Ma Laura aveva tanto insistito perché sembrasse sobria. E i suoi seni di quarta misura, senza reggiseno, sotto il golfino, sarebbero sembrati troppo liberi e libertari.
Dal cassetto materno aveva razziato un reggiseno di pizzo bianco.
Un filino di quel bianco era comparso, ma solo un casto filino.
Poi era passata al commiato. — Ora devo andare. Vi lascio soli. E, mi raccomando, non fate i bravi.
Lui si era alzato di scatto. — Devo andare anch’io.
Laura continuava a boccheggiare. Pupa lo sapeva, aveva voglia disperata di sigaretta, caffè vero e urlo.
Così Pupa scese con Umberto.
— Sei venuta in auto?
Uno dei raffinati, tutti dicono macchina… Pupa fu lì lì per correggerlo, invece rispose: — Bus.
— Ti do un passaggio.
— Non è necessario. — Lo guardò. Sembrava meno inamidato… Forse sarebbe riuscita a rimediare quei maledetti scivoloni, forse non era poi così orrendo. Laura lo amava, Laura era la sua migliore amica. — Non vorrei portarti fuori strada. Abito in Circonvalmonte — aggiunse per rimarcare che era un bel po’ lontano da dove stava lui, zona Foce.
Erano nel portone, lui la pilotò verso il box doppio. Le aprì la portiera. — Nessun problema. Devo andare in Via Bertani.
— Corso Firenze. Proprio sopra l’Albergo dei Poveri. È lontano da dove devi andare.
Ma ormai lui aveva avviato. — Non tanto. Potranno essere una decina di minuti, non di più.
Come cavolo era finita lì, si chiese Pupa. Con quel baccalà. Bacchettone. Che si stava sgelando. Faceva anche conversazione.
Corso Firenze, ansa sopra l’Albergo dei Poveri, con le serre del comune. Bello con qualsiasi tempo: con il sole splende, con la pioggia e il vento di scirocco e le nuvole che vengono dal mare è tutto un effetto da film.
Con la notte è meglio: buio e luci sospese e la Lanterna in fondo.
La casa non era granché (anzi era un buchetto sottomonte, ma con un terrazzino d’angolo che ti faceva vedere un angolo di mare), ma a Pupa bastava uscire e godersi quella bellezza per stare bene.
Anche quella sera il posto stava operando la solita magia.
Era distratta…
Ma quella mano estranea si stava facendo strada sul suo golfino con meta reggiseno. Lo spinse in là con gesto meccanico: non era mai stata bacchettona ma che uno ci provasse senza un minimo di preavviso era fuori dei suoi schemi. Probabilmente la mano gli era scivolata… Meglio non pensar male.
Ma la frase… quella chiarì la situazione: — Ma dai che ne hai voglia!
— No.
— No?
Pupa uscì sbattendogli la portiera in faccia. Gli uomini le piacevano, ma quello no. Ed era anche l’uomo della sua migliore amica.
Col cavolo!
Tutta la prima metà della notte a tormentarsi chiedendosi se era stata lei a dargli un’impressione sbagliata.
No! Era lui.
La seconda metà della notte a chiedersi se parlarne con Laura, mettendola in guardia.
No, meglio non farne niente… Laura avrebbe presto capito che tipo era Umberto.
Si addormentò che era mattina.
La svegliò lo squillo del telefono. Aveva la testa come un pallone e la bocca da schifo.
— Pronto…
— Sono Laura.
Era una sua impressione o non sembrava la solita Laura? Ma già! Da qualche tempo stava cambiando. E lei aveva un sonno un mal di testa una nausea…
— Volevo dirti che so quello che hai fatto.
Tempo di cercare di decifrare l’oscuro messaggio e Laura aveva riattaccato.
La richiamò. — Sono Pupa, non ho capito…
Laura la interruppe. — Hai capito benissimo. Hai allungato le mani su Umberto.
— Ma va?
— Mi ha telefonato per dirmelo. Per mettermi in guardia.
— E gli hai creduto? — Perché era quella la cosa più incredibile: che Laura avesse creduto a quel porco bastardo. Che avesse creduto che lei, Pupa, amica da sempre, avesse cercato di fregarle l’uomo.
— Sì, gli credo.
Fine della telefonata e di un’amicizia.
Da allora non ho più sentito Laura. Fino a pochi minuti prima. Ora sono tutta aggrovigliata dentro.

LAURA

Pupa mi ha buttato giù il telefono. Mi sento morire. Mi sono lasciata scivolare sul tappeto a gambe incrociate come un pellerossa, e con gonna classica non è facile.
Pupa! La mia più cara amica!
Perché?
Perché? Il perché lo so: ho creduto alle menzogne di quello stronzo traditore. Invece di credere alla mia più cara amica.
E sapevo benissimo che lui mentiva e lei no, ma ho chiuso gli occhi. Ho accettato che lui mi ronzasse che lei mi traviava, che dovevo smettere di frequentarla, che non era una vera amica.
Lo amavo. Ma è una giustificazione per la mia scemenza?
La mia testa rotola e si aggroviglia, qualcuno mi aiuterà a trovare il filo per dipanarla?
E sono di nuovo fuori. Bus fino a Brignole, stazione ferroviaria. Se sei nei casini le stazioni sono il massimo, anche i sani hanno facce sconvolte: treni in ritardo, soppressi, binari modificati all’ultimo momento.
Nessuno qui mi guarda due volte anche se ho la faccia smarrita. Mi fermo davanti al tabellone delle partenze (favole: quegli orari sono più fasulli degli oroscopi). Il vetro è così famigliarmente sporco che fa tenerezza.
Il mio viso deturpato da macchie è proprio come me lo sento.
Faccio le smorfie per controllare di essere ancora padrona del mio corpo. E mi dico: — Bella scema, bella scema, cosa vuoi fare della tua vita?
Non vorrei farne niente. Solo vivere. Da qualche tempo ogni azione mi ha portato soltanto sconquassi.
Sottopasso e poi scala mobile. Percorro il marciapiede fino alla fine della pensilina. Intercity. Non salgo. Appena parte, comincio a gridare con tutto il fiato di giorni e forse anni di rabbia compressa.
Urlo e piango.
L’ho visto in un film, forse uno con Liza Minelli, Cabaret?
Mani mi sospingono, facce mi guardano. Forse la polizia ferroviaria. — Sta bene, signora?
Metto a fuoco che se continuo mi portano a neuro.
— Sì. — Cerco di sembrare normale.
— Si sente bene davvero?
— Un lutto… scusate, non lo farò più.
Mi alzo, non barcollo, sono vestita sobria… Nessuno mi trattiene, forse non è vietato urlare di dolore. Ancora.
Umberto.
Pupa.
La mia più cara amica. Perché mi ha trattata così?
Il perché è semplice, solo una cretina come me poteva illudersi di cancellare anni di silenzio con una gioiosa telefonata in cerca d’aiuto.
Pupa non è più la mia più cara amica da almeno quattro anni e qualche mese.
L’unica cui avevo parlato di Umberto. Gliene avevo parlato in pieno innamoramento, quando anche parlando con l’amica più cara e fidata si abbellisce un po’ la realtà… All’inizio lo facciamo anche con noi stesse. Le avevo detto quanto era irreprensibile, lavoratore, impeccabile in tutto.
Lui, il mio amore.
Lei, la mia più cara amica.
Avevo combinato un incontro, volevo disperatamente che si piacessero. Che ognuno dei due approvasse l’altro. Così sarei stata in una botte di ferro. Anzi una gabbia di Faraday, al sicuro da ogni scarica elettrica!
Ad Umberto non avevo detto niente, ma a Pupa avevo spiegato che volevo farglielo conoscere così poteva darmi un parere. — Che parere e parere — aveva sbottato. — Deve piacere a te, mica a tutto il mondo.
Però era un’amica e aveva accettato l’appuntamento non al buio, ma al mezzo buio.
Umberto doveva venire da me, festeggiavamo l’appartamento nuovo. Quello che lui mi aveva convinto ad affittare, anche se troppo grande e triste… Con l’aiuto di Pupa, così estrosa, l’avrei reso un luogo pieno di gioia!
Però conoscevo il mio Umberto e avevo raccomandato a Pupa di vestirsi tranquilla.
— Perché? Così non va?
Gonnellone zingaresco, cinque o sei collane di perline, legno, spago… No, non era la tenuta migliore per fare buona impressione su Umberto.
Aveva capito la mia silenziosa risposta. Il giorno fatale era arrivata in gonna blu e golfino rosa confetto dicendomi che li aveva presi in prestito da sua madre. Pure calze velate e sandaletti blu: una tenerezza!
Tutto sarebbe andato bene, Umberto si sarebbe abituato un po’ alla volta alle stranezze di Pupa.
Comunque, Pupa era impeccabile.
Non posso ripensare a quella sera, mi viene male.
Mi viene male anche ripensare alla telefonata di Umberto, la mattina dopo.

— Ciao, tesoro…
A Laura non era mai piaciuto essere chiamata “tesoro”, la faceva sentire finta. Però non l’aveva mai corretto.
— Ciao, Umberto. — Con cautela, perché tutto si aspettava quel mattino ma non una telefonata amorosa, prevedeva rimproveri. Diciamolo, per Pupa!
— Come stai, tesoro?
Ancora con quel tesoro. — Abbastanza bene?
— Mi manchi.
La sera prima se ne era andato via. Perché non era rimasto? – Anche tu.
— Volevo dirti una cosa, ma sai… per telefono. Di persona sarebbe diverso.
Ora le avrebbe chiesto di vivere insieme. Non sposarsi: a quello Laura non aveva pensato neppure nei suoi sogni più sfrenati.
— Dimmi, Umberto. — Incrociando le dita. E guardandosi attorno nella casa di cui lui aveva scelto persino i quadri: stampe di fiori e marine.
— La tua amica…
Il cuore le era precipitato alle scarpe.
— Non è un’amica vera.
Assurdo. Provò a difenderla: — Sembra svanita, ma è tutta scena. È una brava persona.
Pausa. Laura lo sentì schiarirsi la gola, lo faceva sempre quando era a disagio. — L’ho accompagnata a casa. — Ancora una pausa. — È molto vivace.
— Lo so, le piace scherzare. — (preghiera di Laura: Dio, diodelcielo, se ci sei, fai che mi creda, che creda che ieri sera scherzava…)
— Mi ha chiesto di salire da lei.
Eppure, sembrava che a Pupa lui non fosse simpatico. Ma forse cercava di accomodare le cose.
— Ti ho detto che mi ha proposto di salire da lei. Non dici nulla?
— Avrà voluto essere gentile…
— Mi ha proposto di passare la notte con lei. È abbastanza chiaro o devo scendere nei dettagli?
Laura si disse che era un incubo, provò a darsi un pizzico, forse si sarebbe svegliata… La sera prima, per dormire, aveva preso un Valium, le faceva sempre effetti strani.
— Non dici nulla? Approvi?
— Ma no!
— No a cosa?
— Devi aver frainteso — borbottò Laura.
— Non ho frainteso, quando una donna, di fronte al mio silenzio alla sua proposta, mi posa una mano dove l’ha posata lei non ho dubbi.
Impossibile! Però una volta Pupa si era sbronzata e aveva cominciato a spogliarsi. L’avevano fermata in tempo…
— E non era ubriaca — puntualizzò Umberto, neppure le avesse letto nel pensiero.
Laura restò muta.
— Non mi credi? Pensi che mi sia inventato una cosa così? Che motivo avrei per farlo?
Laura aveva male allo stomaco, nausea; forse per il Valium, forse per quello che Umberto le aveva appena detto.
— Allora, tesoro?
— Ma sì, ti credo.
— Bene. Mi dispiace per quello che è successo, ma converrai con me che è opportuno che tu interrompa ogni rapporto con quella tua… — non disse “amica” e ritornò all’inizio della frase. — Dovrai accettare l’idea che quella Paola o Pupa, come la chiami tu, non sia una vera amica.
— Sì… — ma già le veniva da piangere.
— Ci vediamo questa sera?
— Anche se è sabato? — perché il sabato era di MAMMA.
— Sì, dobbiamo stare un po’ insieme, noi due soli, e festeggiare la tua casa nuova.
— Ti aspetto.
Poi si guardò allo specchio. Era un mostro. Doveva riordinare casa e sistemarsi un po’.
Ma prima doveva chiamare Pupa e dirle che… Da un’amica non si aspettava una cosa così.

Martedì sera
Perché, quattro anni fa, ho creduto all’assurda storia che mi ha raccontato Umberto, perché non sono andata a fondo della questione?
Perché Umberto mi aveva già anestetizzato la ragione, il buon senso pure.
Per Umberto ho perso la mia vita.
Dove la ritrovo?
Ho girato da idiota per la città, poi mi sono costretta a tornare a casa. Dal besagnino all’angolo ho comprato un chilo di cipolle e dal fornaio un bel pane casereccio.
Ho pianto in libertà pulendo e tagliando cipolle. Come una strega di Macbeth ho fatto l’intruglio di Zobeida.
Una volta mi sono fatta accompagnare da Umberto al Mercato Orientale; e non è stato facile. Mi ha guardato con occhi attoniti quando Zobeida, colorata montagna di carne e affetto, mi ha abbracciata e chiamata “Laurà, piccola mia” e ammiccando mi ha dato un po’ di erbe “adatte a giovani amanti”.
Mi ha guardato come prendessi una striscia di coca, invece erano coriandolo, zenzero e cannella. Oltre al peperoncino che, per Zobeida, è cura di ogni malanno curabile. Se non ti assesta il peperoncino, niente ti assesta. Parola di Zobeida.
Nel pacchetto che mi ha confezionato prima della mia partenza per Parigi ne deve aver messo una buona dose: lo sento dal profumo che sprigiona.
Cuoce piano e continuo a piangere le mie lacrime.
Piango anche mentre lo mangio.

Notte fra martedì e mercoledì
Sto male. Forse il piangere. Forse la cipolla (da quando non mangio saporito?). Sto così male che vorrei morire.
Ma prima ucciderlo.
Mai stata violenta: l’avessi fra le mani lo ucciderei, peggio, lo farei soffrire.
Lo farò soffrire. Troverò il modo per vendicarmi.

Mercoledì
Mi sono addormentata che avevo dentro un grumo di dolore, ora il pensiero con cui mi sono addormentata (la vendetta) ha scacciato tutto il resto.
Vendicarmi e riprendermelo, ma alle mie condizioni? Perché se lo odio così tanto è perché lo amo ancora.
Vendicarmi e lasciarmelo alle spalle, cercando di dimenticarlo?
Mi guardo attorno in questa camera con mobili classici, copriletto classico, lenzuola bianche con lievi motivi floreali, stampe classiche.
Non so se voglio ancora Umberto, ma di certo non voglio più questa casa. E neppure questi vestiti che ho addosso.
Apro la cabina armadio: in fondo, ma proprio in fondo, c’è quello che cerco. Non tutti i miei vestiti di prima sono stati buttati nello staccapanni. Li ho conservati ben nascosti, anche a me stessa.
I miei jeans cinquetasche stinti, gli scarponcini e i maglioni over sono ancora lì. Chissà se mi vanno ancora.
Mi infilo sotto la doccia e quando esco, per ribellione, zampetto per tutta la casa lasciando impronte. E mi vesto. Mi stanno: non saranno all’ultima moda, ma sono meglio dei sobri tailleur degli ultimi anni.
Rovescio il contenuto della mia sobria borsetta nella sacca di tela che usavo per andare in palestra, fin quando non troverò una borsa di mio gusto può andare.
Esco, libera. Come si sta bene in jeans e zainetto!
Cosa voglio? Voglio un’agenzia immobiliare.

Passo tutta la mattina a girare da un’agenzia all’altra, spiegando che cercavo un appartamento in affitto, possibilmente nella zona di San Donato, perché voglio riprendere la mia vita da dove l’ho persa.
L’ascensore non mi serve, l’importante è che ci sia tanta luce e un terrazzino. Niente doppi servizi, niente porta blindata, e se i miei vicini sono negri marocchini cinesi sudamericani mi vanno bene lo stesso, se io vado bene per loro.
Ho un lavoro? Posso offrire referenze? Le impiegate e anche gli impiegati delle agenzie mi hanno sottoposta ad interrogatori martellanti, forse stupiti dalle mie richieste. Così miti.
Sì, ho referenze, sono incensurata…
Ho un lavoro. Anche ben pagato. Ma cerco un appartamento così e cosà, non una reggia tipo tomba a Staglieno. E se è da mettere in ordine, mi arrangerò, se i proprietari mi vengono incontro contribuendo alle spese.
Ho fretta?
Non alloggio sotto un ponte. Ma preferisco concludere al più presto.
A dirla, una mattinata così, sembra snervante, invece mi sono divertita, il tempo è volato via. Ho, finalmente, avuto la sensazione di costruire qualcosa. Anzi di ricostruirmi una vita mia.
All’una, invece di tornare nel mio appartamento, decido che sono ancora in vacanza, vacanza dalla mia vita sobria e morigerata.
La tentazione di risolvere la pausa pranzo con un aperitivo e stuzzichini c’è, ma in questi ultimi giorni ho bevuto alla grande, se i miei guai non si risolvono in tempi brevi divento alcolizzata.
La salvezza per la pausa pranzo è a portata di mano: grandi magazzini e librerie fanno orario continuato.

Ho comprato l’ultimo CD degli Almamegretta, un Carlotto, una sciarpa con sbrilli e frange e una striscia di focaccia con cipolle. Esattamente nell’ordine contrario.
Arrivata nel mio appartamento, spero presto ex, trovo un messaggio sulla segreteria.
“CHIAMAMI”
Lui. Né per favore, né se puoi, né come stai.
Sì, pensa e parla in imperativo. Le tavole di Mosè al confronto sono possibiliste.
Lo chiamo.
— Ti ho cercata sul cellulare.
Non devo essermi accorta che era scarico. Ma mi rifiuto di fornire giustificazioni. — Cosa devi dirmi?
— Sei strana – ma il tono non è comprensivo, è solo accusatorio.
Eppure, è mia la colpa: il tono di oggi gliel’ho sentito tante tante altre volte, ma non ho voluto capire che mi grattava i nervi. — Mi hai chiamato per questo?
— No, sai… Volevo spiegarti.
— Ti ascolto.
— La nostra storia. — Si ferma, forse aspetta che io continui al posto suo. No, si arrangi. — Lavoriamo anche nello stesso ufficio, non vorrei… Se ci sono dei contrasti, delle incomprensioni fra di noi, nel privato, non deve risentirne il lavoro.
Traducendo: niente panni sporchi lavati in pubblico.
— E se la nostra storia deve finire, ma devi essere tu a volerlo, è importante che la nostra collaborazione, così fruttuosa, continui.
Sono stata io a collaborare con te e non viceversa. Ho corretto tutte le tue relazioni. Qualche volta le ho rifatte. E sempre con molta delicatezza, cercando di non urtare la tua suscettibilità.
Strafalcioni, incongruenze, dati non controllati… Il nostro è un lavoro di precisione, bisogna controllare che il marchio o il brevetto proposto non possa essere considerato una copia di uno già depositato.
Ma anche un lavoro creativo, per proporre brevetti giusti agli acquirenti giusti. Ero sempre io a fare l’ultimo controllo, io ad indicare la società cui proporre un brevetto. Anche quando la firma era la tua, Umberto caro Follini.
Tu farai carriera, Umberto, io rimarrò al palo. Perché tutte le volte che c’era da apprezzare uno dei due, il tuo lavoro era un po’ migliore del mio.
Certo, dedicavo più tempo e più energie al tuo lavoro che al mio.
La mia vita fa schifo. Quale è la massima di mia madre? Se la tua vita è un cesso sporco, la colpa è tua.
— Siamo persone civili — sta continuando con la sua voce soffocata. — Non vorrei che il lavoro ne soffrisse.
— Non capisco… — anche se ho capito benissimo.
— La nostra è una equipe che funziona. Vorrei che collaborassimo ancora.
Certo, la TEXA è in crescita, sta assorbendo un’altra società, c’è in ballo un posto di direttore. Ma di cosa si preoccupa cocchino bello? Sposando Clelia Samperi un posto caldo glielo troveranno sempre comunque.
— Stai tranquillo, i nostri rapporti di lavoro sono una cosa, quelli privati… — Pausa. — Sono un’altra.
Pausa e poi. — Posso venire da te? Una di queste sere? Siamo ancora in ferie.
Allora non ha capito niente. Che continui a perseverare nella sua ignoranza, lo stronzo. — No, ho qualche problema in casa…
— Posso aiutarti?
Tento, è la domanda di riserva. — Mia madre non sta tanto bene — incrocio le dita. Mi risulta che stia benissimo, non vorrei dare qualche ideuzza al destino carogna. — Vorrei andare a trovarla. Potresti venire con me. Mentre l’aiuto potresti tener compagnia a mio padre. Magari uno di questi pomeriggi.
Gelo. Forse ha fatto finta di non sentire, forse non ha sentito proprio. Deve avere un filtro speciale, brevettato, che non gli fa arrivare al cervello le frasi che potrebbero turbarlo.
Faccio finta di niente. — Allora ci vediamo lunedì… E poi vedremo.
— Sì. — Pausa. — Tesoro.
Riattacca. Tesoro un cavolo. Hai sbagliato anche la risposta alla domanda di riserva.
E ora so cosa voglio fare e come farlo. Sei così scemo che me l’hai detto a chiare lettere, cocchino di mamma e promesso sposo di Clelia Samperi.
Perché, come si dice: “Io ho du palle e tu no!”
Laura Arnolfini sale sul ring. Ho bisogno di un secondo. Uno che conosca l’avversario. Una, mi fido più delle donne.
Maura.
A quest’ora dovrebbe essere già a casa.
Provo.
Risponde.
— Ciao, Maura. Sono Laura. — Musica al massimo.
— Oh, ciao. Come va? ‘Spetta che abbasso. — Ora c’è quasi silenzio. — Dai, come va?
— Sono tornata.
— Le ferie?
— Da schifo. O forse no. — Perché in fondo mi sono divertita come non mi capitava da tanto. — Cosa fai questa sera?
— Esco.
Non è una novità, a quanto racconta esce tutte le sere.
— Con uno?
— No, ma non si sa cosa succede. Ti vuoi attaccare?
— Sì.
— Atrio del Ducale fra un’ora? Ce la fai?
— Ce la faccio.