Ho appreso l’arte di lavorare a crochet da bambina. Passavo molto tempo con Nina, la mia nonna materna, e mi capitava spesso di osservare con ammirazione la sua abilità nel cucito, nel ricamo e nei lavori all’uncinetto. Un giorno mi sono fatta coraggio e le ho chiesto di insegnarmi, avevo sì e no otto anni: lei ha accettato subito ed è iniziata la mia produzione a pieno ritmo di campioncini a punto catenella, basso e alto, realizzati con rimasugli di lana.

Si sa che la vita ci porta lontano dagli esordi: ho dovuto aspettare di rimanere incinta di mia figlia Roberta per riscoprire il piacere di realizzare manufatti a crochet interamente dedicati a lei.

Al di là di qualche lavoretto sporadico, ho trascurato quest’arte sino all’inverno 2019, periodo in cui avevo ripreso a studiare per un concorso interno legato alla mia professione di docente: l’effettuazione a punto salomon facile e veloce, un ottimo compromesso per riprendere gradualmente a lavorare a mano, era un appuntamento serale gradito dopo ore e ore di studio estenuante unito a incombenze periodiche legate alla mia mansione. Il pieno ritmo l’ho, tuttavia, raggiunto, nei primi mesi del lockdown del 2020: spesso non riuscivo a prendere sonno e cercavo di stancarmi tirando fino a tardi per ideare e poi portare a compimento progetti con lane e filati preziosi. Era l’unico antidoto all’angoscia e al senso di quelle lunghe giornate trascorse tra la preparazione delle mie lezioni in remoto per gli alunni, l’attesa che mia figlia rientrasse a casa dopo aver prestato la sua opera di medico addetto ai prelievi e l’incertezza legata a quella situazione pesante, di sospensione esistenziale, che ci avviluppava tutti e che non sapevamo ancora come risolvere.

I manufatti a crochet erano l’unica cosa che riuscivo a produrre, incapace com’ero tanto di scrivere quanto di leggere. Assieme a qualche manicaretto di riguardo, l’uncinetto era un’importante valvola di sfogo per tutta l’energia repressa che conservavo dentro di me e che non riuscivo a incanalare nel modo giusto altrove. Da quel momento in poi non ho più smesso. Neanche quando ho ripreso a scrivere e a editare un romanzo che poi è stato pubblicato.

A qualcuno potrà apparire banale, ma entrambe queste attività che arricchiscono la mia quotidianità più recente, il lavoro a crochet e la scrittura, nella mia testa e nelle mie mani procedono di pari passo con grande sinergia: forse perché entrambe, sia pure nel pieno rispetto di quelle che sono le loro intrinseche specificità, hanno tanto in comune. In primis la capacità di costringermi a fare un sistematico esercizio di pazienza: la frettolosità nello scrivere così come nell’uncinettare porta spesso a prodotti lacunosi, non eseguiti nella maniera ottimale, almeno secondo me. Fare e disfare una riga di lavoro così come editare ciò che hai già scritto o addirittura riscriverlo ex novo; rimandare il prosieguo di quanto hai intrapreso alla giornata successiva, aspettando che l’ispirazione iniziale si tramuti finalmente in un punto particolare di rifinitura o nell’escamotage che ti fa concludere in maniera verosimile una scena; tutti step che ti consentono di impiegare quella forza creativa ottenendo qualcosa di concreto e tangibile, che sia una pagina di word relativa a un racconto o al capitolo di un romanzo, una borsa granny o uno dei miei scialli e stole.   E quindi ben vengano le soste forzate o procurate; ben vengano i dubbi di mollare tutto e fare altro se, poi, il traguardo da raggiungere è un prodotto finito, scrittorio o a crochet, in cui riesci davvero a trasmettere passione e amore, delineato poco per volta, a piccoli passi o punti che dir si voglia. Con la speranza di incontrare un interlocutore, potenziale compratore o lettore, in grado di apprezzare tutti i tuoi giochi di pensiero e quei percorsi mentali che ti hanno portata a creare qualcosa di unico e di speciale: un sassolino da conservare nella scatola dei ricordi, quel contenitore dove metti ogni cosa che ha contribuito a farti diventare quella che sei. Senza per questo mettere limiti “alla provvidenza” se continuare a crescere significherà, forse, in futuro sterzare all’improvviso lungo il tragitto per evitare di perderti per strada o quel che è peggio, perderti di vista.

Lucia Guida, autrice, crocheteuse e docente, vi presenta anche il suo nuovo romanzo, “Come gigli di mare tra la sabbia”.

Michele è concierge in un palazzo d’epoca di una non bene identificata città di provincia. Per lui è punto d’orgoglio curare con grande scrupolo il buon andamento del condominio che a suo tempo gli hanno affidato e gestire con equilibro il microcosmo umano che lo popola. Con sua moglie occupa un piccolo attico di pertinenza del portierato. Al primo piano dell’edificio c’è Elena Valente, giovane segretaria in uno studio legale, assai efficiente nel lavoro ma pronta a sfuggire a qualsiasi legaccio di tipo affettivo. Al secondo piano vive Serena De Dominicis, blogger freelance, che si barcamena in un ménage familiare insoddisfacente. Al terzo piano abita Lina, affetta da demenza senile e gelosa di chiunque a suo avviso attenti alla sua pace coniugale. Alle storie di queste tre donne si intreccia quella di Elvira, moglie di Michele, donna estroversa e di cuore, che in passato ha sacrificato la propria femminilità per ridare dignità lavorativa al marito. Quattro gigli di mare, forti e tenaci, delicati all’apparenza ma dal profumo intenso che troveranno la forza di fiorire, ciascuno a suo modo e nel pieno rispetto della propria natura, con inaspettata vitalità e determinazione.

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