Se c’è una cosa che proprio detesto, da lettrice impenitente quale sono, è l’indiscriminata apposizione di un’etichetta di genere a romanzi e racconti. Peccato mortale non solo per me, si badi bene, ma per ogni vero amante di narrativa che ama scoprire da sé il sapore prevalente di un testo, anzi di più, che si sente defraudato se qualcuno gli strappa il diritto di essere il primo a battezzare quel profumo.
Non è difficile scoprire che si tratta di una palese manovra per reclutare lettori incerti, da parte di editori che hanno perduto il talento imprenditoriale e di librai che forse non lo hanno mai posseduto.
Un esempio tra tutti: in un’epoca in cui il noir spesso guida la classifica delle preferenze di acquisto, ogni storia che ruota attorno a un crimine viene spacciata come ‘noir’, e non importa se invece si tratta di un giallo classico, o di una mera indagine poliziesca e neppure di un racconto a tinte gotiche. Il noir vende, quindi evviva il noir!
Succede a volte che le etichette di genere scoraggino alcuni lettori, quelli dal palato più sofisticato, che finiscono per scartare a priori romanzi che magari varrebbe la pena di leggere.
Sono per esempio in nutrita schiera quelli che arricciano il naso davanti al marchio ‘romance’ , privandosi così del piacere di gustare piccoli capolavori di brio e di ironia.
Qualche nome tra i tanti? Georgette Heyer, indiscussa regina del romanzo storico ambientato in Inghilterra all’epoca della Reggenza, che fonde nelle sue opere un solido impianto documentale con la satira elegante della Austen, gli strali beffardi di Wodehouse e il ritmo effervescente di Coward; Barbara Pym incomparabile maestra di leggerezza, nell’accezione che Calvino dà al termine, ovvero di capacità di tessere “un velo di particelle minutissime di umori e sensazioni, un pulviscolo di atomi come tutto ciò che costituisce l’ultima sostanza della molteplicità delle cose”; Marion Beaton, giornalista e giallista, che declina in rosa con il dissacrante sarcasmo della Compton-Burnett.
Va detto poi che la qualifica ‘di genere’ apposta a qualsivoglia romanzo mi appare riduttiva e sminuente. Definire per esempio ‘poliziesco’ un racconto di Varesi interpretato dal suo commissario Soneri è volerlo privare di quella forza di penetrazione dell’attualità e di quella vis introspettiva che ne fanno invece un romanzo al contempo sociale e psicologico, senza nulla togliere all’intreccio criminale.
Lasciamo quindi da parte le etichette e godiamoci le storie, limitandoci a giudicare se chi ce le racconta è un buon narratore oppure non lo è.
Io credo che solo questo conti davvero.
E ora la parola al mio amico Mirko Giacchetti, che di storie se ne intende. E molto.
Mettere in fila parole e riuscire a comunicare qualcosa di interessante dopo quanto scritto da Giusy è un’impresa ardua, ma ci provo e potete abbandonare la lettura delle mie quattro battute quando volete.
Detto questo, i pregiudizi sono indispensabili…
Ok, non sono impazzito. Prima di ogni esperienza, ognuno di noi attraverso i (troppi) canali a disposizione ha già un’idea su cosa aspettarsi, anche e soprattutto coloro che rigettano i pregiudizi sono impantanati nel pregiudizio di non averne. La possibilità di crescere non sta nel riconfermare – o aggravare – le proprie posizioni, in questo caso ci si riduce a ignoranti incapaci di familiarizzare con qualsiasi tipo di novità, ma nel lasciarsi coinvolgere dall’esperienza e comprenderla – nei limiti del possibile e delle capacità umane – per quello che è, allargando i propri orizzonti.
Esistono i gusti, le preferenze, la formazione e la cultura, le opinioni, la storia personale e altre mille variabili che possono diversificare i giudizi e questo è necessario per far nascere discussioni e confronti civili.
Alle bestie da soma che pascolano nei social non è utile rispondere, ma offrire loro i mezzi e l’opportunità per vedere se sono davvero capaci di fare qualcosa di meglio.
I generi letterari. Distinguere per genere non credo sia mai una buona idea. Da una parte i maschi dall’altra le femmine, da una parte gli adulti dall’altra i bambini, da una parte i giusti dall’altra gli sbagliati, da una parte i bianchi e dall’altra i…
No, non è il caso adatto ed è pure razzista.
La mia è una provocazione, sia chiaro. Non possiamo vivere in un indistinto generalizzato, esistono libri brutti e scritti con i piedi e con molti altri difetti però, che senso ha perdere tempo a smontarli, criticarli e regalargli un’importanza che non meritano o dare l’opportunità alle bestie da soma digitali di tirare fuori il peggio del proprio risentimento dalla tastiera?
Per evitare acquisti e letture sbagliate esistono molti mezzi, cose come la sinossi, informarsi sull’autore, sfogliare il libro e leggerne dei brani, scaricare un’anteprima sul proprio kindle.
In merito ai generi, poi la smetto, se sono una mappa, non c’è niente di più utile per viaggiare ma, se sono dei confini da non superare mai, allora confermate i vostri pregiudizi, contate tutte le stellette di Amazon, siate ignoranti e pascolate nel vostro recinto e, per favore, non rompete le scatole a chi legge seriamente.
Anche io odio le etichette. Forse perché ciò che scrivo non è sempre facilmente etichettabile