L’Alchimia degli opposti 5 – LSDA

Raistan emerse dallo stato quasi onirico in cui era scivolato solo quando, all’ingresso della Casa Madre, si trovò davanti il Kilar Rafael con la veste rossa delle occasioni ufficiali e il volto piacente foriero di tempesta. Allora drizzò le spalle e il capo, e lo squadrò dall’alto con aria di sfida.
“La squadra sei riuscito a mandarla, alla fine, Kilar. Hai visto che non era difficile? Complimenti per l’efficienza, davvero” gli disse, con tono canzonatorio.
“Vedo che non hai perso la tua vena sarcastica, sono contento per te. Vedremo se avrai ancora tanta voglia di scherzare fra qualche giorno, quando valuteremo l’ennesimo episodio di insubordinazione da parte tua. Senza fretta, naturalmente. Conducetelo nelle segrete. Credo che le conosca bene.”
“Se il mio amico morirà per causa vostra, vi sottoporrò a tali e tanti tormenti che rimpiangerete ogni attimo che mi avrete fatto trascorrere là dentro. E questo è un giuramento solenne. Sul mio sangue e sul mio onore.”
Poco dopo, la porta blindata di una cella si chiuse alle sue spalle. Era vero, conosceva molto bene quella parte della Casa Madre. Mai, però, quelle mura gli erano sembrate così soffocanti e quella porta così invalicabile. Rimase a lungo in piedi al centro della stanzetta, immobile, a fissare le pareti bianche, asettiche, anche se le gambe gli tremavano per lo sfinimento. Un impulso irrefrenabile lo portò a lacerarsi gli avambracci nudi con i denti, fino a disseminare di gocce rosse il pavimento. “Sul mio sangue” ripeté, poi raggiunse la branda metallica e vi si lasciò cadere sopra con un lamento che nessuno udì.

IX

 

Come sempre Guillaume avvertì la presenza del Dottore prima che gli parlasse. Nonostante la debolezza ottundesse i suoi sensi, la cecità esasperava le percezioni. Fuori dalla gabbia sarebbe stato esposto a qualsiasi rischio, ma fintanto che restava all’interno di essa, concentrandosi solo sul dolore fisico e soprattutto sul tentare di non soccombere ad esso, riusciva ancora a gestire quei minimi input. Almeno fintanto che riusciva a restare sveglio. Ormai l’incoscienza lo coglieva sempre più spesso, non quella confortante del torpore, no. Era un’assenza da sé che non impediva al corpo di sentire dolore, ma che anzi ne amplificava le scariche, perché ogni volta che la sua mente scivolava via e poi rientrava, la consapevolezza esplodeva in nuove sferzate. Ma andava bene, era tutto ciò che gli era rimasto per sentirsi vivo.
Del resto Samael Janiĉek era un bastardo metodico.
Guillaume sarebbe stato pronto a scommettere che gli faceva visita più o meno sempre negli stessi orari. Non che ci fosse un modo per scandire il tempo. Tra una visita e l’altra non accadeva nulla. Nessun altro entrava nel laboratorio. Guillaume adesso sapeva che si trattava di un laboratorio, lo aveva imparato sulla propria pelle alla seconda visita del Dottore, quando era stato tramortito da una scarica di raggi più violenta delle altre. Mentre si contorceva sul fondo della gabbia, qualcuno lo aveva afferrato, sollevato e fatto stendere su un lettino, al quale era stato legato con cinghie rinforzate. Tramortito dal dolore, non era riuscito a opporsi, una condizione inconcepibile. Non riusciva a capacitarsi di che razza di patetica, inerme caricatura di se stesso potesse essere divenuto in un tempo così breve. Doveva essere imputabile alla gabbia, che gli impediva di rigenerarsi, mantenendolo ai limiti del torpore. In quell’occasione ne aveva avuto la certezza. Mentre giaceva sul lettino, e Janiĉek incideva la sua pelle per inserirvi cannule, nonostante l’immobilità cui era costretto, aveva avvertito subito le forze riprendere a fluire in lui. Era bastato quello, pochi minuti fuori dalla gabbia. Se solo fosse riuscito a nutrirsi… E ci aveva provato. Una volta che quel bastardo aveva finito con lui, era rimasto fermo, ostentando il consueto sfinimento. Non appena libero dalle cinghie, aveva afferrato l’uomo che lo tratteneva. Aveva voluto, aveva sperato fosse Janiĉek, ma ovviamente non era stato così fortunato. Eppure quando il cranio si era spezzato con un schiocco, si era figurato fosse quello del Dottore, il viso stravolto che gli si deformava tra le mani, i suoi occhi a schizzare dalle orbite. Era seguita una ragionevole concitazione, durante la quale lui aveva tentato l’unica opzione possibile: cercare una via d’uscita. Cieco, ferito, valeva comunque più di quei vermi, senza contare che, nella peggiore delle ipotesi, se avesse fallito, cosa avrebbero potuto fargli di peggio? Su questo si sbagliava. Oh sì…
“Buongiorno Signor De Joie” lo salutò Janiĉek. Guillaume non si sforzò neppure di tentare un movimento. Qualunque cosa avesse fatto sarebbe risultata grottesca, un arrancare penoso. No, meglio restare a terra, su quel fondo gelido a cui ormai si era assuefatto, le membra raccolte, per quanto gli era stato possibile. Braccia e gambe erano come gli arti di una marionetta che un burattinaio indolente avesse dimenticato sul fondo di un baule. Quando si era risvegliato e si era reso conto di cosa gli avessero fatto, era quasi impazzito.
“Vedo che è di cattivo umore” constatò il Dottore, con un tono tra il dispiaciuto e il risentito. “Spero non sia ancora per l’incresciosa faccenda dell’altro giorno. Non creda che per me sia stato piacevole reciderle i tendini, ma era l’unico modo per evitare che si abbandonasse ad altre iniziative inconsulte e pericolose per lei stesso e per i miei collaboratori. Spero comprenderà.”
Guillaume comprendeva, perfettamente. Janiĉek considerò il suo silenzio un assenso.
“Bene, oggi procederemo con la prima sessione sul Trono” aggiunse poi, con tono più allegro. Era chiaro che la prospettiva lo colmava di entusiastica aspettativa. “Sto esaminando il suo sangue, i campioni estratti l’altro giorno: davvero affascinante, credo che neppure mia cognata abbia mai visto nulla del genere. Non che lei ne capisca, detto tra noi. Lei e mio fratello rientrano nel ramo della famiglia dedito alle applicazioni pratiche, se così si può dire. Per loro la ricerca scientifica si ferma alle nozioni necessarie per eliminare i soggetti studiati, se pericolosi. Io vado oltre.”
“Certo. Lei cerca applicazioni più nobili, tipo smerciare stupefacenti alla mafia russa…”
“Signor De Joie, che bello constatare che la perdita della mobilità non ha scalfito il suo senso dell’umorismo!” si complimentò Janiĉek. “Mi auguro di non trovarmi costretto a strapparle la lingua, sarebbe davvero un peccato non poter godere della sua sagacia.”
Ah, se solo quel figlio di puttana avesse saputo quante volte quella minaccia gli era stata ventilata nel corso dei secoli! Se la situazione non fosse stata così disperata Guillaume ne avrebbe sorriso.
“Una cosa che desideravo chiederle l’altro giorno, prima del nostro alterco…”
Guillaume percepì quando le sbarre della gabbia furono rimosse. Un sollievo immediato giunse a lenire la sua sofferenza. Represse un singhiozzo di sollievo. Durò poco. Si sentì afferrare e sollevare, come l’inutile sacco di stracci che era. La consapevolezza delle braccia e delle gambe che pendevano come appendici inutili dal suo torso gli trasmetteva un senso di irrealtà. Lo fecero sedere su una superficie metallica, gelida, polsi, caviglie e collo fissati con anelli di metallo. Per tenerlo dritto, probabilmente, perché era chiaro per tutti che non sarebbe andato molto lontano in quelle condizioni.
“So che quelli come lei preferiscono essere predatori solitari” aveva ripreso il Dottore da qualche parte vicino al suo capo. Stava trafficando con qualcosa di metallico. Chissà che aspetto aveva quel fantomatico Trono che si apprestava a sperimentare. Qualcosa gli suggeriva che non poterlo vedere fosse solo un bene.
“Ma Dancenko dice che eravate in due, all’Amaranth. Sono curioso…”
Guillaume avvertì il momento esatto in cui il bisturi gli incise la carne del braccio, rivolto verso l’alto, aprendolo dall’incavo del gomito al polso. Una vertigine violenta lo colse quando il sangue prese a defluire. I suoi pensieri si agitavano come uno stormo impazzito tra il cercare di comprendere cosa stesse facendo Janiĉek e la consapevolezza che sapesse di Raistan, che potesse in qualche modo arrivare a lui.
“Sì, ma non si trattava di un collaboratore abituale” buttò lì con noncuranza, mentre anche l’altro braccio veniva aperto. Entrambe le braccia posavano su dei braccioli convessi, che probabilmente facevano defluire il sangue in un canale di raccolta. L’utilizzo del Trono iniziava a definirsi nella sua mente. “Come dice lei, siamo cacciatori solitari. Era solo un idiota prezzolato. Una volta che ha esaurito la sua utilità, mi sono cibato di lui e l’ho lasciato ad attendere l’alba sul lungo Tamigi.”
“Capisco” commentò Janiĉek comprensivo. Gli stava stringendo l’avambraccio sinistro, probabilmente per aiutare il deflusso del sangue. Era così vicino che Guillaume poteva avvertirne l’odore, nitidamente, al di sotto del leggero aroma di colonia. Non era l’odore di un uomo buono. Non era l’odore di un uomo sano.
“Non creda che io voglia spartire le mie attenzioni con altri, al momento lei è al centro del mio interesse. Ma, deve capire, nel caso dovesse capitarle qualcosa di spiacevole, nell’ambito della nostra collaborazione, devo preoccuparmi di avere un altro soggetto. Peccato abbia già provveduto a smaltire questo… come ha detto che si chiamava?”
“Non l’ho detto. Non lo so nemmeno io. Era irrilevante.”
Guillaume doveva ammetterlo, il suo leggendario talento per le menzogne aveva conosciuto performances migliori. Ma forse la sua intelligenza stava defluendo dal corpo insieme al sangue e alle ultime forze. Meglio tacere, allora, prima di fare danni. Meglio dimenticare Raistan, scacciarlo dai pensieri, prima che gli strappassero in qualche modo anche quelli. Non c’era mai stato Raistan, non era mai esistito, non per lui. Così sarebbe stato meglio, sarebbe stato più facile.

*

Quarta notte
“Kilar Rafael, forse faresti meglio a raggiungermi nelle segrete” disse il capo dei Pretoriani, gli occhi fissi sul monitor di sicurezza.
“Che succede? Qualche problema di disciplina con il nostro illustre ospite?” rispose il giudice, con una nota divertita nella voce.
“Non esattamente. Ti dispiacerebbe scendere?”
Rafael assicurò al suo sottoposto che lo avrebbe raggiunto al più presto, ma si prese tutto il tempo per abbinare la cravatta giusta alla camicia che aveva scelto. Qualunque cosa stesse succedendo, quel bastardo arrogante del Sommo Maestro non meritava la sua fretta. Era stato parecchio soddisfacente, anzi, non degnarlo di una visita, da quando lo avevano rinchiuso. Che riflettesse sulle proprie mancanze nei confronti di un’istituzione importante come il Clan dei Diurni, e sul modo di rivolgersi ad autorità come i Giudici Supremi. Non che non avesse chiesto sue notizie; era curioso di sapere se il trattamento d’urto stava funzionando, ma nessuno era stato in grado di dire quello che passava per la mente dell’Olandese, non dal suo comportamento. Pare che fosse rimasto seduto per tutto il tempo sulla branda, con la fronte appoggiata sulle ginocchia sollevate e le braccia a cingere le gambe, assolutamente immobile e silenzioso, tranne quando si coricava per il riposo diurno. Aveva rifiutato il cibo che gli era stato offerto e non aveva risposto a nessuna domanda, né dei Pretoriani né del suo assistente, Ramsey, che aveva insistito per scendere a fargli visita, ma non aveva ottenuto nemmeno un cenno di riconoscimento. Anche Chen, il guaritore del Clan e amico di lunga data di Raistan, era stato ignorato allo stesso modo, e aveva lasciato la cella sconsolato, quasi sull’orlo delle lacrime.
E adesso cos’era quella novità? Forse il Sommo Maestro era rinsavito e aveva deciso di scusarsi per il suo comportamento? Il Kilarmeth non aveva ancora deciso quale punizione infliggergli, ma molti erano concordi sul fatto che dovesse essere esemplare. Un paio di loro propendevano addirittura per qualche giorno di crocefissione; altri due optavano per un bel trattamento a base di UVA, capace di riportare a più miti consigli anche il più irragionevole dei vampiri; i due rimanenti non si erano ancora pronunciati. Personalmente, Rafael pensava che la sensazione di impotenza derivante dalla prigionia fosse già la tortura peggiore a cui avrebbero potuto sottoporlo. Inoltre non riteneva saggio umiliarlo troppo, con punizioni fisiche; primo, conosceva troppo bene Van Hoeck per illudersi che avrebbero ottenuto qualche risultato; secondo, la conversazione avuta il giorno prima con il suo assistente aveva confermato un timore che già aveva: a parte i Pretoriani, l’esercito dei Diurni era molto legato al loro capo e non vedeva di buon occhio quella manifestazione di forza nei suoi confronti.
“Dovete capire, Kilar… prima di essere il Sommo Maestro, Raistan Van Hoeck è stato per più di un secolo il loro Generale Supremo. I più anziani hanno combattuto al suo fianco innumerevoli battaglie e ottenuto un numero di vittorie impressionante. Lo considerano uno di loro. C’è molto malumore, fra le truppe, che non comprendono il motivo del suo imprigionamento. In fondo, avrebbe voluto una squadra per impegnarla in un combattimento, per salvare la vita di un vampiro antico. Pensano che questo sia lo scopo ultimo del Clan…” aveva detto Ramsey, evitando il più possibile di incontrare lo sguardo del Kilar, seduto alla scrivania nell’enorme ufficio che occupava. Rafael, invece, non gli aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno per un attimo, divertito suo malgrado dall’audacia del piccolo vampiro. E dire che Van Hoeck non mancava mai di maltrattarlo…
“Il tuo capo considera le truppe del Clan come una sua proprietà, e i membri del Kilarmeth come suoi sottoposti. Questo stato di cose deve cambiare” gli aveva risposto, gelido. Era stato allora che Ramsey lo aveva sorpreso del tutto: “Di sicuro, la sua carica non è inferiore alla vostra, esimio Kilar…” era sbottato, con voce per una volta decisa e ben udibile. Subito dopo si era reso conto di quello che aveva detto, e del tono con cui lo aveva detto, e si era rattrappito su se stesso come se si aspettasse di essere colpito da un fulmine.
“Farò finta di non aver sentito quest’ultima frase, Ramsey. Vai. Terrò conto delle tue altre osservazioni, invece. Ti ringrazio.”
“Al tuo servizio, Kilar Rafael” aveva sussurrato il piccolo Immortale, dileguandosi con la velocità di un battito di ciglia. Non si poteva mai sapere, vero, che cosa passava per la testa di quei matti dei Giudici?

Quando aprì la porta blindata che dava sul corridoio su cui si affacciavano le celle, una decina in tutto, la prima cosa che udì fu una serie di colpi ritmici, lenti e pesanti, come di qualcosa che cozzava contro una superficie metallica. Il capo dei Pretoriani uscì dall’ufficio degli addetti alla sicurezza e gli rivolse un breve inchino.
“Allora? Che sta succedendo? Cos’è questo rumore?”
“Seguimi, Kilar” gli disse il rosso, facendogli strada nella piccola stanzetta disadorna, in cui gli unici arredi erano una scrivania sormontata da diversi piccoli monitor e una sedia, oltre a uno schedario contro la parete più lontana dalla porta. Girarono attorno al tavolo, e la guardia gli indicò lo schermo che forniva una panoramica sulla cella numero 7, quella in cui Raistan era rinchiuso ormai da cinque giorni.
“È da quando si è svegliato, intorno alle tre di oggi pomeriggio, che va avanti così. Ho verificato mandando indietro la registrazione. Prima, mentre ancora dormiva, sembrava soffrire. Soffrire fisicamente, dico. Non ho mai visto un vampiro con il sonno tanto disturbato. E anche con risvegli tanto precoci. Voglio dire, il sole tramonta verso le 18.00… che cosa può provocarli? Mi è sembrato giusto informarti, Kilar. Che cosa suggerisci di fare?”
Rafael continuò a fissare lo schermo, in cui una figura dai lunghi capelli chiari, con il volto striato di nero – non era difficile immaginare la natura delle striature, né il loro colore originale – si avventava ogni pochi istanti contro la porta con ogni mezzo a sua disposizione. Calci, spallate, pugni, a volte persino testate, con lenta e incrollabile determinazione, ancora e ancora e ancora. A volte si afflosciava al suolo, ma subito dopo si rialzava e ricominciava, il tutto nel più completo silenzio. Il Kilar consultò l’orologio da polso.
“Vuoi dire che fa così da… cinque ore?”
“Sì, Giudice. Abbiamo cercato di farlo smettere. Abbiamo anche usato qualche breve scarica di UVA, per dissuaderlo, ma non c’è stato verso. Sembra… impazzito. Se il Clan lo sapesse… ecco…”
Evidentemente, anche il Pretoriano condivideva la stessa preoccupazione di Ramsey e di Rafael.
“Portami da lui. Voglio entrare a parlargli.”
“Non senza scorta!”
“E allora procurami questa dannata scorta, Riley. Muoviamoci, prima che butti giù la porta.”
Il pretoriano digitò un numero sul telefono appoggiato sulla scrivania; pochi istanti dopo, due soldati armati affiancarono lui e il giudice lungo il corridoio, scialbo e disadorno come le celle che ospitava.
“Voglio armi caricate con proiettili sedativi. Se il nostro amato Sommo Maestro si trasformasse in cenere in seguito all’intervento della nostra Guardia personale, ci sarebbero un po’ troppe spiegazioni da dare al resto del Clan.”
“Pretoriani, sostituire le armi” comandò il caposquadra; i fucili vennero abbandonati in favore di pistole dalla lunga canna.
“Aprite e preparatevi a contenerlo, se sarà necessario” ordinò il Giudice che, invero, avrebbe preferito di gran lunga essere nel proprio ufficio, davanti al computer, a giocare in borsa, anziché dover avere a che fare con quello psicopatico.
“Al mio tre, si apre e si costringe Van Hoeck contro la parete di fondo. Manette pronte.”
“Solo se sarà assolutamente necessario, chiaro?”
“Come desideri, Kilar Rafael. Uno… due… tre!”
Veloci come refoli di vento, i tre militari fecero scattare la serratura e si precipitarono all’interno della cella, afferrando Raistan per le braccia e trascinandolo dalla parte opposta della stanza, per dare modo al loro superiore di entrare senza pericolo. L’olandese oppose una certa resistenza, ma dopo pochi istanti cedette e quasi si afflosciò nella loro presa ferrea. Dal vivo era molto peggio di come appariva nel video; il sangue sgorgava copioso da alcuni profondi tagli sulla fronte, coprendogli quasi del tutto il viso e impiastricciandogli i capelli; anche le mani sembravano essere passate in un tritacarne, con le nocche escoriate fino ad esporre la carne viva e alcune unghie spezzate in profondità. Soprattutto, fu lo sguardo di Raistan a trasmettere una leggera fitta di inquietudine al Kilar. Era quello di qualcuno che aveva superato già da un po’ il punto di rottura.
“Che diavolo pensi di fare, Van Hoeck? Sei impazzito?” abbaiò Rafael, rivelando nel tono aspro tutto il disagio che provava in quel momento.
“Devo uscire. Devo andare. Gli stanno facendo cose, tu non capisci. Tu non puoi capire. Ti prego, lasciami andare. Ti supplico, Giudice. Te lo chiedo in ginocchio se vuoi, non mi importa. Mi sono già inginocchiato una volta, davanti a voi, lo farò di nuovo. Farò quello che vorrete. Per favore, lasciami tornare a Londra.” Il tono monocorde e lo sguardo spento con cui queste parole vennero pronunciate avrebbero riempito di gioia i suoi colleghi, perché testimoniavano la resa interiore a cui Raistan aveva dovuto costringere se stesso, ma non diedero alcuna soddisfazione a Rafael che, suo malgrado, aveva sempre apprezzato l’Olandese per il suo coraggio e la sua lealtà. Distolse lo sguardo, anzi, e serrò la mascella, desiderando lasciare al più presto quella stanza.
“Lasciatemi. Voglio inginocchiarmi, lasciatemelo fare. Guardami, Kilar, ti sto pregando. Per favore. Porta qui i tuoi colleghi, supplicherò anche loro. Farò tutto quello che mi chiederete di fare, te lo giuro, ma non condannatemi a… a sentirlo morire… senza poter muovere un dito per salvarlo. Ti scongiuro, Kilar.”
“Alzati, Van Hoeck, per dio, sei uno spettacolo patetico! Che cosa direbbero i tuoi uomini a vederti in questo stato? Tiratelo su, per tutti i diavoli!”
“No. Non mi importa. Voglio restare qui in ginocchio. Ti prego, Kilar. Non volevo mancarvi di rispetto. Non succederà più. Per favore…”
Senza più rispondere, Rafael lasciò la cella. Era furioso con quel pazzo di Olandese, certo, ma anche con se stesso, perché non riusciva a impedirsi di provare qualcosa di molto vicino all’imbarazzo e alla vergogna. Desiderò non essere mai entrato in quella cella, da cui provenivano nuovi tonfi, adesso che la porta era stata richiusa.
“Non voglio più essere importunato per questa faccenda, a meno che Van Hoeck non trovi il modo di suicidarsi o di fuggire, chiaro? Sparategli uno di quei vostri proiettili sedativi e trovatevi qualcosa di meglio da fare che stare ad ascoltare lui, chiaro?”
“Come desideri, Giudice.”
“Fatelo. Adesso. Sono stufo di questi colpi.”
A un secco cenno del caposquadra, uno dei due soldati di scorta tornò sui propri passi, aprì la feritoia e sparò un dardo contro Raistan, centrandolo al torace. Dopo pochi istanti, nessun suono proveniva più dalla cella numero 7. Rafael tirò un sospiro di sollievo, poi tornò nel proprio ufficio e indisse una riunione d’emergenza con i propri illuminati colleghi.
Fu solo dopo varie ore di animata discussione che i membri del Kilarmeth giunsero ad un accordo. Rafael uscì dalla sala dove si era svolto il tempestoso incontro portando con sé un documento che Van Hoeck avrebbe dovuto firmare senza porre condizione alcuna, altrimenti il suo soggiorno nelle segrete avrebbe potuto protrarsi a lungo e ad esso sarebbero seguite sanzioni davvero poco piacevoli. In ogni caso, gli avrebbe lasciato smaltire gli effetti del sedativo e riflettere ancora un po’ sul suo disdicevole comportamento. Non gli sarebbe piaciuto quello che il documento recava scritto, su quello non aveva alcun dubbio, ma era anche certo che lo avrebbe firmato. Perché non aveva alternative. Perché lui stesso si era posto in una tale condizione di inferiorità. Dannato Olandese…
Di un’altra cosa era sicuro, conoscendolo: prima o poi avrebbe presentato loro il conto per quello che aveva passato in quei giorni, sempre che il suo amico fosse ancora vivo. In caso contrario, i Pretoriani e il Kilarmeth avrebbero fatto bene a prepararsi per una guerra interna senza precedenti. Probabilmente avevano ragione i suoi colleghi che suggerivano di eliminare il loro scomodo superiore, facendo passare il malaugurato evento per un suicidio – oh, triste accadimento, quale tragedia – ma il suo personale senso di giustizia, quella che aveva sempre cercato di perseguire ad ogni costo da centinaia di anni, si ribellava con forza a quella scelta. Forse se ne sarebbe pentito, forse no, ma non poteva fare altro.

Quinta sera

“Il Kilar Rafael è al tuo cospetto, Sommo Maestro. Guardalo” dichiarò il comandante dei Pretoriani, anticipando, assieme a due dei suoi sottoposti, l’ingresso del Giudice nella cella di Raistan. Lui era raggomitolato sulla branda, voltato verso il muro, e non diede segno di essersi accorto del loro arrivo se non quando il militare lo toccò sulla spalla col calcio del fucile. Allora gli rivolse un ringhio, ma non si voltò e tanto meno si alzò.
“Peccato che tu sia così scontroso, Van Hoeck. Porto buone notizie. Non vuoi sentirle?”
Passarono diversi secondi prima che Raistan si degnasse di rispondere. Ormai aveva perso ogni speranza.
“Buone notizie per chi?” chiese in un sussurro.
Percepì qualcosa di leggero cadere sulla branda, alle sue spalle, e si costrinse a voltarsi. Era una specie di pergamena, o qualcosa del genere.
“Cos’è?” chiese, mettendosi lentamente a sedere. Aveva un aspetto spaventoso, e il sangue versato la sera precedente gli si era solidificato sul viso e sulle mani formando una specie di crosta nerastra in cui gli occhi spiccavano come schegge di ghiaccio.
“Leggilo. Dopodiché ti consiglio vivamente di firmarlo. È il tuo lasciapassare. L’unico che hai.”
Raistan raccolse l’involto e lo aprì, scorrendolo con lo sguardo. Quando arrivò al fondo, la sua mascella era così serrata che Rafael udì chiaramente i suoi denti scricchiolare nel cranio.
“È un ricatto. Un fottuto ricatto.”
“No, è un accordo che porterà vantaggi a entrambe le parti. Siamo vampiri, non facciamo niente per niente, non è così?”
“Ma in questo modo non potrò più…” sussurrò l’Olandese, fissando il foglio con sguardo non più irato, bensì smarrito.
“Potrai tentare di salvarlo. Non è questa la cosa davvero importante?”
Sì. Lo era.
“Dammi una cazzo di penna.”
“Molto saggio, da parte tua, Sommo Maestro. Eccoti la biro, ed ecco anche gli effetti personali che ti sono stati sottratti al tuo arrivo. Potrai servirti del nostro jet per tornare a Londra, ma senza alcun supporto da parte del Clan in termini di uomini, questo sia chiaro. E, a missione compiuta, qualunque sia il suo esito,ci aspettiamo che tu mantenga fede al patto che stai per firmare.”
Raistan rilesse il documento per la terza volta, poi strappò la penna dalla mano del Kilar e appose la sua firma in calce, cercando di impedire alla propria di tremare. Gli parve che una porta si fosse chiusa davanti a sé, quando lo riconsegnò a Rafael.
“Se posso permettermi un consiglio, vai a darti una sistemata nei tuoi alloggi, mentre finiscono di preparare l’aereo. Dopodiché, ringraziami, perché senza la mia intercessione a tuo favore le cose avrebbero potuto andare molto, molto peggio. Hai ancora una speranza di salvare il tuo amico, ed è tutto merito mio e del tuo assistente. Mi devi un favore, Sommo Maestro. E io non dimentico.”
“Nemmeno io, Kilar. Mai.”
Raistan si alzò a fatica dalla branda, lasciò cadere ai piedi del Giudice il documento firmato, poi gli sfilò davanti senza degnarlo di uno sguardo.

Londra
“Ce l’hai fatta, allora. Tutto bene?”
Greylord andò a prendere Raistan all’aeroporto, quella notte. Gli bastò guardarlo in faccia, dopo che il vampiro fu salito in macchina, per rendersi conto che era una domanda stupida.
“Ho perso quasi una settimana e ho dovuto firmare un accordo con cui mi tengono per le palle. No, lycan. Non va tutto bene.”
“Che accordo?”
“Non ho voglia di parlarne. Portami a casa, per favore.”
“Non vuoi venire da me?”
“No. Ho bisogno di stare da solo per un po’. Ci muoviamo domani, lycan. Fai che tutto sia pronto.”
“Lo sarà.  Dieci uomini ti bastano?”
“Non sono in grado di dirlo. Potrebbe bastarne uno, oppure non essere sufficiente un esercito. Voi però non muoverete un dito fino al momento che abbiamo stabilito, d’accordo?”
“Io continuo a dire che mi sembra troppo rischioso…”
“Fai che non lo sia. Grazie per il passaggio. Ci sentiamo domani al tramonto, ok?”
“Va bene. E… vampiro…”
“Cosa?” chiese Raistan, una volta sceso dalla BMW.
“Rimettiti in sesto. In questo stato non riusciresti a farcela nemmeno in un asilo.”
“Per questo ho bisogno di te.”

Il cottage gli diede il suo triste benvenuto, silenzioso e freddo com’era. Senza accendere le luci, Raistan attraversò il salone e raggiunse la camera da letto, evitando di guardarsi troppo intorno. Tutto gli ricordava Guillaume, là dentro. I mobili che lo aveva aiutato a scegliere, un libro sul comodino dalla sua parte, persino una camicia abbandonata sulla poltrona accanto al letto. Imponendosi di tenere imbrigliate le proprie emozioni, si spogliò e si spostò nel bagno, dove aprì l’acqua della vasca e attese che fosse piena. Era stato il francese a insistere perché installasse anche quella, accanto alla doccia; secondo lui, una sala da bagno non era tale, senza una vasca ampia come una piscina. Alla fine vi si immerse, accogliendo con un sospiro l’abbraccio dell’acqua calda e lasciando che lo sommergesse completamente. Aveva assoluto bisogno di recuperare almeno in parte le forze, almeno qualche stilla di energia fisica e mentale. Si lasciò scivolare nell’animazione sospesa, per non essere costretto a pensare.
Quasi un’ora dopo, con gesti meccanici, uscì dalla vasca, si asciugò e indossò un semplice paio di pantaloni sportivi, poi si spostò in cucina. Mise a intiepidire tutte le sacche di sangue che trovò nel frigo e le scolò una dopo l’altra, appoggiato al tavolo, lo sguardo perso nel vuoto, senza nemmeno accorgersi del loro gusto. Non era importante. Solo cibo.
Sentiva l’alba incombere fuori dalle finestre sigillate e aggiungere stordimento alla stanchezza orribile che lo tormentava da giorni. Non era più riuscito a dormire decentemente e si svegliava sempre molte ore prima del dovuto, con effetti disastrosi. Buttò la plastica delle sacche nel lavandino, spense la luce e tornò in camera, dove si rassegnò a coricarsi in quel letto che gli sembrava troppo grande. Triste come ci si abituasse in fretta alle cose belle, e come fosse difficile fare un passo indietro. Rimase a fissare il soffitto in penombra per quasi un’ora, il corpo rigido come una tavola, le mani contratte, lottando consapevolmente contro l’impulso di allungare il braccio sinistro per toccare quel corpo che non c’era. Alla fine si spostò nel soggiorno e si lasciò cadere sul divano di pelle nera; accese la TV e permise al brusio delle voci provenienti dall’apparecchio di accompagnarlo nel sonno.

*

Il giorno successivo, Raistan aprì gli occhi alle cinque del pomeriggio. Dalla TV provenivano le voci eccitate dei concorrenti di un gioco a premi. Lui rimase immobile ancora a lungo, cercando di percepire i segnali provenienti dal proprio corpo. La forma perfetta era un’altra cosa, ma essersi potuto nutrire in abbondanza e aver dormito un numero di ore ragionevole lo avevano rimesso abbastanza in sesto. Nessun segnale da parte di Guillaume. Silenzio assoluto. Se solo non fosse stato troppo tardi…per favore, Fiorellino, resisti. Sto arrivando. Stanotte questo incubo finirà, in un modo o nell’altro. Ti tirerò fuori da lì, oppure morirò nel tentativo. Tanto, qui da solo non voglio più stare.
Il sole sarebbe tramontato da lì a un’ora e mezza, ma non avrebbe avuto senso raggiungere l’Amaranth prima delle dieci di sera; in ogni caso c’erano cose che doveva fare, prima. Cose di vitale importanza. Atropo riprese il sopravvento e guidò i suoi gesti con la precisione che gli era propria. Nulla doveva essere lasciato al caso, nemmeno i vestiti che avrebbe indossato quella sera. Erano le sette, quando uscì di casa per raggiungere una persona che meritava un po’ della sua attenzione, ma che non ne aveva ricevuta molta, in quei giorni. Anche quella era una cosa di vitale importanza.

*

Quando aprì la porta dell’appartamento di Guillaume a Belgravia, notò per prima cosa l’odore del francese che ancora permeava ogni cosa, anche se quello della ragazzina stava prendendo il sopravvento. Non ebbe tempo di fare ulteriori considerazioni in proposito, perché Eloisa gli corse incontro e lo travolse in un abbraccio.
“Oh, Dio, allora non mi avete abbandonato tutti! Dove sei stato? Perché non mi hai più chiamato?! Io sto impazzendo, qui, senza sapere cosa succede! Hai trovato mio zio? Non sarà mica… è questo che sei venuto a dirmi? Non…”
Raistan le prese il viso fra le mani con delicatezza, e le rivolse un sorriso dolce.
“Shhh, piccola. Va tutto bene. Stanotte andrò a liberarlo, non ti devi preoccupare. Mi dispiace di non averti più chiamato, ma non potevo. Fidati di me. Te lo riporterò, va bene?”
Esprimerle tutte le proprie paure e i propri dubbi non sarebbe servito a niente, quindi li tenne per sé.
La stretta di Eloisa si fece ancora più forte. Solo in quel momento Raistan si accorse della presenza di un umano nel soggiorno: era Douglas Kane, il loro commercialista, ormai assurto al rango di baby sitter a causa degli eventi catastrofici degli ultimi giorni. L’uomo alzò una mano in un impacciato gesto di saluto, a cui il vampiro rispose con un cenno del capo appena abbozzato. Il disagio dell’umano e la sua paura erano palesi; stava guardando con apprensione Eloisa, chiedendosi come facesse ad avere un atteggiamento così rilassato con un essere come lui.
“Voglio rassicurarla, signor Van Hoeck: mi sono premurato che Eloisa frequentasse la scuola regolarmente, in questi giorni, e che mangiasse come si deve. Ho saputo che il signor De Joie si trova in una spiacevole situazione. Mi lasci dire che spero che tutto si risolva per il meglio. Nel frattempo, potete contare sulla mia presenza, come è sempre stato.”
“Sono contento di sentirglielo dire, Kane. Entrambi teniamo molto a Eloisa. Farà meglio a tenerci anche lei.”
“Oh, ma senza dubbio, io… ehm… farò tutto il possibile per… ehm…” Il volto del povero Douglas era virato alla velocità della luce verso il color cenere, ma Raistan non lo stava già più guardando, la sua attenzione focalizzata sulla ragazza. Appariva stanca e molto più pallida del solito.
“Si sta comportando bene con te?” le chiese, indicando l’umano, che deglutì in maniera rumorosa e sgranò gli occhi.
“Sì, lui è a posto. Però è una frana, a Final Fantasy. Giocheremo di nuovo insieme, vero, Seph?” rispose lei, l’ombra di un sorriso sul volto acerbo.
Raistan pensò a quello che lo attendeva quella sera, e al patto scellerato cui aveva dovuto sottostare con i bastardi del Kilarmeth, ma si costrinse a sorridere ugualmente e le baciò la fronte.
“Certo. E ti straccerò come tutte le altre volte, ragazzina” disse, con un ghigno.
“Perché ti lascio sempre vincere…” commentò lei, con un’eco dell’antica irriverenza, facendolo sorridere ancora.
“Adesso devo andare. Tu vai a letto presto e mangia tutte le verdure, d’accordo?”
“Ok, ok… che noioso… siete tutti uguali, voi grandi” rispose Eloisa, ma sorrideva mentre lo faceva. Tornò ad abbracciare l’Olandese che rispose brevemente alla stretta e poi allontanò la ragazzina da sé, fissandola come a volersi imprimere nella memoria i suoi lineamenti.
“Mi raccomando” aggiunse, baciandole la testa, per poi sollevare lo sguardo e inchiodare sul posto il povero commercialista, che impallidì ancora un po’.
Si voltò e si avviò verso la porta, ma Eloisa lo richiamò per l’ultima volta.
“Dì al capo che gli voglio bene. E ne voglio anche a te.”
Raistan le strizzò l’occhio, poi uscì nella notte fredda.

h.22.15 presso l’Amaranth

“Allora, controlliamo per l’ultima volta i trasmettitori. Numero uno?” disse Raistan con tono efficiente.
“Attivo. Però devo…”
“Numero due?”
“Ehm… attivo. Stavo dicendo che…”
“Il furgone numero due è sul retro? Hanno anche loro i ricevitori?”
“Sì, ma…”
“Statemi incollati come cozze allo scoglio e andrà tutto bene. Io vado dentro a movimentare un po’ la serata a quegli stronzi. Voi interverrete solo quando saremo arrivati alla meta, d’accordo? Tenetevi in contatto fra di voi e non fate casini.”
“Sì, ma tu…”
“Io starò bene.”
“E se Dancenko non ci fosse, ma qualcuno ti riconoscesse lo stesso dall’altra volta? Raistan, sul serio, mi sembra una follia. Ci sono migliaia di cose che potrebbero andare storte! Io dico di entrare tutti insieme e di costringerloa modo nostro a sputare le informazioni che ci servono!”
“Ne abbiamo già parlato, lycan, mi stai solo facendo perdere tempo! Io vado. Ci vediamo dopo.”
“Cazzo, vampiro…”
Raistan scese dal furgone, si riavviò i capelli e puntò all’altro lato della strada, su cui si apriva l’ingresso affollato dell’Amaranth.
“Si va in scena, Fiorellino. Guarda il tuo Olandese come riesce bene a fare la figura dell’idiota” sussurrò Raistan, avvicinandosi con passo deciso al gruppo di umani e umane più o meno discinte che aspettavano il loro turno per entrare nel locale. Ignorò file e precedenze e si fece largo a spallate fra di loro, suscitando proteste e insulti. Naturalmente, quando si accorgevano della stazza del prepotente, tacevano subito e si facevano da parte con precipitazione. In pochi istanti, si trovò di fronte al grosso buttafuori dai capelli a spazzola, e lì incominciò lo spasso. Il tizio sgranò gli occhi in un lampo di riconoscimento, portando la mano verso il bavero della giacca, forse per estrarre un’arma, ma il vampiro lo afferrò per la gola e puntò lo sguardo nel suo.
“Mi lascerai entrare senza muovere un dito, ma impedirai l’ingresso a tutte queste persone. Il locale è chiuso, da questo momento in poi. Fatto questo, andrai nel bar là di fronte e ti prenderai la sbronza più clamorosa della tua vita. Non risponderai a nessun appello o telefonata proveniente dall’Amaranth, chiaro?”
“Sì… chiaro…” borbottò l’uomo, facendosi da parte per lasciarlo passare.
“Bravo. Buona serata” disse Raistan, varcando la soglia.

Un muro sonoro lo accolse, regalandogli per un attimo una spiacevole sensazione di vertigine. Gli occhi si abituarono immediatamente alla penombra del locale, permettendogli di sondare l’ambiente alla ricerca del proprio obiettivo. Certo non era facile, con tutta quella gente, di cui percepiva odore e flussi di pensieri sconnessi qua e là. Immobile poco oltre il guardaroba, della cui addetta aveva ignorato l’offerta di un posto per la sua giacca, Raistan analizzava ogni viso maschile, pregando con tutto se stesso di trovare il piccolo bastardo da cui dipendeva ogni cosa, ma per il momento di lui non c’era traccia. Temendo di dare troppo nell’occhio, se avesse stazionato ancora a lungo in quel punto, si impose di addentrarsi fra i divani disposti tutti attorno alla pista da ballo, affollata fino all’inverosimile. I lampi delle luci stroboscopiche lo infastidivano, violenti com’erano; l’impressione che tutti si muovessero a scatti, come automi, era fastidiosamente accentuata per lui, con la sua vista più sensibile di quella dei mortali.Il ritmo martellante della musica techno non lo aiutava certo a dominare il senso di stordimento che minacciava di coglierlo da un momento all’altro.
Fu Dancenko ad accorgersi di lui un secondo prima che Raistan lo individuasse; per un attimo, i loro sguardi si incrociarono, poi accaddero due cose, quasi in contemporanea: il russo balzò in piedi come se una molla nel suo sedile lo avesse proiettato verso l’alto; il vampiro esplose in un ruggito bestiale e prese a scavalcare divani e poltrone per raggiungerlo, scaraventando a terra chiunque avesse la sfortuna di trovarsi sulla sua strada. Gli scagnozzi di Dancenko non compresero immediatamente il motivo della fuga del loro capo, ma reagirono come qualsiasi guardia del corpo ben addestrata, creando un muro di corpi davanti a lui ed estraendo le armi all’unisono. Non ebbero il tempo di fare molto altro, perché l’Olandese li travolse con la violenza di uno tsunami e con la velocità di un’ombra, scaraventandoli a terra come birilli, alcuni di loro col collo spezzato. Il piccolo russo, che si era voltato a valutare la distanza, emise uno strillo davvero poco virile e aumentò la propria andatura, per quanto le sue gambe corte gli permettevano. Se solo fosse riuscito a raggiungere la porta blindata che dava sul suo ufficio… dove cazzo erano Boris e i suoi uomini, adesso che gli servivano?! Che qualcuno chiamasse la Polizia, l’esercito, l’Armata rossa! C’era quasi! C’era quasi! Udiva distrattamente le urla di panico dei clienti che riuscivano persino a sovrastare il volume della musica, mentre percorreva gli ultimi metri che lo separavano dalla salvezza; quando si convinse che forse ce l’avrebbe fatta davvero, una spinta alle spalle lo mandò a schiantarsi quasi in volo contro la porta, provocandogli una dolorosa frattura del setto nasale. Un attimo dopo stava fissando molto, troppo da vicino il volto spaventoso del vampiro, le enormi zanne sguainate a pochi centimetri dalla sua faccia stravolta, con la sua mano che gli artigliava la camicia.
“Dov’è? Dimmi dove lo avete portato, bastardi. Dimmelo subito, se non vuoi che ti squarci la gola, pezzo di merda di un umano!!” urlò Raistan che,per dirla tutta, stava aspettando con una certa dose di rassegnazione il momento in cui gli sgherri si sarebbero ripresi dallo sfondamento di pochi minuti prima e gli sarebbero stati addosso. Avrebbe lottato, ma non al massimo delle proprie possibilità, e avrebbe permesso loro di avere la meglio su di lui. Da predatore a preda, proprio come Guillaume. E, se il suo istinto non sbagliava, presto si sarebbe ritrovato nello stesso posto in cui avevano portato lui.
“Io… io non so… di cosa sta parlando…” balbettò Dancenko, guardandosi intorno con aria stravolta, cercando aiuto. Raistan lo staccò dalla porta solo per risbattercelo contro con ancora maggiore violenza, facendogli vibrare il cranio per l’impatto e strappandogli un altro strillo terrorizzato; si guardò alle spalle e, nel fuggi fuggi generale verso l’uscita, vide una torma di uomini che si stavano dirigendo verso di loro. Se ne sarebbe occupato di lì a poco.
“Ah, non lo sai. Il mio amico, Guillaume De Joie. Dimmi dov’è! Dimmelo!!”
Afferrò l’umano per un polso e glielo torse con un movimento fulmineo, registrando con piacere lo schiocco secco dell’osso che si spezzava e il suo grido di dolore, che sovrastò anche le urla e le imprecazioni degli uomini che stavano sopraggiungendo alle sue spalle. E dire che avrebbe potuto incantarlo, ucciderlo e schizzare fuori nel giro di pochi istanti… ma se qualcuno dei suoi sgherri avesse avvertito chi teneva prigioniero Guillaume, avrebbe rischiato di metterlo in grave pericolo. Più di quello che già era, insomma.
Fatevi sotto, teste di cazzo, quanto vi ci vuole?!
Quel pensiero, fatto soltanto di esasperazione e di desiderio che tutto finisse, fu spazzato via da un lampo di luce blu che non lo accecò solo perché dava la schiena alla fonte, ma che lo privò all’istante di ogni energia, donandogli in cambio la sensazione di aver preso fuoco a partire dalla parte posteriore del corpo. Aprì la bocca per urlare, mentre crollava in ginocchio portando con sé Dancenko, che ancora teneva per la camicia a brandelli, ma non ci riuscì e ancora la sensazione di ardere non lo abbandonò, anche se non vedeva fiamme né sentiva odore di bruciato. Nel momento in cui si voltava, scorse per un istante un uomo gigantesco, dai capelli cortissimi di un biondo argenteo simile al suo, incombere su di lui reggendo quasi con noncuranza quella che aveva tutta l’aria di essere una mazza chiodata, un ghigno soddisfatto stampato sul volto squadrato.
Che cazzo?! pensò, poi l’attrezzo, dotato di micidiali spuntoni d’argento, gli si abbatté con violenza estrema sul lato sinistro del cranio, facendogli esplodere nel cervello un lampo bianco di dolore quale non aveva mai provato in tutta la sua lunga vita.
“Il tempismo è tutto, signori” dichiarò il bestione, osservando con sguardo distaccato il corpo del vampiro che si contorceva sul pavimento, preda delle convulsioni. “Il Dottor Janiĉek sarà molto, molto soddisfatto dell’esito di questa serata. Tiratelo su e preparatelo per il trasporto” ordinò agli uomini che lo circondavano.
“Non subito, signor Boris. Anche io e i miei uomini abbiamo diritto a una certa dose di soddisfazione, dopo quello che lui e il suo amico hanno combinato qua dentro, per non parlare della vendetta per la morte del nostro compianto Anatoly…” disse Dancenko, fingendoun dispiacere che non provava e stringendosi il polso fratturato. L’uomo chiamato Boris lo squadrò con fastidio, poi gli lanciò un paio di manette di un metallo quasi bianco, che il piccolo russo quasi fece cadere nella foga di afferrarle.
“Mi sembra giusto. La notte è ancora lunga. Avvertirò il Dottor Janiĉek, e nel frattempo voi potrete avere un po’ di svago. Un consiglio: usatele, ma non stropicciatelo troppo. Il dottore ci tiene ad avere merce di prima scelta” disse, poi estrasse il cellulare da una delle numerose tasche dei pantaloni di foggia militare e si allontanò, la mazza appoggiata alla spalla, come un giocatore di baseball.

*

Raistan riprese i sensi un poco alla volta, riacquistando coscienza del proprio corpo un pezzo dopo l’altro. Avvertiva ancora quel terribile bruciore nella schiena, ora nuda;la testa, dal lato sinistro, era un’unica massa di dolore pulsante, maligno. Ebbe in ogni caso l’accortezza di non muoversi e di non emettere nessun suono, per valutare con calma la propria condizione. Percepiva del robusto metallo cingergli i polsi e tendergli le braccia all’infuori, con le gambe piegate sotto di sé, ma non abbastanza per inginocchiarsi né per stare eretto. Una posizione decisamente scomoda, ma che non contrastò per non far capire agli uomini che lo circondavano che si era svegliato. Sentiva voci attorno a sé, che si esprimevano in russo. Peccato non comprendere che cosa dicevano: avrebbe potuto essergli utile per capire le successive mosse di quei bastardi. Quanto tempo era trascorso? L’ultima cosa che voleva era che Greylord, preoccupato, facesse irruzione con i suoi lupi, vanificando tutto quello che stava passando. Sperava solo che i trasmettitori che aveva addosso non fossero andati in tilt per qualche motivo; uno era contenuto nell’anello che portava al medio della mano sinistra, regalo di Greylord, e che gli aveva già salvato la vita in un’altra occasione; il secondo se lo era impiantato personalmente alla base del collo, usando lo stesso sistema adottato per i microchip degli animali. Un regalino di Renfield, quello, uno dei suoi migliori fornitori di gadget tecnologici, che glielo aveva magnificato come uno dei più potenti e precisi nella sua categoria. Se così non fosse stato, non avrebbe avuto occasione di lagnarsene.
Una secchiata di acqua gelata interruppe le sue riflessioni e gli fece alzare la testa e aprire gli occhi di scatto. L’occhio destro, per lo meno. Adesso che ci faceva caso, sentiva la parte sinistra del volto come se gli avessero iniettato una robusta dose di assenzio e laudano: completamente morta.
“Bentornato fra noi, signor…?”
“Succhiami il cazzo, stronzo” ringhiò Raistan, anche se con una dizione molto meno chiara di quanto avrebbe voluto. Un pugno di notevole potenza lo colpì al volto proprio dalla parte sinistra; ne avvertì l’urto, che gli fece scattare la testa in direzione opposta, ma nessun dolore. Quel bastardo con la mazza gli aveva fatto un favore, pensò, e scoppiò a ridere con grande disappunto dei suoi carcerieri. Il colpo successivo arrivò frontalmente e gli ruppe il naso, ma un folle impulso lo spinse a ridere ancora, mentre cercava di fare forza per spezzare i bracciali che lo tenevano bloccato alle pareti tramite robuste catene. Per il momento, però, sembrava un’impresa superiore alle sue forze.
“Ti diverti, upir? Vedrai come ti divertirai più tardi, quando il Dottore metterà le mani su di te, come ha fatto con il tuo amichetto… io l’ho visto, sai. Non è per niente in forma, no. Uno spettacolo patetico, davvero. Del suo bel faccino non è rimasto nulla, nemmeno gli occhi. Puf! Bruciati, che peccato…”
Un coro di risate accolse le parole di scherno di Dancenko; Raistan strinse i denti per mantenere il controllo, anche se ogni sillaba pronunciata da quel bastardo gli aveva fatto venir voglia di urlare. Temeva che se lo avesse fatto non sarebbe più riuscito a smettere.
“Vedo che ti è passata la voglia di ridere… vuoi i dettagli? Li vuoi?”
Il vampiro aspirò un po’ del sangue che gli stava colando in gola dal naso spaccato e lo sputò sulle scarpe lucide del russo, che strinse gli occhi e lo colpì a sua volta usando la mano sana, ma con risultati deludenti: tutto quello che ottenne fu una nuova risata.
“Sei una mezza sega, Vlady. Posso chiamarti Vlady, vero? Tutto qui quello che sai fare, tappetto?”
“Non voglio sporcarmi le mani con un cadavere. Ragazzi, divertitevi. Pensate ad Anatoly e ai vostri colleghi, mentre lo fate. E, già che ci siete, potreste fargli sputare la formula di quella roba che ha trasformato lui e la ragazza in belve. Non mi dispiacerebbe battere il dottore sul tempo e avere una merce di scambio tanto preziosa…”
Uno degli energumeni lo prese per i capelli e lo costrinse a sollevare la testa, per guardarlo in faccia; nessuno però gli aveva insegnato che è molto, molto pericoloso incontrare lo sguardo di un vampiro. Raistan lo agganciò all’istante e gli rivolse un ghigno da squalo, anche se un po’ più ampio dalla parte destra della bocca: “Uccidili tutti. Adesso. Obbedisci” gli comandò. Venne zittito dall’ennesimo colpo al viso, che gli fece scattare la testa all’indietro e poi di nuovo in avanti, ma ebbe la soddisfazione di vedere il “suo” uomo estrarre la pistola dalla fondina ascellare e freddare il collega più vicino, mentre nella stanza si scatenava il caos. L’espressione sul viso dello sgherro era di sbalordimento e puro orrore, nondimeno prendeva sistematicamente di mira chiunque entrasse nel suo campo visivo e faceva fuoco, un colpo dopo l’altro. Riuscì a ucciderne ancora uno e a ferirne un paio, prima di venir ucciso a sua volta con una pallottola che lo raggiunse in mezzo alla fronte. Il silenzio attonito che seguì fu interrotto dall’ennesima sghignazzata di Raistan, che si stava godendo i risultati della sua piccola magia, anche se sapeva che gli sarebbe costata cara.
“Ops!” esclamò, con aria candida. “Poco affidabili i tuoi uomini, nanetto. Dovresti sceglierli meglio” commentò, osservando i cadaveri che giacevano a pochi metri da lui. Il viso di Dancenko assunse una preoccupante sfumatura porpora, mentre gli occhi si stringevano in due fessure incandescenti, ancora più evidenti per le tumefazioni che stavano affiorando tutto intorno, a causa del naso spaccato.
“Non me ne frega un cazzo di quello che ha detto quello stronzo di Boris. Massacratelo.”
I suoi uomini sembravano non aspettare altro. Senza mai togliere gli occhi di dosso all’Olandese, si armarono con lentezza di tirapugni d’acciaio e di spranghe, poi lo circondarono da ogni parte. Raistanmostrò loro i canini, soffiando come un gatto inferocito; un attimo prima che l’attacco iniziasse, il vampiro strattonò con violenza i bracciali che gli serravano i polsi, da entrambi i lati. Con suo stesso sbalordimento, le placche che assicuravano le catene ai muri cedettero, forse a causa dell’umidità che rendeva friabili le pareti dello scantinato in cui l’avevano portato. Ci fu un attimo di stasi completa, che servì a ognuno dei presenti per rendersi conto di quello che era appena accaduto, sebbene da punti di vista diametralmente opposti, poi Raistan scattò, usando le lunghe catene che ancora gli pendevano dai polsi come fruste micidiali. Uno degli sgherri del russo si ritrovò a volare attraverso la stanza con un metro di acciaio avvolto attorno al collo; cozzò contro la parete con un tonfo orribile e stramazzò a terra. La stessa sorte toccò a un secondo uomo, mentre Dancenko sbraitava ordini che nessuno era in grado di eseguire, perché il vampiro li teneva tutti a distanza facendo vorticare le catene attorno a sé, a una velocità impensabile per qualsiasi essere umano.
Eppure, Raistan non pensava alla fuga. Non era quello il suo scopo. Voleva solo evitare, per quanto possibile, che lo danneggiassero tanto da non poter essere di nessuna utilità per Guillaume, quando finalmente fosse giunto alla meta. Sferzò volti, frantumò denti e, quando decise di rivolgere le sue attenzioni su Dancenko, questo fuggì dalla cantina come se avesse avuto il diavolo alle calcagna, cosa che non si allontanava poi tanto dalla verità. L’Olandese, tuttavia, cominciava a risentire della stanchezza e del malessere; non avrebbe potuto resistere ancora a lungo. Quando la porta della cantina si spalancò di nuovo, portando con sé l’ometto furioso assieme a Boris e a numerosi uomini in tenuta militare come lui, si limitò ad alzare le mani in segno di resa, ma non riuscì a trattenere l’ennesimo ghigno soddisfatto. Il mercenario si guardò intorno impassibile, poi rivolse uno sguardo disgustato al gruppo dei sopravvissuti, piuttosto malconcio, e a Dancenko stesso, che sembrava sul punto di morire di un colpo apoplettico.
“Lo ucciderò! Gli strapperò le braccia, gli occhi, qualunque cosa! Lo voglio morto, questo schifoso! Qui! Adesso! Si fotta il dottor Janiĉek, lui è mio!!”
“Mi dispiace deluderla, ma il dottore lo sta aspettando con una certa impazienza, e io eseguo i suoi ordini e basta. Voi, levatevi di mezzo” intimò Boris agli scagnozzi di Dancenko, che avevano circondato Raistan e fissavano i mercenari con aria minacciosa. Pistole di grosso calibro si materializzarono in entrambi gli schieramenti, e Raistan scosse la testa. Ah, Fiorellino… avrei già potuto scappare mille e mille volte, e invece mi sono trasformato nella ricompensa di un giochetto mortale… però adesso so da che parte stare.
Impugnando la catena come un laccio, il vampiro assalì l’uomo davanti sé, che lasciò partire un colpo.
Fu come se qualcuno avesse gettato un fiammifero acceso in una polveriera. Gli uomini di Boris erano sicuramente dei professionisti abituati a gestire la tensione anche in situazioni estreme, ma lo stesso non si poteva dire di quelli di Dancenko.
Quell’unico colpo sparato per errore fu interpretato come una deliberata aggressione, e scatenò un inferno di proiettili che volavano in tutte le direzioni e rimbalzavano sulle pareti, in una cacofonia di urla, imprecazioni e spari. Solo le urla di Boris riuscivano a emergere dalla confusione.
Dancenko fu uno dei primi ad essere colpito, e stramazzò a terra con un’espressione incredula sul viso; la stessa sorte toccò in pochi istanti a quasi tutta la sua squadra e a due degli uomini di Boris. Approfittando del caos estremo, Raistan si fece largo tra di loro e raggiunse proprio il capo dei mercenari. Quest’ultimo lo intercettò subito. Era chiaro che fosse stato ben istruito e che, a dispetto della concitazione del momento, fosse pienamente consapevole che il vampiro restava l’elemento di pericolo maggiore, all’interno della stanza. Una lieve contrazione gli indurì la mascella segnata da una cicatrice antica, mentre estraeva da una fondina dietro i pantaloni un lungo Bowie dalla lama seghettata. Ma prima che potesse fare la sua mossa, Raistan si accorse che uno dei sopravvissuti della gang di Dancenko aveva sollevato la pistola per freddare il suo imperturbabile avversario e si frappose fra i due, facendogli scudo con il proprio corpo, voltato di schiena. L’impatto dei proiettili fu più doloroso del solito e l’Olandese si irrigidì con un ringhio, usando il russo come appoggio, gli occhi e i denti serrati. Quando, dalle proprie spalle, giunsero solo i frenetici click che indicavano che il caricatore era finalmente vuoto, il vampiro non si voltò. Approfittò dell’impercettibile istante di esitazione che la sua azione aveva causato nel russo, per passargli la catena intorno al collo in due giri e inchiodarlo con la schiena contro il proprio petto, stringendolo in una morsa d’acciaio. Quando si rivolse verso il suo assalitore lo fece portando con sé Boris, che tentava di allentare la stretta della catena sulla propria gola, ma sembrava, tutto sommato, molto calmo. I suoi uomini lo fissavano con sguardo mortifero, ma non si decidevano ad agire, mentre i due superstiti della squadra di Dancenko se la diedero a gambe oltre la porta dello scantinato.
“Adesso mi porterai dove tengono il francese, bello mio, o ti stacco questa testa di cazzo, chiaro?”
Il mercenario sospirò appena, poi sibilò un ordine a uno dei suoi uomini, che stava estraendo dalla fondina quello che aveva tutta l’aria di essere un taser.
“Non hai alcuna possibilità” disse poi, rivolto al vampiro alle proprie spalle. “Non hai idea contro cosa ti stia mettendo.”
“È proprio quello che voglio scoprire, stronzo. Di’ ai tuoi uomini di gettare le armi. La mia pazienza si è esaurita molto tempo fa, e non sono mai stato un tipo paziente.”
Non ci fu bisogno di un altro ordine. I mercenari abbassarono le armi, ma rimasero in evidente tensione. Davano l’idea di gente abituata ad agire in situazioni estreme improvvisando, se necessario.
Boris teneva le mani alzate, all’altezza del petto. Aveva smesso di tentare di liberarsi.
“Che cosa vuoi?” domandò al vampiro alle proprie spalle.
“Voglio che mi porti dove tenete prigioniero il mio amico, te l’ho già detto. E voglio andarci adesso. Muoviamoci.”
Ma il russo non sembrava intenzionato a muovere un passo. Per Raistan non sarebbe stato un problema sollevarlo di peso, o meglio ancora trascinare la sua dannata carcassa a peso morto. Ma quello era il momento della fottuta diplomazia.
“Forse non ti è chiaro cosa succederà se non farai quello che ti ho detto” ringhiò all’orecchio del mercenario.
“Mi è chiarissimo invece” rispose quest’ultimo con una calma apparentemente inscalfibile.”Tu mi decapiterai e i miei uomini ti spareranno addosso raggi UV finché sarai ridotto a un arrosto, ma con un odore meno gradevole.”
La risposta dell’umano spiazzò Raistan, strappandogli un ringhio. Sapeva di avere bisogno di lui, per trovare Guillaume, e ucciderlo non gli pareva un’opzione intelligente, dopo tutto quello che aveva fatto per farsi catturare. Decise che il minuto della diplomazia era finito e quasi sollevò di peso l’umano, trascinandoselo dietro verso la porta dello scantinato, gli occhi puntati sui suoi uomini che lo fissavano con sguardo da predatore.
“Devi capire una volta per tutte che sono io che comando, adesso.”
Il mercenario non oppose resistenza. Non il genere di resistenza che il vampiro poteva aspettarsi. Era chiaro che fosse un osso duro, c’era da chiedersi quanto.Raistan armeggiò con la maniglia alle proprie spalle per abbassarla, poi ordinò a Boris di richiudere la porta, per imprigionare all’interno i suoi uomini.Ancora, Boris non accennò ad eseguire il suo ordine, nonostante Raistan intensificasse la stretta sulla sua gola; il verso che gli sfuggì dalla bocca poteva essere un rantolo come una specie di risata. Gli uomini all’interno della cantina mossero alcuni passi in avanti, mentre un sorriso fioriva anche sul loro volto.
“Chiudi, ti ho detto, stronzo!” urlò il vampiro, voltandosi a guardare la rampa di scale che li avrebbe condotti al piano superiore. Gli parve interminabile e pensò che sarebbe stato molto più semplice arrendersi, seguendo la propria intenzione originaria.
“Ti conviene lasciar perdere, e forse vedrai un altro tramonto.”  La voce dell’uomo usciva strozzata, ma udibile. “L’altro è spacciato, e se non te ne vai farai la stessa fine.” La voce gli si spezzò quando Raistan accentuò la stretta. Gli ci volle un momento per poter riprendere. “E sì, ti conviene sfruttare questo piccolo vantaggio per ammazzarmi, perché se mi ordineranno di venirti a cercare non ti lascerò scampo, vampiro.”
“Dicono che l’inglese sia una lingua facile, ma tu devi avere qualche problema di comprensione. Ho detto che voglio essere portato dove lo tenete, è chiaro?” Questa volta lo sospinse in avanti, di nuovo verso la cantina, ma senza allentare la stretta sulla sua gola. “Chiudi questa cazzo di porta” gli sibilò, strattonandolo con violenza estrema. Per la prima volta, l’umano emise un verso di sofferenza.
L’azione degli uomini di Boris fu perfettamente sincronizzata. Fin troppo, per semplici umani. Tre dei mercenari si buttarono sulla porta, spalancandola, mentre un quarto, un ragazzo giovane, con occhi così chiari da sembrare incolore, estrasse una pistola dalla forma bizzarra e fece fuoco. Raistan incontrò il suo sguardo per una frazione di secondo. Fece in tempo a pensare: “Che cazzo sta facendo questo idiota?  Ammazzerà il suo capo!” poi il mondo esplose in una luce accecante, come se un frammento di sole fosse precipitato senza rumore.
Raistan serrò gli occhi e scattò di lato. L’istinto agì prima della mente, e l’istinto gridava solo una cosa: via, via, via da tutta questa luce!!
Rotolò sul pavimento, provando un immediato sollievo quando ne avvertì il gelo solido sotto le membra. Quando riaprì cautamente gli occhi, la prima cosa che notò fu che il suo corpo fumava. Probabilmente era stato solo il fatto di essere bagnato a evitargli di finire arrostito. Ma per quanto?
“Uhm… resistente, il bastardo. Non è bruciato come gli altri. Meglio così. Il Dottor Janiĉek potrà studiarlo più a lungo. Carichiamolo sul furgone e andiamo alla clinica, siamo già in ritardo, per colpa di questi idioti. Glielo avevo detto, di usare le manette di titanio. Ivan, recuperale e mettigliele.  Non mi fido di questo schifoso.” Coricato in posa scomposta sul pavimento, a pancia in giù, Raistan si finse per la seconda volta privo di sensi e lasciò che le braccia gli venissero bloccate dietro la schiena. La pelle gli bruciava in modo quasi insopportabile. Ma era quel quasi che avrebbe fatto la differenza.

*

Raistan attese che tutti se ne andassero e che il silenzio calasse intorno a lui, prima di aprire gli occhi. Aveva provato una certa soddisfazione nel percepire gli sforzi che quei bastardi avevano dovuto fare per trasportarlo a peso morto. Avevano sbuffato parecchio. Nessuna lamentela però. Proprio dei bravi soldati. Solo Boris aveva parlato a un certo punto, dopo che lo avevano scaricato dal furgone e portato all’interno di un edificio. La clinica.
“Vado a dire al Dottore che il soggetto è pronto. L’altro è stato spostato dopo l’ultima seduta. Sistematelo nella gabbia.”
Pochi ordini precisi. Doveva costare parecchio farsi proteggere da uno così.
Sebbene tenesse gli occhi chiusi, i sensi di Raistan erano attivati al massimo a captare segnali che gli permettessero di percepire l’ambiente che lo circondava. La clinica sembrava essere in tutto e per tutto ciò che il suo nome suggeriva.
Odore di pulito, di nuovo.  Tutto sembrava appena costruito, installato, poco usato.
Ecco, questo era quello che lo colpiva di più. Il senso di non usato. Il suo olfatto gli diceva che nessuno aveva dormito in quei letti, nessuno era stato visitato da quegli strumenti. Il silenzio che gli rimbombava nelle orecchie, turbato solo dai passi dei mercenari e dal ronzio dei macchinari, gli raccontava la medesima realtà.
La clinica era un luogo popolato solo da fantasmi che mai ne avevano calcato i corridoi.
Quando infine fu certo di essere solo si mosse. Anche la sala in cui si trovava puzzava di nuovo. Ma non solo. Quello che aveva avvertito quando vi erano entrati aveva rischiato di fargli perdere il controllo e mandare a puttana tutto il piano. Sotto l’odore asettico di detergente aveva sentito il sangue. E non un sangue comune, no. Era il sangue di Guillaume. La stanza ne era completamente immersa, pervasa, come se le pareti stesse ne fossero impregnate.
Sangue, e nel sangue sofferenza. E paura.
Restò sul fondo della gabbia, talmente devastato da quella sensazione spaventosa da non rendersi conto del dolore che lo lambiva ovunque il suo corpo entrava in contatto col pavimento. Ma a un certo punto non poté più ignorarlo. Si alzò in piedi, ma non provò il sollievo che si sarebbe aspettato. Il motivo era evidente, davanti ai suoi occhi ora aperti. Era in una gabbia, sì, ma di certo non una gabbia comune. Osservò con un misto di orrore e fascinazione le sbarre che lo circondavano. Sembravano…  Forse erano fatte di luce, una luce quasi accecante, nella quale era possibile intravedere un’anima viola.La gabbia era grande appena per permettergli di stare steso, con le ginocchia flesse… ammesso che potesse resistere steso sul fondo d’argento. Chiunque l’avesse concepita doveva avere una particolare propensione a procurare dolore, e conoscenze sufficienti per sapere come farlo a quelli come lui. Anche la gabbia era permeata dall’odore di Guillaume. Doveva essere stato lì fino a poco prima, prima della seduta, qualsiasi cosa significasse. Raistan lottava contro se stesso, contro l’urgenza che lo sospingeva a lanciarsi contro quelle sbarre splendenti, e sicuramente letali, contro la rabbia alimentata istante dopo istante dall’eco disperata di quella presenza tutt’intorno a lui.
Quando la porta si aprì con un ronzio, fu colto dall’istinto di afferrare le sbarre con le mani. Resistette.
“Si è già ripreso” lo salutò una voce ammirata. L’uomo era solo. No, non l’uomo. Il Dottore, come suggeriva il camice bianco che fasciava la figura snella. Si avvicinò alla gabbia senza alcuna precauzione, segno che era molto ansioso di esaminare il suo nuovo ospite, o molto sicuro dei propri sistemi di sicurezza. Raistan decise di propendere per la seconda ipotesi.
“Non l’hanno strapazzata troppo, vero? Il signor Boris mi ha informato che ha dato filo da torcere ai suoi uomini. Credo che la ammiri un po’, sa?”
Attraverso le sbarre, la figura in bianco sembrava vibrare di luce. I capelli biondo scuro ricadevano ai lati di un viso dagli zigomi pronunciati, ai quali era difficile dare un’età. Poteva avere venti come quarant’anni. Da dietro le lenti degli occhiali sottili, i suoi occhi chiari scrutavano il vampiro con interesse.
“Sai che cazzo me ne frega di quello che pensa quel bastardo… dov’è Guillaume De Joie? Che cosa gli hai fatto, pezzo di merda? Ti strapperò il cuore e me lo mangerò, lo sai, vero?”
La smania di afferrare le sbarre e scuoterle era sempre più forte. Raistan strinse i pugni fino a conficcarsi le unghie nel palmo. Un’orribile sensazione di svuotamento si stava impossessando di lui, ma non voleva che il dottore se ne accorgesse.
L’uomo sbatté le palpebre e la sua espressione passò dall’interesse allo stupore.
“Oh… capisco. Lei è il signor…?”
“Sono il signore che ti farà rimpiangere di essere nato, ecco chi sono. Fammi uscire, stronzo. Fammi uscire ADESSO!”
Raistan cercava di agganciare lo sguardo del damerino che gli stava davanti e che lo fissava come se stesse ammirando un animale esotico, ma l’uomo non lo guardava mai negli occhi.
Una ruga sottile apparve sulla fronte dell’uomo, e non era la sola. A ben guardare, ne aveva parecchie, rughe d’espressioni agli angoli degli occhi e della bocca. Forse non era poi così giovane…
Aprì una cartelletta che aveva tra le lunghe mani sottili e scorse brevemente alcuni appunti.
“Bene, immagino siano questi i termini del rapporto che vuole instaurare con me” sospirò infine. “Non potevo sperare di essere così fortunato due volte, immagino,” Abbozzò un sorriso. “La chiamerò Beta, visto che per lei non fa differenza. Di solito usiamo questa terminologia su altri soggetti, ma cercherò di venirle incontro.”
“Se mi fai uscire, ti faccio vedere io che tipo di rapporto voglio instaurare con te. Molto da vicino. Voglio vedere Guillaume. Voglio vedere che cosa gli hai fatto, stronzo. Prega che stia bene. Prega su tutto quello che hai di più sacro, perché te ne farò pentire, se gli hai fatto del male.” La voce di Raistan era gelida, sibilante di minaccia. Cercò di scagliare contro il dottore un’ondata di aura malefica, ma le forze lo stavano rapidamente abbandonando e lo sforzo lo fece barcollare visibilmente, suscitando un sorriso in Janiĉek.
Ma dov’era Greylord? Perché non arrivava? Qualcosa era andato storto con i trasmettitori che aveva addosso? Il pensiero che qualcosa del genere potesse essere accaduto si concretizzò nella mente di Raistan, aumentando il suo desiderio quasi soverchiante di tentare la fuga. Controllo, si impose. Controllo. Arriverà. Sta per arrivare.
“Sono affascinato da questa dedizione al signor De Joie” osservò il Dottore, prendendo un altro appunto sulla cartelletta. “Molto affascinato…”  ripeté, studiando la figura del vampiro, la penna che picchiettava sulle labbra sottili. “Immagino abbia a che fare con lo scambio di sangue…  Crea un legame paragonabile a quello dei membri di un branco. Interessante” concluse la sua dissertazione scientifica.
“Felice di suscitare il tuo interesse. Adesso fammi uscire di qui, prima che qualcuno si faccia male. Credimi, potresti rimpiangere molto amaramente di esserti impicciato nelle faccende di esseri come noi… dimmi cosa vuoi. Magari possiamo trovare un accordo, che ne dici?”
Mantenere un tono urbano, quasi cordiale, gli costava uno sforzo terribile, oltre al fatto che per ogni minuto che passava aveva l’impressione che qualcosa lo stesse intossicando, ma lo fece lo stesso, anche se le sue nocche erano sbiancate per la forza che metteva nel contrarre i pugni.
“Cosa voglio. Molto semplice” sorrise il Dottore. Sembrava lieto di poter passare alle questioni pratiche senza ulteriori indugi. “Voglio il suo sangue, Signor Beta. Non tutto, ma buona parte di esso. E non in un’unica estrazione. Ho riscontrato che esagerare in tal senso può risultare controproducente sul lungo termine” osservò, con una vaga espressione di disappunto. I suoi occhi schermati dagli occhiali sottili andarono a una strana struttura posta sull’altro lato del laboratorio. Attraverso le sbarre luminose Raistan riconobbe una sorta di imponente scranno in metallo liscio e lucidissimo.
Il Dottore tornò a guardarlo. “Al momento non credo sia opportuno farle incontrare il Signor De Joie. Egli è, diciamo, non in forma. Meglio lasciare che si riprenda dalle sue recenti fatiche.”
Riaprì la cartelletta, mentre la porta del laboratorio si apriva e un uomo entrava. Perfino a quella distanza e nonostante la spossatezza Raistan seppe che non era un uomo comune. Lo vide accostarsi al Dottore, ma i suoi occhi color dell’ombra non lo lasciarono nemmeno per un istante.
“Che succede, Raoul? Lo sai che non mi piace essere disturbato mentre lavoro nel laboratorio” sbuffò il Dottore. Aveva il tono di chi rimproverasse un bambino molesto. L’uomo, o colui che di un uomo aveva l’aspetto, sembrava sofferente, come se fosse stato ferito e fosse in via di guarigione. “Credo dovrebbe venire di sotto, Dottore” disse solo, la voce roca, simile a un ringhiò trattenuto. Lanciò un’ultima occhiata al vampiro prima di uscire, e Raistan registrò che nonvi era ostilità in quello sguardo, quanto una sorta di… compassione?
Se avesse avuto un cuore funzionante, Raistan lo avrebbe sentito balzare nel petto. Forse era il momento! Forse Greylord era arrivato e stava spaccando culi a destra e a manca. Una volta rimasto solo, cedette allo sfinimento e si sedette sul pavimento d’argento della cella, facendo attenzione a che nessuna parte scoperta venisse a contatto col metallo. Si cinse le gambe con le braccia e chinò la testa contro le ginocchia, chiudendo gli occhi. Poi, raccogliendo ogni stilla della propria energia mentale, lanciò un richiamo a Guillaume, sperando, pregando che potesse sentirlo: “Sono qui Fiorellino, resisti. Tra poco ti porterò a casa.”

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