Chi mi conosce, lo sa: non amo le etichette di genere, e neppure di sottogenere. Romance, thriller, thriller storico mi paiono definizioni utili solo a confinare un romanzo nei limiti angusti di un colore prevalente, senza offrire in cambio alcuna indicazione sul valore reale dell’opera.
Ciò premesso, Il sigillo degli Acquaviva di Ornella Albanese, fresco di stampa per i tipi di Leone Editore, è un potente romanzo che fa dello sfondo storico e dell’accurata ricerca documentale la salda pietra d’angolo su cui si erge la narrazione. Vivida e multiforme, animata di personaggi dalle brillanti sfaccettature, mutevole da sipari esotici ad altri aspri o ridenti, mai convenzionale e prevedibile nemmeno.
Mi assumo il rischio di contraddire le mie stesse premesse e azzardo una sintesi: per immediata intuizione associo Il sigillo degli Acquaviva a un ‘romanzo cavalleresco’, di quelli per intenderci nella nobile tradizione di inizio Ottocento, alla Walter Scott.
I cavalieri infatti non mancano tra queste pagine di Ornella Albanese, tali per dignità d’animo o solo per blasone, emiri di Oltremare o baroni delle aspre terre di Abruzzo, alcuni strappati alla polvere del ponderoso Catalogus baronum , altri invece di immaginifica ma non minore verosimiglianza.
Primo tra tutti, Yusuf Hanifa, il Saraceno, il medico guerriero. Già incontrato in ruolo non di proscenio ne L’anello di ferro e ne L’oscuro mosaico, la sua fierezza e le sue doti fisiche e morali ne fanno qui il protagonista Indiscusso, secondo un espediente narrativo caro all’autrice, di legare con un filo sottile ma intrigante storie di per sé autoconclusive.
La realizzazione del mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto – il mosaico dai segreti mai del tutto svelati tra simboli, animali fantastici e parole di oscuro significato – assiste al divampare in Yusuf di una intensa passione per Sara dei Sassi, una giovane fuggita sotto le ingannevoli vesti di ragazzo dalle nobili mura del castello avito in terra d’Abruzzo, per collaborare con il monaco Pantaleo alla nascita di quell’opera straordinaria.
Yusuf riconosce in lei la sua stessa fierezza e il diritto di rivendicare un premio per la propria arte, pur essendo lei donna in quel lontano 1165 che nega al suo sesso qualsiasi ruolo che non sia di moglie e di madre. Sara è una ribelle ante litteram, che fugge per non doversi sottomettere a un matrimonio imposto dai doveri di rango, che piega i suoi muscoli e le sue fragili energie a un lavoro paziente, pur di provare l’orgoglio di aver collaborato alla nascita di un capolavoro.
Impossibile, per entrambi, non riconoscersi e non amarsi. Quanto all’esito felice di quell’amore, infiniti ostacoli si mettono di mezzo: eredità contese, imboscate, assalti ai castelli, matrimoni imposti, oscure trame di palazzo.
Alla loro vicenda si intreccia il destino di altri personaggi, di pari rilievo e incisività: Tiberius e Agnesia dei Sassi, i genitori di Sara che sembrano aver smarrito il loro amore, lui intrappolato dalle arti lascive di una serva, lei non abbastanza orgogliosa per rivendicare le attenzioni del marito; Sibilia e Costantino, i fratelli di Sara, bella e vana l’una, fragile ma dal cuore impavido l’altro; Oberto degli Acquaviva, gran signore delle terre d’Abruzzo, preoccupato per la designazione del suo successore e la moglie Altilia divorata dall’odio verso il marito che accusa della morte dell’unico figlio; il nipote Rainaldo il Folle, dallo sguardo asimmetrico che però coglie con estrema perspicacia quanto gli accade intorno; il giullare Zefiro che nasconde sotto le sembianze deformi la sensibilità di un poeta; una schiera di feudatari, coloriti rappresentanti del privilegio nell’aspra Valle Siciliana ai piedi del Grande Sasso.
Gli uni e gli altri incrociano i passi di Yusuf e Sara in una trama che si tinge di mistero, in un aggrovigliarsi di ambizioni e passioni che l’autrice conduce senza sbavature verso un impeccabile e convincente scioglimento.
Lo sguardo acuto di Ornella Albanese ci restituisce caratteri di avvincente complessità, in cui sovente uno stimolante dualismo contrappone un’apparenza insignificante o peggio vana a una interiorità ricca e ben più degna.
Un maestoso affresco corale che si dipana dalle coste soleggiate del Salento alle oasi delle terre d’Oltremare, dalle aspre valli dAbruzzo ammantate di neve ai colti splendori di Ravenna.
Anzi, direi un mosaico come quelli che Sara ama comporre, in cui “i colori si aggregano ai colori, le linee si chiudono armoniose, le tessere di pasta vitrea si alternano a quelle di calcare, affinché il loro splendore illumini l’opacità delle altre”.
I bagliori preziosi di quel mosaico, come la nobiltà dei sentimenti che animano i protagonisti del romanzo, vanno a illuminare un’epoca tanto vivida e ricca di fermenti da non apparire certo un medioevo così oscuro e lontano.
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