Shikoku è la più piccola e la meno popolata tra le isole maggiori dell’arcipelago giapponese.
Lungo le sue strade capita di incontrare gente che porta un largo cappello conico di paglia e un bastone variopinto. Sono gli henrō, viandanti del pellegrinaggio agli 88 templi di Shikoku. Indossano una casacca bianca con scritti in nero gli ideogrammi:
同行二人 Dō Gyō Ni Nin, “due persone condividono lo stesso cammino.”
Questa frase significa: ciascun pellegrino cammina insieme con Kūkai, fondatore degli 88 templi di Shikoku. Essi sorgono lungo un percorso di circa 1200 km, che segue tutto il perimetro dell’isola.
Per cogliere la suggestione di questo viaggio bisogna parlare almeno un po’ di Kūkai (774-835 d.C.), nome che significa “oceano del cielo”. Fu l’inventore del trekking oltre che asceta, calligrafo, artista, riformatore… ma andiamo per ordine!
Nato a Shikoku, trascorse gli anni della giovinezza vagando per i sentieri della sua isola. Lungo il cammino andava scoprendo, tra sé stesso e la natura, misteriose sinergie. Il frangersi delle onde sulla spiaggia era il suo respiro. I suoi capelli agitati dal vento erano le fronde dei pini; i piedi nei calzari di paglia, emanazioni della roccia che calpestava. I raggi di sole entrati nella grotta dove sedeva in meditazione erano lo sguardo di Dainichi, il Buddha cosmico, che si rifletteva nella sua mente illuminata.
Quelle esperienze lasciarono una traccia indelebile nell’animo di Kūkai, e anche nei luoghi dove egli passò. I templi, meravigliosi edifici di legno, sembrano emanazioni della natura stessa. Perfino adesso vi si può sentire l’aura di quella gioiosa scoperta/simbiosi/risveglio… o per usare la parola che indica tutto questo: Satori.
Non gli bastava. All’età di 30 anni Kūkai andò in Cina, nella grande città di Chang-an dove confluiva gente da tutta l’Asia. Lì conobbe monaci indiani, cinesi, tibetani. In soli tre anni imparò il sanscrito e diventò maestro di una famosa scuola di spiritualità. Tornato in Giappone fondò la setta Shingon: Buddhismo esoterico o per dirla francamente, magico, basato sulla recitazione di “vere parole” (Shingon vuol dire proprio questo). Parole che hanno il potere di liberare gli esseri viventi dalla sofferenza, nata da un karma negativo o semplicemente dallo stare rinchiusi nei confini del proprio “io”.
In seguito, l’imperatore lo chiamò nella sua capitale appena fondata, Kyoto. Lì Kūkai svolse un importante ruolo di riforma sociale e culturale. A lui si deve la creazione dell’alfabeto sillabico che distingue la scrittura giapponese da quella cinese, composta solo da ideogrammi. Negli ultimi anni di vita fondò il grande santuario di Monte Koya, centro della setta Shingon.
Caratteristica del pensiero di Kūkai era il rispetto verso le altre scuole e religioni della sua epoca: le considerava tutte, benché in modi e a livelli diversi, espressioni della mente divina. Si deve a lui la tolleranza religiosa che pervase molte epoche (non tutte beninteso) della storia giapponese.
Dopo la morte gli fu attribuito il titolo onorifico di Kōbō Daishi, “grande maestro dell’ampia via”.
Nella sua isola natale, gente da tutti i paesi cominciò a camminare sulle sue tracce.
Un tempo i pellegrini potevano percorrere solo a piedi il circuito, in senso orario (dal tempio numero 1 al numero 88) oppure al contrario. Quest’ultima modalità viene considerata più difficile e anche più meritoria. Camminavano sotto la pioggia o sotto il sole a picco, avendo come unico riparo il loro cappello, vivendo di ciò che la gente metteva nella loro ciotola.
Molti, come i pellegrini medievali d’Europa, lo facevano per espiare una colpa commessa.
Oggi le cose sono decisamente più comode. La maggior parte dei visitatori si sposta in autobus e taxi; qualcuno in bicicletta o come abbiamo fatto noi, con un’auto a noleggio.
Alcuni templi sorgono in vetta a una montagna con strade d’accesso strette, tutte a tornanti… per una guidatrice scarsa come me, impresa epica! Kūkai deve avere guardato giù dall’oceano del cielo, impedendoci di precipitare.
Si incontrano ancora, tuttavia, tantissimi henrō che vanno a piedi. Tra loro anche parecchi stranieri: ho il sospetto che si divertano a travestirsi da pellegrini, facendo più che altro un trekking nella natura incontaminata dell’isola. Ne ho visti alcuni bere birre e fumare, con la schiena appoggiata alla parete di un tempio. C’è chi dissemina perfino i suoi rifiuti.
La maggior parte però si muove con rispetto, scambiando aiuto e informazioni con gli altri pellegrini. Lungo il percorso ci sono locande dove si può pernottare, oppure ci si può far ospitare in qualcuno dei templi. La gente del posto è molto cordiale verso gli henro, che siano giapponesi o stranieri: speriamo che l’invasione turistica subita dal Giappone dopo la riapertura delle frontiere, non finisca per rovinare questa armonia.
Chi compie l’intero circuito porta con sé un quaderno. All’arrivo in ogni tempio, dopo essersi sciacquato mani e bocca, recita le parole di rito, suona la campana e accende una candela. Dopo di che va a farsi rilasciare dai monaci l’attestazione di passaggio: eleganti ideogrammi tracciati a pennello e successiva apposizione dei sigilli rossi del tempio. Pare che al momento della morte, alcuni henro vogliano essere cremati portando con sé tale quaderno.
Non avendo particolari colpe da espiare se non qualche gozzoviglia alcolica, noi ci siamo limitati a esplorare una decina di templi nel tratto sud del circuito: da Capo Muroto, dove c’è la grotta in cui Kūkai ebbe il primo Satori fino al meraviglioso Kongōfukuji (“felicità del monte di diamante”, numero 38) sul promontorio di Ashizuri.
Lì c’è la grande statua di un henrō. Qualcuno gli aveva messo in mano un mazzo di fiori freschi: omaggio a una tradizione, antica e sempre nuova, di pace e armonia con la natura.
Per chi volesse saperne di più: QUI.
Musica da ascoltare: QUI.
Ove non diversamente indicato, le immagini sono di Grazia Maria Francese.
Di Grazia Maria Francese, vi presentiamo i primi due volumi della trilogia dedicata al Giappone:
Nel Giappone del sedicesimo secolo, l’erede della casata Oda riceve dal padre una missione impossibile: unificare il paese. Nobunaga però continua a vivere da scapestrato, senza curarsene, finché gli intrighi del fratello e la minaccia di nemici esterni lo costringono a difendersi. Diventato famoso grazie all’inaspettata vittoria riportata contro gli Imagawa, Nobunaga poco a poco si immedesima con il compito che gli tocca. Oltre a diventare uno stratega eccezionale deve però costringersi a essere sempre più spietato, estirpando dal proprio animo ogni traccia di umanità.
Nel frattempo, nell’Italia della Controriforma, Alessandro Valignano viene avviato agli studi dal padre, un nobile abruzzese. L’amore per Francesca, un’apprendista cortigiana di Venezia, lo travolge in complicazioni che lo fanno finire in carcere. Carlo Borromeo interviene a liberarlo, ma la condizione è che Alessandro entri in un ordine religioso: la Compagnia di Gesù.
L’uomo del Rinascimento e il samurai s’incamminano verso un incontro che cambierà il destino di entrambi oltre che dei cristiani giapponesi, sempre più numerosi in un paese ancora dilaniato dalla guerra.
Lisbona, marzo 1574: caracche e galeoni salpano verso oriente. Tra i passeggeri che affrontano la perigliosa traversata fino all’India e oltre, c’è il gesuita Alessandro Valignano. Gli è stato assegnato dal Generale della Compagnia l’incarico di Visitador (ispettore) delle missioni in Africa e Asia. Si avvera per lui il sogno di una vita, abbandonato dopo una giovinezza turbolenta e poi riapparso, quasi suo malgrado: varcare gli oceani fino al remoto Japòn.
Oda Nobunaga, il signore della guerra che sta riunificando il paese, protegge i cristiani. Questi però non sono che pedine nel gioco politico/militare dell’epoca e rischiano di essere sacrificati a ogni nuovo sviluppo. Il personaggio più temibile è lo stesso Nobunaga, che lunghi anni di lotta per la supremazia hanno trasformato in un tiranno sanguinario.
Alessandro si prepara all’incontro cruciale con Oda Nobunaga ma proprio in quel momento, il destino aprirà sotto i suoi piedi la trappola di un ricordo.
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