Nicola Verde è nato a Succivo (CE), è sposato e ha un figlio. Attualmente vive a Roma. Vincitore di alcuni prestigiosi premi dedicati al giallo, alla fantascienza e al fantastico, è presente in numerosissime antologie (Giallo Mondadori, Hobby & Work, Del Vecchio, Perdisa, Dario Flaccovio, Robin, Delos ecc.).
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Quando e dove nasce il tuo protagonista seriale? In quanti romanzi compare?
Il mio personaggio seriale è un maresciallo dei carabinieri che opera in Sardegna sul finire degli anni ’60, “sbattuto” su quell’isola contro la sua volontà. si chiama Carmine Dioguardi, ha poco più di quaranta anni, un’età in cui, secondo me, un uomo raggiunge la sua piena maturità; è sposato e non ha figli. Come personaggio è nato una ventina di anni fa sulla “spinta” di mia moglie che stanca di leggere i miei racconti di fantascienza e horror, minacciò di non leggermi più a meno che non avessi scritto una storia gialla o noir. Così ho affrontato il mio primo racconto giallo/noir: “Sa morte secada”, che ebbe un ottimo riscontro in un importante premio dedicato al genere, e questo mi convinse, (anzi “Mi” convinsero) a farlo diventare romanzo con lo stesso titolo, cosa che, naturalmente, feci. Ciò che è successo dopo appartiene alla mia storia di narratore grazie al grande Luigi Bernardi (chi è nel settore sa bene di chi parlo) il quale lesse il romanzo e, trovandolo ottimo, lo propose alla Einaudi (allora ne dirigeva la collana Stile Libero noir), poi, per vicissitudini varie, uscì nel 2004, con la Dario Flaccovio ed. per poi avere, a quanto pare, una vita lunga: dopo un’edizione ridotta per la Meridiana eurofly, è andato in ebook per Delos e nel 2020 una nuova edizione per i F.lli Frilli ed. e, infine, a luglio del 2021 una edizione abbinata al quotidiano La Nuova Sardegna.
A quel primo romanzo ne sono seguiti altri due, “Un’altra verità” e “Il marchio della bestia”, oltre a un’antologia “Le segrete vie del maestrale”, tutti lavori in via di ripubblicazione con la F.lli Frilli ed.
Quando hai scritto il primo avevi già previsto che sarebbe ritornato in altri romanzi? In caso affermativo avevi predisposto la conclusione del primo per tenerti “la porta aperta” e hai annotato informazioni per non cadere in contraddizione? In caso negativo cosa ti ha spinto a riprendere il personaggio?
Qui occorre accennare alle ragioni che hanno generato quel primo romanzo: mia moglie è sarda e, naturalmente, frequentavo la Sardegna fin dai primi anni ’70, quando ancora non era del tutto uscita dal mito di una terra selvaggia e misteriosa, feroce, addirittura, in certe sue esternazioni, Dessì, uno dei suoi più grandi scrittori, l’aveva definita “un pezzo di luna caduto nel Mediterraneo”, e Lilliu, archeologo e paleontologo, aveva schematizzato una specie di assioma: “la costante resistenziale sarda”, questo per dire quanto gli abitanti di quella terra fossero ostili a ogni interferenza esterna. Ma venivamo dal ’68 e la televisione stava rendendo il mondo sempre più piccolo, così ecco che quel postulato cominciava a scricchiolare, a mostrare le prime crepe, e quel mito a farsi sempre più evanescente, fino a trasformarsi in quello che è oggi: l’isola vacanziera con il mare solcato da cabinati di lusso.
Una semplice operazione di recupero nostalgico, dunque, la mia? Non proprio. A quel tempo ero affascinato dallo scontro tra un’arcaicità aggrappata ormai soltanto nella mentalità dei vecchi e una modernità che cominciava a far breccia in quella dei giovani; un momento di transizione, una specie di limbo. Una verità, credo, universale ed eterna.
Ma questa scelta ha imposto un periodo temporale preciso, non troppo lungo, entro il quale far agire il mio personaggio e già fin da quel primo romanzo ero convinto che tutto si sarebbe esaurito in quelle pagine, tant’è che il suo finale vede il mio maresciallo in pensione e, a proposito di quel cambiamento a quel punto ormai concluso, chiudere con una frase:
“Per lui, Costantina Frau era una farfalla da infilzare”.
Come per dire che certe figure andrebbero salvate, fosse anche infilzandole con uno spillone da collezione, perché ultimi rappresentanti di un mondo in estinzione.
Poi così non è stato, cioè non tutto si è esaurito in quelle prime pagine, il bisogno di raccontare altro ha prevalso prendendo il sopravvento, perché, nonostante tutto, c’era di più da dire, ma ancora per quanto?
Il tuo personaggio “invecchia”? In caso affermativo, le tue storie sono state in sequenza cronologica o si muovono avanti e indietro nella vita del personaggio? Volendo, il lettore potrebbe individuare in quale anno è ambientata ogni singola storia, anche se tu non l’avessi indicata? Perché hai scelto quegli anni? Se non “invecchia”, come gestisci i legami, se ci sono, fra le varie vicende?
In realtà mi sono accorto che il vero personaggio seriale di quei miei romanzi è la Sardegna, con le sue contraddizioni, i suoi conflitti, la sua trasformazione, un mondo che andava sparendo in una parentesi temporale precisa, non troppo lunga, e Dioguardi, proprio perché legato a quel momento storico, nelle vicende che lo vedono, e forse vedranno, coinvolto, non potrà mai invecchiare più di tanto, a meno che non si voglia “dilatare” quello spazio temporale. Non so…
Il tuo personaggio ti somiglia? Gli hai affibbiato qualche tua abitudine o gusto particolare? Le sue opinioni sul mondo e la vita coincidono con le tue? Ti capita di pensare che tu stai diventando simile a lui? Che si stia impadronendo della tua vita?
Mi riallaccio alla mia risposta n. 2: Dioguardi evidentemente interpreta le mie paure, le mie diffidenze nei confronti di un popolo che non mi apparteneva, ma anche la mia voglia di entrare in sintonia con quella cultura e quella civiltà che mi erano estranee. Quindi se catarsi c’è stata per il mio personaggio, e quella cautela nei confronti di un popolo che gli era sconosciuto è andata via via depositandosi come feccia fino a sparire del tutto, ha di sicuro coinvolto me in prima persona.
Insomma, quella specie di dicotomia che dovrebbe esistere tra autore e personaggio, per quanto mi riguarda credo sia finita in una confusione.
Hai mai pensato e/o provato a uccidere il tuo personaggio seriale? Perché? Hai mai pensato e/o provato ad abbandonarlo e a far nascere un altro personaggio? Perché? Se porti avanti due serie con personaggi seriali, come ti senti passando da uno all’altro?
Ucciderlo? Per carità di Dio, no! Ho scritto davvero troppo poco su di lui per avere un desiderio simile, no, assassino del mio personaggio no, ma adultero potrei esserlo, anzi, forse già lo sono giacché un altro mondo in bilico tra un prima e un dopo ha coinvolto la mia fantasia: la fine del potere temporale dei papi e per raccontarlo chi meglio del boia che per circa settant’anni è stato al loro servizio? Ma questa, come si dice, è un’altra storia di cui ho scritto ancora troppo poco (due romanzi e una manciata di racconti) per poterne parlare in questa sede.
Programmi pensieri, gesti ed emozioni (in sostanza, la vita) del tuo personaggio li decidi tu o è lui (o lei) a prendere le redini e fare ciò che vuole? Se decide lui (o lei), questa inquietante situazione si è presentata in quale romanzo (indica il numero d’ordine)? Se decidi tu, per favore dammi la ricetta!
Veramente speravo che a darmi la ricetta giusta potessi essere tu! Io non riesco neppure a programmare una scaletta decente, anzi, a dirla tutta, spesso mi succede di appuntarla in foglietti, o in file, per poi, puntualmente, perderla tra le pagine dei bloc notes o nel disordine del computer. Ma credo sia una questione psicologica, perché così sono costretto a riscriverla, per poi perderla di nuovo e riscriverla ancora. Insomma, una forma di riscrittura già fin da quel primo approccio, che, poi, di solito, è poco più lunga di una pagina, dove gli unici punti fermi sono le peculiarità dei miei personaggi e l’ambiente, la storia è soltanto tracciata, a volte senza neppure l’indicazione del finale. Quindi, come si può immaginare, spesso sono proprio loro, i miei personaggi, a prendermi per mano.
Spero che questo non mi releghi tra i dilettanti della scrittura, anche se, a mia discolpa, devo dire che il disordine fa parte del mio carattere e che, almeno per quanto riguarda la scrittura, ultimamente mi sforzo di migliorare, nel senso che cerco… di non perdere le scalette. In fondo anche alla veneranda età di 70 anni si può ancora imparare.
Chi crea un personaggio seriale popola un mondo di coprotagonisti seriali. Come scegli le “spalle”? Sono soltanto funzionali allo svolgimento dell’azione o li usi per dire qualcosa di più sul protagonista, approfondendo la sua vita privata?
Anche qui, per rispondere a questa domanda occorre fare una premessa: Dioguardi assomiglia a Carlo Romano, un caratterista del cinema molto attivo proprio in quegli anni. Scelsi quella figura perché mi sembrava incarnasse magnificamente l’italiano medio dell’epoca. E medio, nelle sue caratteristiche, anche intellettive, è il mio personaggio che fin da subito volevo disegnare in contrasto con quella figura che Andrea Carlo Cappi in modo geniale ha chiamato il Commissario Cliché: acciaccato nei sentimenti, sgualcito nel vestire, con problemi digestivi, ma dotato di un acume formidabile, la mia scelta, però, poteva farmi correre il rischio di cadere nel cliché contrario: la mediocrità del personaggio per la quale meglio funzionerebbe un romanzo ironico se non, addirittura, comico. Quindi ho scritto le mie storie sempre con la preoccupazione che quella specie di spada di Damocle mi cadesse prima o poi sulla testa.
Ecco, perciò, la necessità di affiancargli un coprotagonista che sopperisse alle sue mancanze, nel mio caso la moglie, complice e intuitiva quel tanto che non lo sminuisse (figura evidentemente suggeritami dalla moglie di Maigret).
E non solo.
Dioguardi viene dal Continente e perciò bisognoso di qualcuno del luogo che in qualche modo lo guidi nella comprensione di un mondo che non gli appartiene, ed ecco un ex maresciallo, nativo dell’isola, che lo imbecca, dandogli le “giuste” dritte. Ma è davvero sempre così?
Se il tuo personaggio potesse parlare cosa direbbe di te?
Parafrasando Flaubert: Dioguardi c’est moi! Almeno gran parte di me. Che potrei mai dire di me stesso? Un momento, forse qualcosa a Dioguardi potrei fargliela dire rivolgendosi a me: “Abbi più coraggio e più costanza nell’affrontare la scrittura, perché la scrittura di questo ha bisogno, di costanza e coraggio”!
Per concludere: puoi scegliere poche righe di un tuo romanzo che userò come spot del personaggio, tre righe che lo rappresentino.
… S’era allisciato i baffetti, e la moglie, una volta tanto, non gli aveva rinfacciato quella sua aria paciosa e rassicurante, o meglio: quel voler assumere a tutti i costi un’aria paciosa e rassicurante.
«Tu assomigli a Carlo Romano», gli diceva di solito, e poi, subito, aggiungeva per tranquillizzarlo, «ma non nella voce», che se prestata a Jerry Lewis poteva anche funzionare, ma che in bocca a un maresciallo dei carabinieri poteva distruggere la dignità di una carriera…” (da “Un’altra verità” il secondo romanzo che vede coinvolto il mio maresciallo).
Grazie a tutti coloro che hanno avuto la pazienza di andare fino in fondo a questa intervista.
N. B. La fotografia di Nicola Verde è di Sardegna Reporter.
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