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Poteva mancare un racconto fantasy nella raccolta “Racconti per sognare – Cuori per donare”? Certamente no, ed ecco che Claudia Tonin si è messa una mano sulla coscienza e ha scritto questa deliziosa storia per bambini.

Sulla cima del vulcano viveva una famiglia di draghi terrificanti.
Nanor, papà drago, era enorme, possente e terribile. La sua pelle lucida era ricoperta di scaglie rosse che brillavano alla luce del sole, come fuoco vivo e quando si librava nell’aria con le grandi ali spalancate, il suo verso faceva tremare la montagna. I suoi tre cuccioli lo temevano e quando lui era di cattivo umore, ovvero un giorno su due, se ne stavano sotto le ali della mamma.
Ronor, invece, era una bella draghessa verde dagli occhi gialli, aveva grandi ali aggraziate e si divertiva molto a rincorrere le pecore dei contadini della vallata.
I tre cuccioli si chiamavano Mior, Tior e Fafella. Come avrete già capito dal nome, Fafella non era come i suoi fratelli. I due draghetti, rossi come il papà, avevano infatti belle scaglie lucenti e piccole ali forti che consentivano loro di andare già a spasso per le valli. Fafella, invece, aveva lucenti occhi viola, era verde come la mamma, ma non aveva le ali.
Nanor, quando se n’era accorto, era rimasto molto sorpreso, ma non preoccupato: era un fatto che ci fossero draghi “lenti”, le cui ali spuntavano in ritardo. Neanche Ronor si era impensierita, suo zio Guilfer aveva messo le ali molto tardi.
L’unico veramente afflitto era Fafella. Guardava i fratelli librarsi nell’aria con la mamma e sentiva gli occhi riempirsi di lacrime.
Quando avrebbe potuto volare anche lui?
Quando, finalmente, sarebbero spuntate quelle benedette ali?
Le sue giornate erano sempre più noiose. All’inizio, quando i fratelli non volavano, giocava con loro a gettare sassi nella lava, a rincorrere le lucertoline, mentre adesso era sempre solo e non sapeva cosa fare.

Un pomeriggio d’estate, più barboso degli altri, Fafella se ne stava da solo, nascosto in una grotta, a lanciare sassi con la coda. A un tratto, sentì un rumore sconosciuto.
Pieno di entusiasmo uscì dalla grotta per vedere che accadeva e vide in lontananza delle figure che si arrampicavano sul crinale del vulcano. Erano strani animali a due zampe e stringevano dei bastoni con le mani. La loro pelle era di un assurdo colore rosato, ma Fafella, chissà come, capì che erano uomini. La mamma aveva parlato di loro, qualche volta, e gli aveva detto che erano cattivi e che era meglio star loro distante.
Fafella però era curioso, e poi quella era la prima novità da molti mesi! Decise quindi di conoscere quegli “uomini”, così andò loro incontro tutto sorridente. Quelli, quando lo videro, si fermarono perplessi.
L’uomo a capo del gruppo parlò agli altri, e Fafella rimase sorpreso perché capì subito quello che diceva.
«È un cucciolo! Prendiamolo, così gli esemplari adulti verranno a liberarlo e noi li uccideremo!»
A quelle parole, gli uomini fecero un cenno con la testa e tutti si girarono a guardarlo con cattiveria. Fafella si spaventò e decise che per quel giorno le novità erano state anche troppe, ma non riuscì nemmeno a fare due passi. Una cosa ingombrante lo avvolse, grigia, con buchi stretti, e che non gli permetteva neanche di muoversi.
«Tenete forte la rete, altrimenti volerà via!» urlò una voce.
Un uomo si avvicinò minaccioso per guardarlo e Fafella riconobbe quello che aveva parlato per primo.
«Tranquilli, non ha le ali, non può fuggire. Ecco perché era qui da solo» disse soddisfatto, mentre gli altri sorridevano. Poi lo legarono a un bastone, che si caricarono sulle spalle, e lo portarono giù dal vulcano.
Se non fosse stato per la posizione scomoda, Fafella si sarebbe molto divertito: era la prima volta che viaggiava, che vedeva la valle. C’era verde ovunque, e non si trattava di ciuffi radi come sulla montagna, ma di una bella erba brillante che gli dava l’impressione di essere molto soffice.

Dopo un po’, Fafella arrivò nel luogo dove vivevano gli uomini, nel villaggio. Tutti gli abitanti, femmine e cuccioli, andarono a vederlo mentre lo sistemavano in terra, dentro una grande staccionata di legno.
Attorno a lui c’era tanta erba ed era proprio soffice come si era immaginato, quindi  iniziò ad annusarla appena ne ebbe l’occasione. Starnutì.
Una bambina si mise a ridere dicendo: «Mamma, hai visto che buffo?»
Fafella la guardò. Era piccola, con i capelli lunghi e neri, e aveva la pelle rosa coperta da un vestito rosso come le scaglie di Nanor. Fafella cercò di andarle vicino, ma gli uomini con i bastoni lo circondarono.
Il loro capo gli disse: «Starai qui per qualche giorno, piccoletto, finché non arriveranno i tuo i genitori a prenderti». Poi, lui e tutti gli altri, compresa la bambina, se ne andarono e Fafella rimase solo, come al solito.
Quando ormai era buio, sentì dei rumori e guardò verso il punto in cui gli uomini se ne erano andati. La bambina era tornata e aveva qualcosa in mano.
Si fermò distante da lui, mise per terra un fagotto, poi se ne andò di corsa, spaventata.
Fafella, che era davvero un tipo molto curioso, andò subito a vedere cosa gli aveva portato la bambina. Con i denti aprì la stoffa che copriva un oggetto profumato. L’odore era buonissimo, sapeva di erba gialla con le spighe. Lo stava ancora annusando quando udì la voce della bambina.
«Assaggia il pane della mia mamma: è buono».
Fafella alzò la testa felice: allora non se n’era andata! Poi tornò a fissare la forma tonda e profumata del “pane” e l’assaggiò. Aveva ragione la bambina, era buonissimo! In due bocconi si mangiò tutto. L’altra si mise a ridere e lo salutò, scappando da dove era venuta.

Fafella rimase con gli uomini quasi una settimana e imparò a conoscere molti dei loro cibi, grazie a Margherita, la bambina dai capelli neri.
In quei giorni, lei si era fermata anche di giorno, a giocare con lui, mentre gli altri bambini rimanevano perplessi a fissarli da lontano.
Gli uomini non sembravano cattivi, ma Fafella cominciava a sentire la mancanza della sua mamma, così una sera chiese a Margherita: «Quando potrò andare a casa?».
La bambina fece un salto.
«Ma sai parlare?» gli domandò.
«Certo» rispose lui sorridendo.
«Ma i draghi sanno tutti parlare?» volle sapere ancora la bambina.
«Non lo so, io con i miei fratelli ho sempre parlato».
«Davvero? Il mio papà dice che voi siete degli animali cattivi» lo informò Margherita.
«Noi, cattivi? Perché?» chiese preoccupato Fafella.
«Perché mangiate le nostre pecore e bruciate il grano che serve per fare il pane. Per questo ti hanno catturato: per prendere anche i tuoi genitori».
Fafella la guardò piegando la testa di lato. Il suo papà era un po’ cattivo, ma non mangiava le pecore. O sì? Gli tornò alla mente quella carne buonissima che aveva mangiato pochi giorni prima, coperta di soffice pelo bianco, e si chiese se si trattava dello stesso animale.

Proprio in quel momento, sentì sopra di lui uno spostamento d’aria e,. con un gran tonfo, l’enorme corpo di suo padre atterrò nel recinto.
Margherita si mise a gridare e corse dietro a Fafella per nascondersi.
Lui sorrise a Nanor, che invece era molto arrabbiato e lo fissava con occhi gialli e accigliati.
«Papà, sei arrivato!» disse felice.
«Fafella, che ci fai qui?» chiese con voce tonante suo padre.
«Stavo mangiando il pane di Margherita e giocando con lei».
Il grande drago piegò la testa per guardare meglio la piccola umana che si nascondeva dietro la sua coda.
«Fafella» disse poi «non puoi giocare con gli umani: loro ci odiano».
«Non è vero» protestò Margherita con coraggio.
«Ha ragione» confermò lui. «Mi sono molto divertito questa settimana con loro».
Un grande rombo uscì dalla gola di Nanor. Stava ridendo, ma non sembrava divertito.
«Fafella, gli uomini ti hanno catturato perché non hai le ali e ti tengono prigioniero. Vero, piccola?» chiese fissando Margherita.
La bambina si fece coraggio e, uscita dal nascondiglio, disse: «Fafella e io siamo amici».
Gli occhi gialli di Nanor divennero enormi per la sorpresa, ma non disse nulla perché rumori di passi e di bastoni lo distrassero.
Gli uomini entrarono nel recinto e il capo, davanti a tutti, vide subito che Margherita era vicino a Nanor e fermò i suoi compagni.
«Fermi! Hanno preso la bambina».
Uno degli uomini andò avanti lo stesso, il viso molto preoccupato: era il papà di Margherita.
«Non mi hanno presa, stiamo parlando» spiegò la piccola.
«Infatti» aggiunse Fafella.
Gli uomini rimasero allibiti: il draghetto parlava!
Il capo si fece avanti chiedendo: «Grande drago, anche tu parli?»
Nanor lo squadrò con disprezzo, ma rispose: «Certo, piccolo uomo, e ora mi riprendo mio figlio e me ne vado».
A quelle parole, tutti alzarono i bastoni, minacciosi.
«Non fategli del male» protestò Margherita, allargando le braccia per difendere Fafella.
«Bambina, spostati o il drago ti ferirà» le intimò una voce.
Fafella però rispose subito: «No, Margherita è mia amica non le farò niente».
Il grande drago e gli uomini li fissarono, perplessi.
«Tesoro, non potete essere amici» disse il padre della bimba, facendole segno di andare da lui.
«Perché non possiamo?» chiese lei, testarda.
«Già, perché?» le fece eco Fafella, guardando suo padre.
«I draghi mangiano le nostre pecore e bruciano i nostri campi» rispose l’uomo.
«Non è vero, non bruciamo i campi» protestò Nanor.
«Ma mangiate le pecore» insistette il capo degli uomini.
«Una ogni tanto, per non morire di fame. Che altro dovremmo mangiare?»
Gli uomini si guardarono stupiti.
«Secondo me ci sono pecore per tutti» disse Fafella «e se ci insegnate a fare il pane, ne mangeremo di meno».
«Che cos’è il pane?» chiese Nanor.
Il draghetto gli diede quel che restava della sua cena e il grande drago lo mangiò con entusiasmo. Poi fissò gli uomini con attenzione.
«Ci insegnereste a farlo?»
Il capo si guardò attorno e vide che tutti gli altri erano d’accordo.
«Va bene, grande drago, ti insegneremo e voi non mangerete più di due pecore al mese».
«Tre» ribatté Nanor. «Ho tre cuccioli».
Il padre di Margherita fece sì con la testa: era giusto, una pecora per ogni cucciolo.
Anche gli altri acconsentirono e il patto fu siglato. Nessuno, infatti, aveva tanta voglia di lottare contro un drago maestoso e forte come Nanor.
Da quel giorno i draghi frequentarono spesso il villaggio e Fafella divenne compagno inseparabile di Margherita. E, quando un bel giorno gli spuntarono le ali, poté anche portare in volo la sua amica sopra il villaggio e sulla cima del vulcano. Insieme si divertirono a giocare per molti e molti anni e Fafella non soffrì più di noia e di solitudine.

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Claudia Tonin si è laureata in Lettere all’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi dal titolo “La figura di Toniolo e il suo contributo alla questione femminile”, poi pubblicata nella rivista economica “Il Pensiero Economico Moderno”.

Dopo alcuni racconti e un romanzo per ragazzi ha pubblicato con Edizioni Domino la trilogia de Le Cronache di Gaia, il cui secondo volume, Nautilus, è stato tra i finalisti del premio Ernesto Vegetti 2015. Dal 2012 scrive sotto pseudonimo e pubblica sia come autrice indie che con Giunti Editore. È membro dell’Associazione World SF Italia, dell’associazione Alumni di Ca’ Foscari e fa parte dell’EWWA European Writing Women Association.

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