Laura Tappatà torna a farci visita. Questa volta, porta con sé un saggio che -a mio avviso- farà discutere a ogni livello. Ben vengano testi stimolanti, in grado di dare una scossa a certo perbenismo intellettuale che sembra andare per la maggiore.
Grazie Babette per l’intervista e grazie a chi mi leggerà per il tempo e l’attenzione che rivolgerà a me e al mio nuovo libro.
“Il dono del rancore” apre una discussione su due concetti, quelli del rancore e del perdono, che tu vedi in maniera particolare, differenziandoti -per esempio- da un’ottica prettamente religiosa. Ce ne vuoi parlare? Sono affascinata da questo tuo saggio.
Sì, già il titolo stesso suscita una reazione immediata in chi lo sente. In molti mi hanno detto: “Una cosa così non si è mai sentita! Ma sei sicura? Come fai a sostenere una teoria del genere?”.
Le famose discussioni cui facevo riferimento nella presentazione dell’intervista.
Sono consapevole che affermare che il rancore è un dono è sia una cosa insolita (e questo mi auguro stuzzichi la curiosità dei lettori) che una sfida intellettuale (e per questo non si è sentita più di tanto). Ci hanno sempre insegnato che perdonare è un atto che ci accomuna agli angeli, che è una virtù che esalta la fortezza umana, tanto da diventare un toccasana per il nostro benessere spirituale e fisico. Perdonare ha anche un forte valore morale e religioso documentato dalla sua centralità nei testi sacri e nella liturgia; nella politica è espressione di una giustizia e di una virtù liberate da qualsiasi forma di vendetta e rivendicazione; nella cultura possiede tutte le caratteristiche per diventare progetto educativo e formativo.
Non perdonare, invece, ci trascina diritti nel giudizio morale più aspro: cattiveria, invidia, rabbia e astio ci rendono sgradevoli e potenzialmente pericolosi.
Il rancore evoca l’odore acre e disgustoso del rancido, si mescola con altri sentimenti da sempre considerati esecrabili. In ultima analisi: un confronto impari tra l’Angelo, simbolo del perdono, e il rancore, il Demone.
Una visione religiosa questa, direi. E da un punto di vista agnostico, invece?
Qui arriviamo alla seconda obiezione, cioè se sono sicura di quello che ho scritto. Vi assicuro che lo sono: da donna con un discreto patrimonio esperienziale, da filosofa che ama ancora studiare e ricercare, da persona agnostica e, proprio per questo, sempre alla ricerca della spiritualità nelle sue differenti forme e nelle sue essenze.
Sono convinta che perdonare ciò che è scusabile, ciò che di per sé è perdonabile e semplice da dimenticare, ciò che davvero non ci ha ferito profondamente, è sforzo lieve e non è il vero perdono. E’ una falsa consolazione e pura convenzione culturale.
Ho anche compreso che, nella vita, ci possono essere offese imperdonabili e indimenticabili, progetti di vita distrutti, ferite e delusioni profonde. Ma so anche che ci si può impegnare in una ricerca lunga e faticosa che trasforma la chimica della rabbia in energia costruttiva.
Come si legge nelle pagine del libro, i temi che tratto sono rivolti a chi ha raggiunto la consapevolezza che la nostra natura umana è regolata da forze potenti, emozioni, sentimenti, desideri, che vanno amministrati con saggezza ma che, di certo, non hanno nulla di divino e che trovano il loro equilibrio solo grazie all’uso sapiente del logos, della ragione.
Provare rancore non significa odiare o cercare la vendetta ma solo convivere con l’idea che certe ferite sono davvero imperdonabili.
In questa ottica, il rancore perde quella negatività che sembra contraddistinguerlo da sempre.
A mio giudizio, noi agiamo seguendo le nostre passioni e una delle esperienze più totalizzanti della nostra esistenza è quella che ci vede assaporare il dolore e la sofferenza psicologica come strumenti di conoscenza per raggiungere nuovi saperi. Proprio così capiamo chi siamo davvero, quali sono le nostre potenzialità e i nostri limiti, quali le espressioni emotive che ci caratterizzano, qual è il nostro modo, il nostro stile personale di vivere la vita che si esprime come continua ricerca di bellezza e conciliazione tra integrità e rottura, tra forza e fragilità.
Come fai a sostenere una cosa del genere? Con quali strumenti?
Col più tradizionale strumento della filosofia: le argomentazioni che devono essere lucide, comprensibili, ben documentate, anche se non necessariamente accolte da chi legge. La sfida intellettuale che sta alla base di questo libro dovrebbe farci compiere un passo indietro per guardare le cose da una prospettiva diversa e, con uno sguardo mutato, scorgere qualcosa che non si era visto prima.
Torniamo al mio primo pensiero: cosa succederà, dopo la lettura del tuo saggio?
Non mi aspetto che siano in molti a essere d’accordo con me, ma mi attendo che apprezzino la “pulizia” del ragionamento che sorregge il mio argomentare.
Cosa/chi ti ha spinto a scriverlo? Mi rendo conto, a questo punto, che non può essere stata la pura curiosità intellettuale.
Rispondere a questa domanda, con sincerità, significa svelarsi. Compito non facile. Considero una virtù saper vivere e condividere pensieri, emozioni e passioni e le donne, in questo, sono speciali. Nonostante la mia riservatezza (caratteristica che, però, mi permette di essere una buona complice per chi mi confida i suoi pensieri), non mi costa fatica, se serve per chiarire meglio il mio argomentare.
Nell’introduzione del libro, scrivo: “A chi non si può perdonare? A una grande passione tradita: che sia un partner, un ideale, una professione, un progetto. A un’amicizia che ci ha illuso e deluso. A Dio e, a volte, a se stessi”.
Credo che valga per molte di noi ma, di questo illuminante “indice”, io ho provato tutto! Ogni singolo amaro aspetto.
Credo che siano esperienze che, in modo più o meno grave, colpiscano ognuno di noi. Ti capisco.
Nella mia storia personale ho imparato che i segni delle ferite imperdonabili e i sentimenti a essi legati non vanno celati e camuffati, ma espressi e accettati: sono solchi indelebili ma possiedono dignità, vigore, vitalità, creatività.
Scrivendo il libro ho dato respiro al pensiero e alla comprensione dei miei sentimenti: quando c’è una profonda ferita narcisistica, il gesto più naturale che posso compiere non è certo perdonare ma ragionare sul dolore provato.
Il mio legame con il dolore che accompagna, inevitabilmente, queste ferite, si è fatto, negli anni, sempre più raffinato sul piano della consapevolezza mentale.
E così, da donna e da filosofa, mi sono chiesta se fosse davvero realistico continuare a pensare di poter risanare certe ferite imperdonabili con un perdono che fosse davvero autentico.
Vogliamo confrontarci con onestà intellettuale e con una mente liberata da condizionamenti culturali, morali e religiosi? Allora la risposta è no.
Ho voluto liberarmi di alcuni pregiudizi che limitano la potenza, la creatività dei nostri sentimenti e della nostra natura umana e abbandonare le maschere del buonismo per mettere a fuoco la necessità di superare dicotomie vecchie e inutilmente soffocanti: bene e male, corretto e scorretto, virtuoso e malvagio.
Sono profondamente convinta che tutta la vita sia passione e che, in particolare, il mio modo di vivere e concepire la vita sia passione.
Che questo è il “motore immobile” da cui muovono tutte le azioni umane, dalle istintive a quelle mentali. Che, con un percorso elaborato e faticoso, si può trasformare la sofferenza in saggezza emotiva e in energia costruttiva.
Che le offese subite che ci feriscono hanno una profonda risonanza emotiva che non possiamo nascondere e che ogni crisi esistenziale legata all’esperienza del dolore, se sapientemente controllata, ci può indurre a dispiegare il nostro potenziale creativo.
E ancora: che non riuscire a perdonare l’imperdonabile non è espressione di fragilità ma consapevolezza della sofferenza provata, ascolto della rabbia e accoglienza della propria natura.
E’ ciò che mi è accaduto in questi lunghi anni di vita e di esercizio del pensiero.
Accettazione profonda di essere stati feriti e che certe ferite sono lì e rimarranno lì. Incancellabili. Dal dolore ricavare una maggiore conoscenza di sé e delle proprie capacità come essere umano?
Sì. Comprendere e accettare che il dolore delle ferite che non si rimargineranno comunque porta profondità di sentimenti, conoscenze e capacità di dare significato a noi stessi, al nostro mondo emotivo e a quello degli altri.
Non perdonare è facile e istintivo come respirare.
E io ho avuto bisogno di tanto tempo e tanto impegno per giungere a questo traguardo.
Ho bisogno di una tazza di tè (veramente di qualcosa di più forte). Sgombro la mente da tutti questi pensieri che tu vi hai inoculato a forza, con la tua logica stringente, e passo a una domanda “tecnica”. Gestazione dell’opera: tempi, ricerche…
Distinguerei tra i tempi “di formazione”, diciamo quasi esistenziali e i tempi tecnici. Per i primi, vi direi una buona mezza vita! Mi spiego meglio. Provare rancore, per come lo intendo io, fa parte della nostra natura umana perché ogni afflizione o offesa rivolta a noi stessi è una ferita narcisistica e difendere la nostra sopravvivenza è una risposta mentale e fisiologica primitiva. Ogni incrinatura alla nostra identità provoca un lutto e il dolore ha bisogno di tempo per lavorare, respirare e ritrovare l’equilibrio. Per arrivare a questa consapevolezza, ci vogliono anni, esperienza, riflessioni e un po’ di saggezza. L’ho guadagnata sul campo.
Quando ho capito che volevo presentare al pubblico la mia teoria, cioè che il perdono è un paradosso, allora sono partiti i tempi tecnici. Idee, pseudo scalette modificate secondo le intuizioni o le fonti trovate, appunti, letture, ricerche bibliografiche (in casa, in libreria e in biblioteca), stesure e revisioni per rendere le argomentazioni sempre più leggibili, chiare, collegate e definitive.
Far passare le idee dalla mia mente alle pagine, lo ammetto, è stato più difficile del previsto.
Torno alla mia prima impressione: le discussioni accese che ti aspettano dietro l’angolo. Ritieni il discorso chiuso, o pensi che le reazioni (positive o avverse) ti spingeranno a riprendere in mano l’argomento?
Mi attendo dei confronti anche aspri: come ho già accennato, non penso che tutti saranno d’accordo con le mie argomentazioni ma confido nella buona volontà intellettuale dei lettori nel volere superare il giudizio unanime sulla valenza malevola e assolutamente negativa del rancore lasciandosi guidare dalle mie intuizioni. Impegnandoci possiamo assegnargli una differente dignità se lo consideriamo un modo di reagire, naturale e legittimo, alle delusioni significative della nostra vita.
Credo che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo capito che non si può più guardare con gli stessi occhi la realtà, o una persona, come se nulla fosse successo ma che, inevitabilmente, il dolore modifica la percezione che abbiamo di noi stessi, della nostra identità e dell’Altro che è il responsabile della ferita che ci provoca sofferenza, chiunque o qualsiasi cosa esso sia.
Confido nell’onestà di chi mi leggerà rimanendo perfettamente consapevole che qualcuno, per certe esperienze, cerca consolazione nella fede mentre io, come diceva Boezio, la trovo nella filosofia.
Grazie, Laura, di nuovo. E’ stato un pomeriggio faticoso-non ridere!-, ma quanto mai interessante.
Grazie a te, Babette.
Va bene. Mi ha convinto: l’argomento è stimolante, molto.
Comprerò il libro.
Il commento fatto dalla psicoanalista su “La Lettura”, era scontato.
Il rancore ci legherebbe troppo al passato tagliendoci libertà.
Mah
Penso sarà una lettura impegnativa.
Penso il rancore sia una emozione che toglie energia e vitalita’,
la brucia letteralmente. Credo non vi si debba indulgere e fare invece di tutto per trasformarlo per abbandonare la sua carica emotiva negativa.
Questo non significa non accettare la sofferenza, e non riconoscere le proprie ferite. Il primo passo nel processo del perdono e’ la consapevolezza della propria zona d’ombra. Questo non significa che bisogni fermarsi li. Altrimenti ti porti dietro un inutile bagaglio di sofferenza. Perdonare ci aiuta a liberarci di questo bagaglio.