Capitolo 5
Omira
Il viaggio non era stato particolarmente lungo. Dal villaggio alla capitale c’era poco più di mezza giornata a cavallo. Viaggiare però con una persona chiusa nel suo mutismo e in collera non era stato piacevole. Gyllahesh aveva tentato in tutti i modi di coinvolgere Nabir in una conversazione, ma i suoi sforzi erano stati vani. Inoltre, doveva stare attento a come cavalcava, dal momento che per il ragazzo era la prima volta. Non voleva ritrovarselo sbalzato di sella per un movimento sbagliato.
Era partito così in fretta dalla città che non aveva nemmeno assoldato una guerriera come guardia del corpo. L’altra sua preoccupazione era stata non essere sorpreso da briganti. Solo dopo avere oltrepassato le porte di Omira, Gyllahesh si era permesso un sospiro di sollievo.
Fu solo quando si ritrovarono di fronte alla villa, e lui annunciò l’arrivo, che Nabir sembrò avere una scintilla di interesse. Ancora a cavallo, alzò la testa e sbatté le palpebre, ma Gyllahesh sapeva che non poteva vedere che una distesa di bianco. Marmo bianco, in realtà. L’ombra fornita dalle chiome degli alberi quasi spogli si era allungata, sporcando il candore di riflessi grigi. Nabir non poteva comunque distinguere le differenze, così come non poteva vedere i piccoli balconi sulla facciata e le finestre a golfo, o i bovindi ai lati.
Gyllahesh smontò da cavallo, raggiunto da uno dei suoi servi, che guardò perplesso il ragazzo ancora a cavallo. Nabir sembrava non voler scendere di sella, e aveva chinato il capo a fissarsi le mani strette intorno alle redini.
«Nabir, siamo arrivati. Puoi smontare adesso.» Gyllahesh gli si avvicinò, guardandolo dal basso. Si accorse del rossore sul volto del giovane. «Che cosa c’è? Non vuoi entrare? La tua collera è ancora così viva?»
Nabir scosse il capo. «Non-» Si interruppe, mordendosi le labbra.
«Che cosa?» Lo scrutò con attenzione, preoccupato. «Stai male?»
Di nuovo, il ragazzo scosse il capo. Aveva legato quei magnifici capelli con un nastro sulla nuca, ma alcuni riccioli erano sfuggiti e danzavano ora intorno al viso sfumato di rosa cupo.
«Non riesco a scendere,» sputò fuori Nabir, e sospirò quasi fosse stata una liberazione.
Quando la comprensione lo invase, Gyllahesh fu tentato di scoppiare a ridere, ma si rese anche conto che facendolo avrebbe peggiorato la situazione. Il ragazzo non aveva bisogno di un’umiliazione, aveva bisogno soltanto che lui lo proteggesse al meglio delle sue possibilità.
Si avvicinò, allungando una mano per accarezzare il manto del baio. Selia aveva chiesto a una conoscente al villaggio, che era stata così gentile da fornirle un vecchio animale docile, ma che era servito allo scopo.
«Sono qui vicino, basta solo che togli i piedi dalle staffe e ti lasci andare.»
«Come? Cosa dovrei fare?» La nota spaventata nella voce di Nabir lo fece sorridere.
«Ti prenderò io, Nabir. Sono abbastanza forte per farlo, sai?»
Gli occhi verdi lo sfiorarono per un istante, e lui si sentì attraversare da un brivido. Lo scetticismo era impresso sul bel volto di Nabir, ma Gyllahesh non si lasciò sconfiggere. Alzò un braccio e strinse la mano su un fianco snello, nello stesso modo in cui aveva appena accarezzato il baio.
«Lascia le redini e togli i piedi dalle staffe. Spostati un po’ verso di me. Al resto penserò io.»
«Ti farò del male,» borbottò Nabir. Curioso che una persona che non aveva spiccicato parola per buona parte della giornata, in collera com’era con lui, ora si preoccupasse della sua incolumità.
«Non succederà. E io non ne farò a te.» Gyllahesh strinse appena la mano sul fianco, percependo la tensione nel ragazzo. «Te lo prometto, Nabir.» Questo andava oltre farlo smontare semplicemente da cavallo. Era la stessa promessa che aveva fatto a Selia, prima di partire, quel mattino all’alba. Non gli avrebbe fatto del male e avrebbe cercato di proteggerlo.
Nabir strinse le labbra e cedette le redini, prontamente afferrate da Tyro, il servo che era rimasto in silenzio al suo fianco.
«Così, bravo,» lo lodò Gyllahesh. «Solleva la gamba sinistra e spostala sullo stesso lato dell’altra, poi scivola giù.» Fu lieto che Nabir seguisse le sue indicazioni senza protestare oltre. Il ragazzo eseguì con un movimento incredibilmente aggraziato e, quando fu in posizione, scivolò lungo la sella. Gyllahesh aveva tenuto la mano sul suo fianco, e allungò anche l’altra per evitare che cadesse. Il corpo esile di Nabir gli si addossò, e lui percepì il respiro affrettato del ragazzo accarezzargli il viso e la gola, prima di arrivare al suolo con i piedi ben piantati per terra. Le sue braccia erano corse a sostenerlo, e Gyllahesh sentì il cuore aumentare i battiti, mentre lo teneva stretto. Una strana emozione lo percorse, e fu solo grazie a Tyro se non si rese ridicolo oltre misura. Perché un improvviso desiderio di accarezzare quei riccioli biondi e quella pelle liscia aveva fatto formicolare le sue dita.
«Avete bisogno che vi porti qualcosa, padrone?» gli chiese l’uomo, in attesa accanto ai cavalli.
Gyllahesh scosse la testa. «No, Tyro. Grazie, vai pure.» Ritirò le braccia, ormai sicuro che Nabir si reggesse in piedi da solo. Gettò un’occhiata al volto, e vide ancora quel rossore dipingere le guance del ragazzo. «Stai bene?»
«Credo… di sì,» sussurrò il giovane. «Ma non voglio più salire a cavallo in vita mia.» Si mosse in modo rigido, allontanandosi da lui, senza nemmeno alzare la testa.
Gyllahesh questa volta rise, dimenticando, o cercando di farlo, quella bizzarra sensazione di piacere nello stringere Nabir. «D’accordo. D’ora in poi andremo a piedi.»
Nabir annuì. La delicata sfumatura sulle sue guance si era attenuata, e questa volta alzò lo sguardo.
«Vorrei poter vedere questa casa. È così chiara che ha riempito i miei occhi di nebbia.»
«La facciata è di marmo candido. E sì, ti piacerebbe.»
Il ragazzo socchiuse gli occhi, il viso alzato e lo sguardo limpido e vuoto. «Sì. Credo anch’io.»
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