Capitolo 13

Nabir era sconvolto, eccitato e disperato. Si chiuse dentro la propria stanza e, senza neanche spogliarsi, si infilò sotto le coperte e si rannicchiò su un fianco, stringendo i pugni per impedirsi di piangere. Temeva che i singhiozzi che minacciavano di erompere fuori del proprio torace sarebbero stati uditi da Gyllahesh, e non voleva che l’uomo lo sentisse.
Non aveva mai baciato nessuno, nessuna donna gli si era mai avvicinata in quel modo. Vivere ai margini della foresta lo aveva tenuto lontano da quel genere di approccio, sebbene la sua sijia lo avesse reso edotto su quanto poteva succedere tra un uomo e una donna. Ma nel loro mondo non c’era posto per dei sentimenti: gli uomini che erano stati toccati dalla mano della grande Madre Alcheria potevano usare le loro doti per ottenere un posto nella società. Gli altri, meno fortunati, potevano contare solo sulle loro capacità di lavoratori, contando a volte su delle unioni con le mercanti o le donne del ceto basso. E poi c’erano quelli come lui, che avevano una possibilità solo se alle spalle c’era qualcuno che poteva proteggerli: in caso contrario, il destino non era clemente.
Sbattendo le palpebre nel buio, Nabir lasciò finalmente che lacrime silenziose gli rigassero le guance. Emozioni come quelle che lo avevano travolto durante il bacio erano disprezzate e segnate già in partenza: lui stesso si considerava sbagliato da tutti i punti di vista. Provare qualcosa per un uomo poteva renderlo un emarginato, e nelle sue condizioni avrebbe significato morire. La sua sijia gli aveva parlato delle usanze del Ducato di Odi, degli uomini Aldair, la cui natura ambivalente era la normalità, ma a Endora, dove il potere delle donne travalicava ogni minimo desiderio di cambiamento, era considerato innaturale, e per questo disprezzato.
Non sapeva quando i sentimenti che gli si agitavano nel petto fossero venuti alla luce. Non sapeva perché ciò che provava per Gyllahesh non avesse niente a che fare con la gratitudine, e tutto con il desiderio. Da quando aveva udito la sua voce, non c’era stato spazio per altro, nella sua mente.
Non erano solo i suoi occhi a essere malati. Forse avrebbe dovuto fuggire, andare a Odi e farsi accogliere in quel Ducato. Il solo pensiero era assurdo, ma gli consentì di calmarsi e asciugare le lacrime. Non si sarebbe più avvicinato a Gyllahesh, avrebbe tenuto per sé quello che provava per quell’uomo che tanto stava facendo per lui. Anche se avrebbe sofferto.

Capitolo 14

Il sole non era ancora sorto, quando Nabir uscì da sotto le coperte, ancora con i vestiti addosso. Alla fine si era addormentato, dormendo per fortuna un sonno senza sogni. Sentiva la pelle delle guance tirare, laddove le lacrime si erano asciugate, e usò l’acqua gelida della brocca per lavarsi il viso e cercare di svegliarsi.
L’episodio della sera prima era più vivo che mai, nella sua testa, e sperò di sfuggire alla vista di Gyllahesh per non morire di imbarazzo. E dolore. I sentimenti che provava potevano anche essere sbagliati, ma albergavano nel suo cuore e lo sforzo per cancellarli era davvero immane.
Scese da basso, raggiungendo la cucina e trovandovi Myrrin già alle prese con la colazione.
«Buongiorno,» lo salutò questi, non appena mise piede nel locale.
«Buongiorno.» Nabir sbatté le palpebre. «Posso fare qualcosa?»
«Solo prendere i piatti.» Myrrin appoggiò qualunque cosa avesse in mano – forse una pentola, a giudicare dal rumore – e gli si avvicinò. «Stai bene? Hai una faccia terribile.»
Nabir si schernì. «Sì, tutto bene. Devo aver dormito troppo.»
«Non si direbbe. Sei pallido, ragazzo.» Myrrin si allontanò. «Hai bisogno di mangiare. Siediti, gli altri arriveranno tra poco, ma intanto puoi già iniziare.»
Lui non ribatté e obbedì. Non serviva a niente protestare con l’uomo più anziano. Scostò una sedia e si era appena accomodato, quando il rumore lo fece sussultare. Qualcuno stava bussando al portone d’ingresso, o forse stava cercando di buttarlo giù, a giudicare dalla forza dei colpi.
«È l’alba. Chi mai può essere?» La voce di Myrrin era venata di sorpresa e anche di un lieve timore. Nabir lo percepì chiaramente e si alzò, ma l’altro gli passò accanto, stringendogli la spalla. «Rimani qui, vado a vedere.»
I colpi si susseguirono, seguiti da grida che lui non riusciva a distinguere. Un brivido di paura assolutamente inaspettata e che non avrebbe avuto ragione di provare gli scivolò lungo la schiena: stava per succedere qualcosa, se lo sentiva. Il presentimento che riguardasse lui lo attraversò di colpo, insieme al ricordo del giorno prima, quando avevano incontrato quell’uomo al mercato.
Nabir strinse i pugni, le voci che aumentavano di volume ora che Myrrin aveva aperto il portone. Su gambe diventate improvvisamente rigide, raggiunse la soglia della cucina, udendo lo strepitio e il rumoreggiare di numerosi stivali. Le voci femminili sembravano alterate, e stavano intimando a Myrrin di farsi da parte.
Con la gola secca e chiusa dall’angoscia, Nabir uscì nel corridoio che portava all’atrio, lo schiamazzo che lo accoglieva. Non riuscì a fare un altro passo: le ombre davanti ai suoi occhi aumentarono, ondeggiando.
«Nabir! Ti avevo detto di rimanere in cucina!» Myrrin sembrava agitato, e lo contagiò, facendolo quasi incespicare, quando una voce gelida lo investì e lo immobilizzò.
«Eccolo, è lui. Prendetelo.»
Un turbinio lo avvolse, insieme a mani che lo afferrarono in maniera tutt’altro che gentile. Le donne attorno a lui strinsero le dita sulle sue braccia, strattonandolo e tirandolo verso l’atrio.
«No!» esclamò, nello stesso istante in cui lo gridava Myrrin.
«Zitto, vecchio, o trasciniamo via anche te.»
Malgrado lo stessero stringendo e obbligando a seguirle, Nabir riconobbe la voce: era la donna che era arrivata al villaggio, la comandante del drappello di guardie. La paura che gli aveva fatto accapponare la pelle si intensificò, quando si rese conto che non si sarebbero fermate di fronte a niente, soprattutto se qualcuno si fosse opposto. Non voleva che succedesse qualcosa a Myrrin, e girò la testa verso la direzione da cui aveva udito provenire il “No!” dell’uomo.
«Myrrin, sta’ fermo. Non accadrà niente. Ti prego, resta lì.»
«Ragazzino coraggioso.» La voce dal timbro duro era accanto al suo orecchio. «Vedremo se lo sarai ancora, dopo che la Custode avrà finito con te.»
Per la Grande Madre Alcheria. Nabir sbatté le palpebre: sapevano chi era, di chi era figlio. La sensazione che stavano per essere i suoi ultimi istanti lo invase, insieme a una calma che gli scivolò addosso, attecchendo nel suo animo. Non avevano cercato Gyllahesh, che lo aveva accolto e protetto, non lo avevano neanche nominato. Quella consapevolezza lenì il timore della morte che, era certo, sarebbe sopraggiunta presto. Era figlio di una traditrice, in mancanza della quale avrebbe pagato lui. L’importante era che lasciassero in pace gli abitanti di quella casa, soprattutto l’uomo che probabilmente ancora dormiva al piano superiore.
Si rilassò, le dita imperiose delle guardie a scavargli solchi nella pelle coperta dalla casacca leggera.
«Lasciate stare Myrrin,» sussurrò. Era la sua resa totale, e la comandante dovette capirlo: la sua aspra risata lo ferì a morte, priva com’era di ogni parvenza di pietà.
«Non sei tu a dare ordini, ragazzino. Portatelo via.»
Venne trascinato senza complimenti attraverso l’atrio, fino al portone rimasto aperto. Nabir sentì il freddo lambirgli il collo e le spalle, il rumore dei pesanti stivali a riempirgli le orecchie. Myrrin non era stato preso, lo capì dalle sue ultime parole, prima di essere portato via.
«Sta’ tranquillo, Nabir! Vado a chiamarlo, risolveremo tutto.»
Non avrebbero risolto niente, pensò tra sé. Era figlio di una traditrice, avrebbe pagato per lei. Nabir strinse gli occhi, ricacciando le lacrime. Doveva essere coraggioso. L’unico rimpianto era non aver visto Gyllahesh per l’ultima volta.

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