Diciamo la verità. Kabir Bedi, pur essendo indiano, ce lo sentiamo un po’ “nostro”. Probabilmente perché della sua lunga carriera conosciamo soprattutto le interpretazioni salgariane che fanno parte della nostra cultura popolare. Magari anche perché la voce di Sandokan e del Corsaro Nero era quella di Pino Locchi. Non so se è stato il miglior Sandokan (anche perché io me lo figuravo dieci anni prima secondo l’iconografia di quel tempo), ma a metà degli anni 70 era di certo il più giusto per quel momento. Più rivoluzionario e terzomondista di quanto fosse stato nei romanzi (che un po’ lo erano), il Kabir salgariano era un eroe del suo tempo. Romantico sicuramente, capace di incantare con l’occhio bistrato sia nei momenti di furia che di passione. Un po’ ingenuo ma è giusto perché quelle avventure sui mari d’Oriente e dei Caraibi son fatte così. Emozioni semplici dove tutto è bianco o nero. Gli eroi son fatti per cullare la nostra parte bambina e credo che questa sia esattamente la loro funzione. Sollima creò un universo salgariano che aveva parentele con il western e anche questa è una cosa tutta italiana. Noi, ai quali la critica ufficiale negava il gusto dell’avventura, del luogo lontano e meraviglioso, eravamo costretti a prendere a prestito da altre tradizioni orizzonti in technicolor, ma poi li facevamo nostri contaminandoli l’uno con l’altro. Che grande film avrebbe fatto Leone. Io Kabir lo vidi anche meglio nei panni del Corsaro Nero. Si affacciò anche in un James Bond dell’era Moore, forse il più goliardico e non adatto a lui. Mi sarebbe piaciuto vedere Kabir in un bel poliziesco. Di certo il pubblico femminile gradiva e c’è da capirlo.

Ci vediamo oggi per la Presentazione del volume

“Duro da uccidere. Il cinema di Steven Seagal”

sulla pagina di Shatter Edizioni.