Titolo: Troppo amore! Donne e passioni
tristi.
Autore: Laura Tappatà.
Editore: Madonini Editore.
Pagine: 74.
Prezzo: euro 4,99 (e-book).
Da alcuni anni assistiamo all’emergere
di nuove forme di malesseri emotivi, di disturbi psicologici e differenti
manifestazioni di patologie già note che, rispetto al passato, si presentano
con maggiore precocità e complessità.
Forse, il vero rischio del tempo
delle passioni tristi è la mancanza di equilibrio e di competenza personale, ma
anche la noia, l’inefficace ricerca di un benessere effimero, condizioni che
riescono, in alcuni casi, a inquinare anche la “passione di tutte le
passioni”: l’amore.
Questo testo vuole riflettere su un quesito
gravemente attuale e frequente, sulle sue origini culturali, politiche,
psicologiche.
Come può una donna accettare la
violenza fisica e metafisica dal proprio partner? Ed è possibile amare troppo?
La risposta è sì. Tutte le volte che giustifichiamo degli eccessi, quando la
nostra relazione mette a rischio il nostro benessere emotivo, la nostra salute
e la nostra sicurezza, quando ci adattiamo a tutto pensando che se saremo
affettuosi, comprensivi, attraenti, il nostro partner cambierà atteggiamenti,
solo per amore nostro, in quel caso stiamo rischiando di amare troppo.
L’amore, per i dipendenti affettivi,
è ossessivo, soffocante, è parassitario. Il malato d’amore è un
“donatore” di amore a senso unico, è un intossicato che prova un
malessere psicologico e fisiologico come se fosse dipendente da qualche
sostanza; che cosa possiamo fare per contrastare tutto questo?
Possiamo fare la scelta di un impegno
etico: un impegno mirato alla costruzione di senso della nostra esistenza e di
quella degli altri, un impegno che preveda delle parole chiave, che sono
benessere, equilibrio, desiderio.
E come donne, possiamo sperimentare
il nostro valore sia quando ci prendiamo cura degli altri e riconosciamo a noi
stesse i meriti delle nostre competenze interpersonali, ma anche quando
accettiamo la sana ambizione di voler salire sul palcoscenico come
protagoniste, mai vittime di nessuno e di alcun sentimento.

Un libro e un’autrice che si discostano dall’ordinario per questo blog. Eppure, credo che l’argomento sia così strettamente di attualità e così coinvolgente da meritare di essere letto e discusso anche in questo angolo.
Ho incontrato Laura Tappatà e le ho rivolto un numero incredibile di domande, alle quali ha risposto con un fiume di parole che mi hanno interessato ed entusiasmato. 

Laureata in Filosofia con indirizzo
psicologico, Laura Tappatà è membro dell’Unità di ricerca di Psicologia della
Creatività (Dipartimento di Psicologia), presso l’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano. Con un curriculum impressionante alle spalle e
chiarissime idee sul futuro, Laura si è prestata a fare due chiacchiere con me,
per illustrarmi il libro “Troppo amore! Donne e passioni tristi”, pubblicato da
Madonini Editore.
Ben trovata, Laura. Confesso che il tuo libro si discosta non poco
dai testi che sono solita recensire. E tu sei un’autrice molto diversa da
quelle che intervisto. Niente romantic suspense, niente chick-lit. Ci proverò.
Grazie. So che l’argomento è lontano dalle
tematiche tipiche della narrativa rosa, però mi sembra che sia di attualità e
tale da interessare anche le tue affezionate lettrici.
Ne sono certa. Cominciamo con qualche nota personale, tanto per
rompere il ghiaccio? Dove abiti? Sei sposata?
Abito a Milano, da sola. Io
e mio marito viviamo a 70 chilometri di lontananza: una distanza che è
oggettiva e mentale, ma che ha creato un equilibrio tutto nostro nel quale non
mancano mai le presenze e la complicità, là quando ce n’è bisogno.
Condivisione e separazione
per due spiriti che, in questo modo, sanno rispettarsi e volersi bene.
Un
ricordo della tua infanzia?
Mi sono sempre sentita
un’insegnante. Già da piccola (sette, otto anni) sistemavo tutti i miei animali
di peluche per terra, creando virtualmente un’aula e, insegnavo… raccontavo
storie, li aiutavo a fare i compiti.
Un’insegnante?
Davvero?
Ho fatto la maestra di
animali di stoffa e poi ho insegnato chitarra classica e spagnola e anche nuoto
ai bambini. Poi Psicologia Generale all’Università. Ora che ci penso, un lungo
curriculum che mi vede sempre impegnata, prima a imparare e poi a trasmettere
agli altri.
D’altra parte ho sempre
pensato che insegnare avesse una sua missione politica e di formazione e che
fosse l’occasione per trasmettere e testimoniare valori e contenuti, rendendo
possibile la comunicazione tra generazioni. In particolare in università, credo
di esserci riuscita. Il mio parametro di misurazione? La quantità di sorrisi,
saluti, che fossimo a lezione o agli esami, mail, messaggi, racconti, inviti a
tesi, matrimoni e battesimi, da parte delle mie studentesse.
Il
tuo curriculum di studio è impressionante. Parlami un po’ di quello che c’è
dietro.
Ho avuto una formazione
spettacolare, nelle scuole pubbliche: dalle elementari, alle medie e alle
superiori con insegnanti professionali e passionali. Le cose sono un po’
cambiate in università tant’è che considero, proprio grazie a questa mia
esperienza, il mio stile d’insegnamento molto differente da quello ricevuto. In
realtà, i professori universitari che ho incontrato li ho più temuti che
rispettati: un mucchio di “esemplari Alpha” che dovevano esercitare il loro
potere intellettuale.
Poi è arrivato quello con
cui ho lavorato per tanti anni. In Accademia c’è, se si è fortunati, il
privilegio di avere, da adulti, un Maestro. Un rapporto diverso da quello che
si instaura quando si è più giovani. Impari e ascolti ma ti rendi conto che non
è solo quello. Il Maestro ti offre la tecnica per scrivere e a far ricerca ma
il mio mi ha svelato ironicamente i giochi, le ombre, le noie e i pericoli
dell’università: mi vedeva troppo innamorata dell’ambiente. Aveva ragione e,
ammetto, di non avere imparato granché, su questo. Però mi ha educato alla
scrittura.
Lavoro
e vita privata. L’un contro l’altra armati?
Lavoro e vita privata,
fortunatamente, non si sono mai soffocati l’uno con l’altra. Scorrevano su
binari paralleli e i binari sono sicuramente un segno della mia vita
lavorativa: li potrei adottare come emblema del mio stemma, se ne avessi uno.
Binari dei treni. Accettate
trasferte fuori regione: il primo insegnamento nelle Marche con tre giorni alla
settimana lì e gli altri a Milano e Brescia.
Binari di tram e metro.
Chilometri in superficie o sottoterra per raggiungere sedi centrali o
distaccate. Bastava avere un’aula e degli studenti e io andavo.
E anche tacchi,
rigorosamente persi per strada e tra i binari dei tram!
Che
differenze ci sono (se ci sono) tra i saggi scritti in precedenza e “Troppo
amore!”. Differenze di argomento, ma anche di stile, di approccio
all’argomento.
In realtà, non c’è stato
proprio un salto qualitativo netto tra i testi scritti in precedenza per
l’università e “Troppo Amore!”. Nel senso che, anche quelli, non sono mai stati
troppo teorici perché mi sono sempre interessata ai fatti della vita, ai
sentimenti, anche quando ho pubblicato saggi sulle emozioni, sul fascino del
rischio, sullo stile di vita e la personalità postmoderna, sulle dipendenze
psicologiche. Magari erano un po’ più “contratti” in una forma didascalica
visto che erano adottati come testi d’esame. Ma era incredibilmente bello
sentirli rinascere con le parole degli studenti, vederli accresciuti dalle loro
elaborazioni e dai loro pensieri. Mi sembrava davvero di essere riuscita a
parlare con loro e di averli trascinati in un mondo di interessi comuni.
“Troppo Amore!” nasce dalla
voglia di dare voce alle mie esperienze, alla mia esigenza di ragionare sulle
cause degli eventi e di parlare, con passione, alle donne, delle donne e dei
nostri stati d’animo.
Dove scrivi?
All’Università? A casa? E hai “una stanza tutta per te”?
L’università non mi è mai
sembrata il luogo adatto per scrivere (tranne quando lo facevo con colleghe per
dei progetti comuni), non c’è l’atmosfera giusta: sfrutto tantissimo la
Biblioteca per reperire i testi ma, fatto un borsone, me li porto tutti a casa.
Qui ho la fortuna di avere
una stanza dove c’è l’essenziale. Una scrivania anni ’40, dove si accumulano
appunti presi al volo, libri, pc; una poltrona comoda e una libreria colma di
libri di letteratura, saggi, poesie; cataloghi, guide di viaggi: dal libro regalato
dalla maestra durante la seconda elementare, all’ultimo acquisto. Alle pareti
stampe coloratissime dei musei visitati, in giro per il mondo.
Questa è la mia idea di
luogo ideale, quando scrivo. Circondarmi del “bello vissuto”, dei ricordi che
smuovono energia, dell’utile e del comodo. Niente di meglio.
La
sinossi ci dà un’idea abbastanza precisa del contenuto di “Troppo Amore!”, ma
vorrei che tu ci parlassi della stesura del testo, delle difficoltà incontrate.
Rendilo vivo, insomma.
“Troppo Amore!”, il libro che
riflette sul tema, gravemente attuale, della dipendenza affettiva e delle sue
origini culturali,
politiche, psicologiche, è stato scritto in diversi mesi: onestamente non
ricordo quanti tra la prima stesura e qualche revisione. So che l’ho amato
molto e il tempo è passato trasformandosi in quella sana dimensione in cui
energie, idee, pagine realizzate, stanchezza e soddisfazione, si mescolano
assieme. Saranno stati cinque, sei mesi di feeling? Non lo so.
Mentre so di non aver
impiegato nulla tra la proposta all’Editore (nella persona di Alessandro
Bruciamonti) e l’accettazione del lavoro. Questo perché ho incontrato, da parte
sua, sensibilità, attenzione ai particolari e all’attualità del tema trattato,
senza per questo però cadere nella spettacolarizzazione del dramma vissuto da
molte donne: un atteggiamento che può fare “mercato”, ma che io non condivido
più di tanto. Sicuramente fortunata, ma ha senso così. Altrimenti non ci
sarebbero stati né fiducia, né divertimento né, tanto meno, interesse a
continuare la collaborazione.
Dopo
aver pubblicato il libro, hai potuto toccare con mano le reazioni dei lettori.
Che impressioni ne hai ricavato?
Ho presentato il libro in
diverse occasioni. Nelle librerie, in biblioteca, nelle scuole, nei centri culturali,
in alcuni eventi. E’ stata una fantastica opportunità per fare nuove
conoscenze. Alcune delle mie nuove e belle amicizie sono nate con questo libro.
Ovviamente le donne sono… le
donne! Attente, sensibili, energiche e con la voglia di raccontarsi ma anche di
fare. Tutte sapevano perfettamente di che cosa stavo parlando. Ciò significa
che tutte noi, almeno una volta nella vita, abbiamo amato troppo e questo senza
cadere nel dramma della violenza fisica. Ma la violenza psicologica, o quella
che io chiamo metafisica e il sacrificio per un Altro importante per noi, li
conosciamo. I loro erano sguardi lucidi, quelli della consapevolezza; cercavano
nel loro passato e, spesso, sapevano assegnare un nome preciso (di uomo o di
donna) a chi aveva fatto provare loro quei sentimenti e quegli stati d’animo.
Più profondi e confusi, gli
occhi delle giovani donne di un Liceo milanese: l’esigenza di conformarsi ad
alcune regole dei giochi comuni, che di certo non enfatizzano il valore del
rispetto, non impediva loro di chiedersi se, per caso, non avessero già
accettato troppo, dai partner, dai loro atteggiamenti e dal loro linguaggio,
dai media, dalla cultura.
Gli uomini? Spesso
silenziosi, come per prendere le distanze da quelli “cattivi”, che si
comportano male; alcuni, invece, turbati e con delle domande cui è difficile
rispondere: “ma che mamma e che genitori aveva quello che ha buttato l’acido
sul viso della sua compagna?”.
Che
impatto ha avuto “Troppo Amore!” nel mondo delle tue relazioni di lavoro? Come
è stato accolto dai tuoi colleghi di Università?
Il mondo universitario ha
delle regole formali molte ben precise, una sorta di codice che impari a
decifrare. So che alcune congratulazioni non erano molto sincere, ma solo un
esercizio di stile. Altre, invece, lo erano perché, in un mondo come quello
accademico, che spesso si risolve in una ricerca ossessiva di algoritmi che
valutano il tuo “impact factor” nella comunità scientifica, la mia è una
posizione davvero invidiabile! Essendo (e, per quanto mi riguarda, purtroppo!)
fuori dall’insegnamento, mi posso permettere di scrivere ciò per cui ho un
reale interesse e trasmettere dei contenuti e dei valori in cui credo come
persona e non solo come docente.
Una mia giovane collega mi
ha detto: “Ti ritrovo nelle pagine che hai scritto. Ciò che si legge è ciò che
sei ed è quello che pensi”. Difficilmente un articolo scientifico ti evoca un
giudizio come questo.
Progetti
e sogni per il futuro.
Per il mio futuro, prevedo
(e spero) di continuare a studiare, comprendere e raccontare.
Sono un filosofo e la
ricerca delle “cause” mi affascina.
Vorrei continuare a parlare
e scrivere di passioni perché tutta la nostra vita è passione! Sono
profondamente convinta che noi siamo emozioni, sentimenti, energie, che
interpretano, plasmano la nostra esistenza. Anche lo studio, la ricerca, sono
risorse emotive ricche di slanci vitali.
Una prima occasione per
realizzare tutto ciò ha la forma di un progetto già in realizzazione. E’ un
nuovo testo che uscirà alla fine dell’anno: “Il dono del rancore”, edito da
Sefer.
Differentemente dal
pensiero comune e dagli obblighi sociali, penso che quando ci sia stata una
ferita, un’offesa che ha provocato un’incrinatura alla nostra identità e un grande
dolore, non perdonare è facile e istintivo come respirare.
Spero di essere riuscita a
presentare un tema così spigoloso in un nuovo modo e, in quest’ottica, il
rancore può assurgere a una sua dignità. Il rancore, e le sue espressioni,
guadagnano un potenziale creativo.
Un altro progetto, che sarà
più complesso realizzare, è quello di ritornare a insegnare perché anche questo
significa passione, impegno, fatica, trasmissione di contenuti e di spirito
critico.
E poi, una vacanza!
Grazie per questa intervista molto particolare. Auguri per i tuoi
sogni e per i tuoi progetti.
Grazie a te. Arrivederci.