I miti delle origini sono spesso inquietanti. Prendiamo quelli dell’antica Grecia. Rea, la madre terra, da sola genera il cielo. Fin qui niente di strano, le mamme sanno fare di tutto. Poi la sconsiderata sposa Urano, dio del cielo e nascono esseri mostruosi: Ciclopi (quelli con un occhio in mezzo alla fronte), Centimani (il nome è tutto un programma), Titani (senza la -c finale, fanno disastri comunque).
Giustamente, Rea trasforma Urano in un pianeta e si risposa con Crono, ma le va ancora peggio: il nuovo marito divora i figli appena lei li mette al mondo.
Se questo accade sotto gli azzurri cieli della Grecia, figuriamoci tra le nebbie del nord! Nella mitologia norrena, Odino e i suoi fratelli fanno a pezzi il gigante Ymir. Dalla sua carne nasce la terra, dal sangue laghi e fiumi, dalle ossa e dai denti spezzati le rocce: un film dell’orrore.
Nei Veda indiani, il mondo nasce dall’uomo cosmico che viene smembrato. Per non parlare dell’antico Egitto, con le sue divinità a testa di leone o di falco.
Decisamente, il fantasy era un genere apprezzato dai popoli dell’antichità.

I miti giapponesi sono un po’ meno cruenti. Qui la creazione è un lavoro di coppia. Lui si chiama Izanagi, lei Izanami. Dal ponte fluttuante del cielo, rimescolano il fondo dell’oceano con una lancia ingioiellata. Ne cola un grumo di fango: diventa la prima isola dell’arcipelago, su cui essi discendono.

Izanagi e Izanami, i kami della creazione (da Wikimedia)

Dall’amplesso divino, descritto senza alcun imbarazzo (niente peccato originale qui!) nascono tutte le altre isole del Giappone, e quindi i kami che le popolano: degli alberi e delle montagne, delle scogliere, dei fiumi. Finché ne arriva uno un po’ diverso, il kami del fuoco. Partorirlo costa la vita alla povera Izanami, che muore bruciata.
Poiché la creazione è rimasta incompleta, Izanagi va a in cerca di lei fin nel regno di Yomi. Pare che questa parola nell’antichità volesse dire “tumulo”. Si seppellivano i morti in un tumulo la cui forma, vista dall’alto, ricorda il buco di una serratura. Questi tumuli (kofun) hanno dato nome al periodo storico in cui furono costruiti, 250-538 d.C.

Nel tumulo ci sta ben poco, Izanagi. Il tempo di scoprire che la moglie, avendo mangiato cibo preparato nella cucina dei demoni, è diventata a sua volta una creatura diabolica (oni) e non vede l’ora di fargli la pelle.
Questa faccenda del cibo stregato si ritrova oggi in manga e anime, con mille varianti. I genitori di Chihiro ne “La città incantata”, lo mangiano e si trasformano in maiali. Molte pubblicità di cibo, in Giappone e altrove, sembrano finalizzate a produrre lo stesso effetto.

Cibo stregato (foto messa a disposizione da Studio Ghibli per free download)

Come che sia, Izanagi schizza fuori dal tumulo e ne sigilla l’ingresso con una grossa pietra. Poi scende al fiume per purificarsi. La sporcizia che esce dalle sue vesti genera kami malefici. Quando si lava il viso, dal suo occhio sinistro nasce Amaterasu dea del sole; dal destro Tsukuyomi dio della luna e dal naso Susano-o, dio della tempesta.

“Allora Izanagi si rallegrò molto e disse: ‘ho avuto un figlio dopo l’altro, ma questi tre sono i più nobili.’ Si tolse la collana, ne scosse i lacci per farla tintinnare e la diede ad Amaterasu, affidandole il compito di governare l’altipiano del cielo. A Tsukuyomi affidò quello di governare le notti. A Susana-o, di governare l’oceano. Ma mentre gli altri due obbedirono al comando, governando i regni loro affidati, Susano-o non lo fece. Si mise a piangere e ululare finché la barba gli crebbe lunga quattro palmi, coprendogli il petto.
Quel pianto fece sbiancare le montagne verdeggianti, prosciugò laghi e fiumi. Le grida di divinità malefiche erano ovunque, come le mosche d’estate e insorsero calamità di ogni genere.
Allora Izanagi chiese: ‘perché piangi e ululi, anziché governare il regno che ti ho affidato?’
Susano-o rispose: ‘Voglio tornare nel paese materno, perciò piango.’
Izanagi andò in collera e disse: ‘Se è così, non puoi vivere in questo paese.’ E lo mandò in esilio.”

Questo brano è tratto dal Kojiki (registro delle cose antiche), la cui compilazione è di per sé una leggenda. Temmu, sovrano del clan Yamato e quarantesimo imperatore del Giappone (631-686 d.C.) ordina di raccogliere la tradizione orale sulle origini della sua stirpe. L’incarico viene affidato a Hiyeda no Are, uomo dalla memoria prodigiosa: gli basta ascoltare un racconto una sola volta e non lo dimentica più. Però l’imperatore muore e per quasi 30 anni, il patrimonio che gli è stato tramandato resta nella memoria di Are.  Finché nel 711, l’imperatrice Gemmio comanda che sia trascritto in ideogrammi.

Il “paese materno” di cui parla Susano-o, dov’è? Ci sono varie ipotesi: chi dice la Corea, chi l’Asia centrale. In ogni caso sembra che l’etnia Yamato (da cui discendono gli imperatori del Giappone) venga dal continente. È gente bellicosa, che ha armi di ferro. Nel volgere di qualche secolo si impadronisce del paese, scacciando gli abitanti originari nelle zone più fredde e inospitali dell’arcipelago.
Il libro degli dèi, prima delle tre parti in cui è suddiviso Il Kojiki, è scritto per sostenere l’idea che questi invasori siano di stirpe divina.

Un dio della tempesta che piange e ulula perché ha nostalgia di casa, fa tenerezza: un po’ mi ci identifico pure io. Izanagi infatti perdona il figlio e lo riammette tra i kami, ma Susano-o combina nuovi disastri. Un litigio con la sorella fa esplodere la sua collera: distrugge gli argini delle risaie, insozza di escrementi lo spazio delle offerte, scortica il cavallo della dea del sole. Terrorizzata, Amaterasu corre a rifugiarsi in una caverna e il mondo piomba nell’oscurità.
Gli altri kami riescono ad attirarla fuori, allettandola con uno specchio (Amaterasu è vanitosa) e un gioiello. Susano-o viene mandato di nuovo in esilio e questa volta, per sempre. Disceso sulla terra mette la testa a posto, rivolgendo la sua indole collerica al servizio del bene. Dopo avere salvato una fanciulla che sta per essere divorata dal drago a otto teste, ne fa la sua sposa. Da loro discendono i sovrani del Giappone.

Nel corpo del drago, Susano-o trova una spada. Questa, come lo specchio e il gioiello, ancora oggi è conservata con venerazione: sono i tesori della stirpe imperiale.

Spada, specchio e gioiello sono consegnati al tennō nella cerimonia di insediamento (foto da Wikimedia)

Il Kojiki menziona il dio della tempesta mentre il Nihon Shoki, altra fonte storica delle origini (sempre che queste fantastiche narrazioni si possano definire fonti storiche) fa discendere gli imperatori dalla dea del sole Amaterasu. In ogni modo, non fosse il padre, Susano-o sarebbe lo zio: non mi sembra una gran differenza.
I giapponesi credono davvero, o hanno creduto che il loro tennō (“sovrano celeste”) sia un dio? Be’, fino al 15 agosto 1945 non avevano mai sentito la sua voce. Poi, come spiega Fosco Maraini:
“L’errore sta nel dire, in lingue occidentali ‘l’imperatore è un dio’, mentre l’imperatore è un kami. Dio è creatore, onnipotente, eterno; un kami invece è il punto, la cosa, la persona in cui si manifesta una carica più intensa di quel segreto divino che è nascosto per ogni dove intorno a noi.”

Torniamo indietro di quasi un millennio. Il potere effettivo viene esercitato dagli imperatori solo fino al 1185, quando compare la figura dello shogun (capo dell’esercito). A quel punto il tennō diventa un’autorità simbolica: i gesuiti, acuto osservatori, nel 16’ secolo lo vedono come una sorta di pontifex maximus.
Questa sacralità si fonda sugli arcani miti delle origini, che però sono rimasti in pochi a ricordare. Dalla Cina nel frattempo è arrivata una nuova religione, il Buddhismo, che in molti casi ha finito per inglobare il culto dei kami. Poi sulla nave nera arriva il Cristianesimo, ma ben presto viene respinto. Infine, quando il paese viene isolato dal resto del mondo per quasi tre secoli, si diffonde l’influsso confuciano degli shogun Tokugawa.

I miti di un popolo tuttavia sono duri a morire. In Europa, duemila anni di cristianesimo non sono bastati a spegnere il sorriso di Afrodite o i fulmini di Zeus. In Giappone, la riscoperta dei miti delle origini comincia nell’epoca Edo.
Motoori Norinaga (1730-1801) studioso, poeta e oserei dire filosofo se la parola non stonasse con il contesto, è autore di un monumentale commento al Kojiki (44 volumi!) Quello che gli interessa è far riemergere l’originario spirito del Giappone, secondo lui alterato dagli influssi della cultura cinese.
All’epoca in cui vive Norinaga, la società è irregimentata: i figli devono obbedire ai padri, le mogli ai mariti, i vassalli ai loro signori e questi allo shogun. Un comportamento adeguato al ruolo che si ha, viene insegnato, è la manifestazione del proprio vero io.
Noi giapponesi non siamo così, afferma invece Norinaga. Nei tempi antichi eravamo più sinceri, più appassionati, come risulta dal Kojiki e altre fonti. L’essenza del nostro carattere è mono no aware, l’empatia nei confronti delle cose.
Simbolo di ciò sono i fiori di ciliegio. A essi Norinaga dedica moltissime poesie.

In effetti, nel momento in cui sbocciano i sakura, la più banale strada cittadina qui si trasforma in un mondo incantato. Tanta bellezza dura solo qualche giorno e poi scompare. È proprio la sua qualità effimera che la rende emozionante, indimenticabile.

“Se mi chiedono cosa sia
lo spirito del Giappone antico
sono fiori di ciliegio selvatico
che olezzano
nel sole del mattino.”

Proprio come quei fiori, la bellezza della visione di Norinaga ha vita breve. Qualcuno tra i suoi allievi comincia a travisarla. Da “peculiarità” del carattere giapponese si passa a “superiorità”. La natura divina, che il Kojiki attribuisce alla sola stirpe imperiale, viene estesa a tutto il popolo. I monasteri buddhisti vengono bruciati. Sta per nascere un mostro: lo shinto di stato, centrato sul culto dell’imperatore.

Un oni (demone), foto tratta da un libro della biblioteca del Marito di G. M. Francese

Il Giappone ha una ricca iconografia di mostri. Gli oni, kaiju e yokai del folklore locale, oggi popolano con grande successo il mondo dei manga. I mostri veri però, quelli inquietanti, si nascondono nelle pieghe oscure dell’animo.
Per fare la guerra ci vuole un mito: qualcosa di profondamente radicato nell’animo di un popolo, e che possa sembrare un nobile ideale. È davvero triste che questo ruolo, nel caso del Giappone sia toccato ai miti dello shinto, così belli nella loro naturalezza e al bushido, il codice d’onore dei samurai. Sono stati snaturati per giustificare l’ingiustificabile: proprio come è accaduto in altri paesi del mondo, compreso il nostro.

Il campione di baseball Otani Shohei (da Wikimedia)

Gli anni sono passati. La generazione che ha vissuto la guerra sta scomparendo. Sul trono del crisantemo siede il 126’ tennō; l’idolo delle masse però in questo momento non è lui, ma un campione di baseball. Speriamo che la cucina dei demoni abbia chiuso i battenti.

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