Arrivo tardi con la mia recensione de IL COMMISSARIO SONERI E LA LEGGE DEL CORANO di Valerio Varesi, molti ne hanno già scritto dopo la sua uscita a febbraio.
Arrivo tardi, ma lo faccio da una visuale privilegiata: quella di tante chiacchierate in amicizia, pranzi sobri che nulla spartiscono con le sapide pietanze parmensi venerate da Soneri, ma che dividono invece un gusto gemello per la nebbia padana, quella ‘folana’ senza limiti che ci costringe a immaginare “il senso del divino e della grandezza”.
Dividono anche un similare smarrimento nella lettura di una realtà che nega il senso di appartenenza e che ingenera paura, la stessa che Loriano Macchiavelli, grande scrittore e altrettanto grande lettore di attualità, mi confida essere il suo timore più grande: non la minaccia fisica, non la violenza dei prevaricatori, ma l’impossibilità di riconoscersi in un tempo e in un luogo.
Nei miei dialoghi con Varesi quegli spunti ci sono sempre stati, tutti, e li ho ritrovati nel romanzo, in un Soneri mai così confuso, mai così disarmato davanti a un precipitare di eventi in cui anche la sua profonda conoscenza di Parma si rivela inutile perché, per la prima volta, “gli attori erano piombati sul palcoscenico da altre compagnie e parlavano lingue sconosciute”.
La vicenda parte senza grancassa: viene rinvenuto cadavere Hamed Kalimi, un rifugiato tunisino che sbarca il lunario assistendo Gilberto Forlai, cieco e anziano. Una notizia di cronaca come tante, di quelle che sempre più spesso affollano i nostri quotidiani. La vittima pare un uomo perbene, l’anziano invece non così limpido come vorrebbe sembrare. È solo l’inizio di un crescendo di violenza e intolleranza che coinvolge l’intera città, dove fondamentalismo religioso e acceso razzismo sembrano giocare un ruolo preponderante: accoltellamenti a musulmani onesti all’apparenza, un intero quartiere che diventa caposaldo dello smercio di droga da parte di magrebini di inusitata violenza, suicidi per paura, ronde di quartiere, cittadini modello che si fanno giustizia da sé sparando contro ladri che minacciano le loro proprietà. Due schieramenti, islamico contro occidentale, separati da un fanatismo religioso che nemmeno consente di vedere alcuni interessi che invece potrebbero essere di entrambi E, sullo sfondo, quella gente ‘normale’ che si assiepa dietro alla sicurezza delle proprie finestre, per non perdersi neppure un istante dello spettacolo in cui una cinica inerzia finisce per giocare un ruolo colpevole.
Soneri vacilla, galleggia anzi come “un anolino nel brodo in bollore”, davanti a una realtà che sembra trovare nella violenza l’unica salvaguardia possibile. Anche Angela, sua storica compagna, sembra passata al ‘nemico’, aderendo alle ragioni di quella destra di fascisti, per lui l’insulto peggiore, che si erge a paladina delle vittime di questa società, schiava a diverso titolo della dittatura della violenza: anziani derubati, donne violentate, famiglie perseguitate da prevaricatori, tutti che pagano un prezzo esorbitante a chi sta a guardare invocando una tolleranza ubiquitaria.
Soneri vacilla e si interroga, stenta a trovare il bandolo della matassa ma si confronta con tutti, com’è sua abitudine: con l’imam Brahimi che sferra un attacco senza precedenti al credo occidentale, che non esiste, anzi che ha cancellato Dio; con l’ideologo di destra Pellaccini che gli dimostra come i vecchi comunisti e i cattolici di un tempo loro sì che avevano un nerbo culturale, non come quei rammolliti di oggi buoni solo a “comprare computer e televisori e a scrivere pensierini su Twitter; con la magistrato Falchieri che lo accusa di essere diventato preda di questo caso e di non essere più in grado di prevenire le mosse dei delinquenti, perché divenuto vittima della sua stessa ‘angoscia del pensatore’.
Soneri vacilla, ma si ribella come in fondo è la sua natura: e come lo fa contro diete salutiste che vorrebbero privarlo del piacere sapido delle sue tradizioni culinarie, in nome e per conto di una riconduzione a ragione dei suoi livelli di colesterolo, altrettanto si ribella a una città che ha perso il suo primato di avanguardia culturale e ora vivacchia nella mediocrità, in quel limbo assopito di valori e ideali, di spinte ideologiche e di energie innovatrici, che è il terreno più fertile all’entropia collettiva.
Romanzo psicologico, noir sociale, poliziesco: sono tante le etichette che si potrebbero associare a Il commissario Soneri e la legge del Corano. Io non le amo, le trovo anzi riduttive nello scoperto e inutile tentativo di costringere un’opera di ampio respiro entro gli argini angusti di una definizione di genere.
È vero invece che Varesi, sempre più, va componendo affreschi sociali del nostro tempo. E lo fa sia che scriva i racconti di Soneri, sia che romanzi la storia dei nostri ultimi settant’anni. Con lucidità, perizia documentale, onestà di sguardo, amarezza di chi ancora crede negli ideali, ma non più, o non abbastanza, negli uomini.
Soneri cresce con lui, in un approfondimento introspettivo che è ricerca di sé ma anche di un senso ultimo dell’esistere, curiosità indominabile di tutto ciò che “ci passa sopra la testa in un altro cielo”. Personaggio seriale perché protagonista in sequenza dei suoi romanzi, ma che di seriale non ha proprio nulla e muta al mutare della realtà, quella di dentro e quella di fuori. Come tutti noi.
Un’ultima nota allo stile, davvero alto. Varesi rende degno omaggio a una lingua oggi sempre più negletta e scarnificata, con la ricerca puntuale e spontanea della musicalità della frase, il ricorso a termini di preziosa pertinenza, l’uso di metafore di illuminante accezione. Il nobile e virtuosistico esercizio della lingua che Varesi ha compiuto per Lo stato di ebbrezza ha lasciato un segno indelebile, da cui non è più possibile prescindere.
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