Nei pressi di Augusta Raurica, Germania Superiore, settimo giorno prima delle idi di Marte, (62 d.C., 9 marzo, 815 a.U.c.)
Era una notte sacra per quell’ostinata tribù di barbari germani che si apprestava a onorare un dio sanguinario che temevano a tal punto che solo lo sciamano proferiva parola. Erano così intimoriti dell’ira di quel dio che tremarono tutti quando un urlo feroce si abbattè contro il gelo della notte come un colpo di scudiscio. Una notte che portava il lezzo di bitume bruciato, corpi poco puliti e l’eco vibrante di una voce che parve essersi sollevata dalla profondità di una caverna.
I seguaci nudi di un dio scavato nella pietra sollevarono bruscamente il loro sguardo tra le fiamme delle fiaccole che stringevano in mano. Su volti dipinti di grigio e attraversati da venature verdi, occhi guardinghi si posarono su un corpo femminile dai fianchi larghi che si allontanava con passi decisi e sensuali. I lunghi capelli neri della donna accarezzavano la notte muovendosi come onde di un mare in tempesta, le morbide forme erano preda di ombre che la sfioravano come grandi mani avide. La voce arrocchita della donna aveva suscitato nei loro cuori un battito frenetico e un’apprensione che stringeva le viscere con la morsa del timore. La loro quiete era stata interrotta nel momento supremo della funzione. Per un lungo attimo avevano temuto un male a cui non seppero dare un nome. Un fastidio crescente si animò in ognuno di loro. Per questo, quando la donna raggiunse il centro della radura e sollevò la sua fiaccola indicando con la punta ardente qualcosa che le stava di fronte, oltre la sacralità del cerchio tracciato intorno a loro, oltre le fronde di ginepro e tasso, la reputarono pazza. C’erano solo tenebre in quella direzione.
Un ardente fuoco, pura energia, ribolliva nelle vene della donna. Imprecazioni echeggiarono nella notte, sputi e aria gelida fecero sfrigolare le lingue di fuoco che la donna tracciò nell’aria davanti a sé, agitando la fiaccola come un vessillo di protesta, la sua voce pari a un grido di libertà contro quegli invasori che la fissavano. Tutto il suo corpo tremava in balia del sospiro della notte. Gli intrecci disegnati sulla sua pelle sembravano muoversi, serpeggiando su una sostanza bianca che sulle ginocchia era diventata secca e crepata.
Quella manciata di soldati romani che scortavano un carro enorme dall’aspetto di una capanna su quattro ruote era una minaccia. Un sacrilegio contro il rito propiziatorio in atto. Gli occhi della donna erano scuri e determinati tra il chiarore delle fiamme. Schegge di ossidiana che mostravano tutto il suo risentimento. La piega dura delle labbra comunicava che aveva compreso la volontà di quegli invasori. I romani erano lì per proibire ancora di vivere senza catene. Liberi dalle grinfie dell’aquila romana non lo sarebbero stati mai più.
***
La carruca dormitoria si bloccò di colpo quando fu dato l’ordine di interrompere la marcia. I cavalli nitrirono come infastiditi. Le dita di gelida rugiada di Somnus si ritirarono bruscamente al di sopra della sua fronte senza adagiarle i semi di papavero sulle palpebre. Sdraiata su cuscini morbidi e coperta con calde pellicce, Aurelia Orestilla spalancò gli occhi nel buio della carruca mentre un manto di brividi le tolse dal cuore la serenità che aveva raggiunto con tanta fatica.
Quelle parole, quella forma di linguaggio capace di farla rabbrividire lei la udiva solo quando era costretta dalla madre a recarsi in quella terra ai confini del mondo. Uno stridente latino con un forte accento germanico che aveva chiesto con suppliche agli dèi di non ascoltare mai più. Dal momento che udirlo equivaleva ad avere raggiunto Augusta Raurica e l’ombra nera di un uomo malvagio. Il cuore le mancò un battito mentre in cielo si librava l’asprezza di quel vocìo tanto simile allo schiamazzo di un rapace notturno. Rannicchiata sul carro, era inerme di fronte a quel destino che la conduceva a una destinazione che disprezzava. Aurelia sentì ogni lembo della sua pelle ardere e un gusto amaro in bocca.
Con un solo movimento, scivolò via dalle coperte e carponi si avvicinò alla fessura quadrangolare coperta da un panno spesso.
Sua madre, Ebuzia Grecina, la richiamò, infastidita da uno sfioramento sulle gambe indolenzite che Aurelia non aveva potuto evitare. Come spesso accadeva da quando era diventata una giovane vedova, Aurelia la ignorò.
La luce di una luna lontana fece capolino all’interno del carro quando lei scostò il panno. Un freddo fulmineo le ghermì le guance con un tocco bruciante. Il bagliore vermiglio delle fiaccole sembrava un mare di fuoco sospeso su di una tenebra color smeraldo.
Aurelia rabbrividì. Una donna era al centro della radura. Pareva una divinità ancestrale dei boschi nuda com’era e con un mare di fuoco dietro le spalle. La fiaccola che teneva in mano pareva una frusta e sibilava con voce meno spietata di quella che traboccava dalle labbra della donna dipinte con una mistura scura. Quella germana professava un odio feroce nei loro confronti.
A quelle parole, a quei ruggiti, Aurelia desiderò rispondere allo stesso modo. Con la stessa grinta. Erano schiave entrambe di un fato che non le aveva risparmiate. E quando la donna iniziò a inanellare maledizioni nella sua lingua natia, Aurelia desiderò che quella divinità pagana ascoltasse anche la preghiera custodita nel suo cuore. Poter diventare padrona del suo destino.
Le lingue di fuoco sulla fiaccola della donna parvero esplodere in mille scintille e raggiungere il suo volto. Aurelia si portò una mano davanti agli occhi come a respingere tutta quella luce che rivelava decine, centinaia di uomini nudi e con fiaccole nelle mani. Quando Aurelia inspirò, si rese conto che quella distesa di uomini stava intonando un canto in quella lingua che possedeva il suono del fruscio delle acque. Qualcosa in quello spettacolo di fuoco, freddo e brusio la incatenò, schiava del potere che emanavano i disegni sulla pelle dei germani. Quei nemici di Roma stavano avanzando verso di loro come un’onda impetuosa pronta ad abbattersi con violenza su una scogliera. Forse, sperò, mentre un brivido le scivolava lungo la schiena, era solo un gioco di luci. Non poté constatarlo perché delle mani forti la strattonarono via. Lucio Aurelio Oreste ringhiò ordini aspri fuori da quell’apertura.
Come questore e cognato del governatore di quella provincia, suo padre rimproverò aspramente i soldati della scorta. Con gelido astio, prima di ritirarsi all’interno del carro, ordinò di riprendere la marcia e aggiunse che se fosse stato necessario avrebbero avanzato nella notte inchiodando al suolo cadaveri germani. Aurelia guardò con occhi sgranati l’ombra del padre muoversi all’interno della carruca mentre il braccio della madre la teneva stretta. La voce burbera di Lucio Aurelio ordinò loro di dormire. Sì, lei gli avrebbe obbedito. Non aveva mai udito parole tanto crudeli venir fuori dalla bocca di suo padre se non il giorno in cui le aveva imposto un marito che non l’aveva amata né desiderata. Un uomo che l’aveva gettata in un bisogno d’amore che bruciava dentro di lei senza darle pace. Il profumo pungente di vegetazione e il gelo delle cime innevate del Giura le fecero stringere le labbra in una smorfia mentre il cuore era già stretto in una morsa che la rendeva una donna infelice. Circa una settimana prima, aveva compiuto ventitrè anni ma era così amareggiata che sentiva di averne molti di più. Quel dondolio che la cullava era così simile alla sua vita che scorreva senza che lei potesse guidarla a suo piacimento. Era un supplizio a cui voleva sfuggire. E intanto che la gelida mano di Somnus le si posava pesantemente sulla fronte, Aurelia desiderò di poter trovare fra quei barbari colui che avrebbe messo fine alla sua vuota esistenza.
La nuvola che lambiva la parte inferiore della luna con filamenti spessi e scuri somigliava a una mano dalle lunghe falangi. Come un piedistallo, sorreggeva il satellite che quella notte sembrava una coppa d’argento ricolma di rugiada lunare. Argento, rugiada, oro colato su alabastro purissimo… La descrizione perfetta di quella donna che portava nelle vene sangue romano. Yvos battè il palmo della mano contro un albero e snudò i denti, mentre in gola teneva a freno un basso ringhio simile a un ruggito. In un primo momento, la romana gli era parsa un inganno scaturito dal fuoco delle fiaccole incrociate. Fra scintille rilucenti come polvere di pietre preziose e pagliuzze d’oro quella donna era emersa come il responso perfetto a una supplica divina. Era lei, l’avrebbe riconosciuta fra altre mille. Quegli occhi, quel volto, non l’avevano mai lasciato in pace in tutti quegli anni. L’uomo sollevò il volto verso il cielo e staccandosi dalla corteccia spalancò le braccia. I suoi sensi si affinarono. L’odore di selva gli riempì le narici di un pizzicore che accese la sua bramosia, il suolo umido sotto i piedi gli fece correre un brivido lungo la schiena. Nelle orecchie rantolava l’eco del flebile respiro degli animaletti notturni, un sibilo pari al frullare delle loro ali quando lasciavano un ramo per sceglierne un altro. Aveva avuto modo di conoscere molti odori nella sua vita, ma niente era mai stato tanto inebriante come il profumo che aveva sentito sulla pelle di quella donna quando, ancora ragazzina, lui aveva tentato di rapirla mosso dal desiderio di volere tutto per sé quel gioiello nemico. All’epoca, anche lui era solo un adolescente in balìa di un ardore che non aveva ancora dominato e che per poco non gli era costato la vita. Così come i romani prendevano con forza le donne che gradivano per poi mandarle a Roma, Yvos aveva desiderato imitarli e come figlio dello sciamano aveva indossato una pesante pelliccia di lupo bianco e si era avvicinato a una domus romana durante una festa. Dentro di sé, era spinto da una forza che gli imponeva di conoscere il futuro. Quello stesso arco di tempo che suo padre scrutava in scodelle piene di liquido lattiginoso e fumante. Gli era stato predetto che una donna d’oro gli avrebbe aperto il sentiero per un mondo di gloria ma anche di morte e in quelle parole Yvos aveva udito l’eco del nome di Roma. E quel suo pensiero divenne una certezza quando posò il suo sguardo su una romana che scrutava il contenuto di una coppa d’oro che pareva sorreggere con fatica fra le manine bianche.
La piccola nemica era seduta su una panchina in muratura addossata a una parete che delimitava lo spazio di un cortile circondato da colonne. Era da sola, con indosso una tunica chiara, bracciali d’oro ai polsi snelli e quella coppa che abbandonò accanto a lei. Due strisce di polvere nera le erano state tracciate sugli occhi e una piccola macchia rossa le nascondeva la linea delicata delle labbra vagamente carnose. Era poco più di una bambina con i colori di una lupa sul volto. Quel tipo di donna romana, Yvos l’aveva già conosciuto. Non molto diverse da quelle che suo padre prendeva in notti sacre con lo scopo di rendere gli dèi clementi. Ma era quella piccola romana che Yvos voleva conoscere. Quegli occhi di un azzurro che non aveva mai visto possedere nemmeno al cielo. Quando quegli occhi si erano posati su di lui, Yvos si era mosso verso di lei, afferrandola con una presa violenta. La giovane aveva urlato, spinto, scalciato ma in tutto quel furore Yvos ricordava solo la morbidezza delle curve e il suo profumo. Le aveva ordinato bruscamente di star ferma, il capo del lupo incavato per farne un cappuccio si sollevò abbastanza da mostrare il suo volto alla giovane che smise di dibattersi ma solo perché il clangore delle armi di soldati si stava avvicinando. Yvos l’aveva lasciata con poca grazia così come l’aveva stretta a lui. Era stato così rapito da quella piccola donna che era riuscito a scappare solo per fortuna.
In passato era stato irruente, poco accorto ma ora era un uomo, uno dei guerrieri più valorosi della sua tribù e voleva quella donna a ogni costo. Le sue narici fremettero al reiterare di quella promessa. Il buio della notte attraversò i suoi occhi, mentre si inoltrava tra la vegetazione. Un nero così profondo che le pupille erano liquidi stagni in cui la luce annegava e le emozioni venivano soffocate. Yvos rilasciò lentamente un ruggito lieve, espirando fuori tutta quella forma di tormento.
Aveva atteso, ma ora il rumore degli zoccoli dei cavalli si stava avvicinando. Per un tempo che gli era parso eterno aveva cercato nell’aria il profumo di quella donna, proprio come un segugio addestrato alla caccia. E ora… Ora la notte gli risultò impregnata del puzzo di sangue romano, quello delle guardie che non avrebbe risparmiato. Una ventata di aria calda e nauseabonda che gli procurò un sorriso sulle labbra circondate da baffi e barba. Con divertita indolenza, Yvos si passò una mano sulle treccine al di sotto del mento. Barba, baffi e capelli erano ricoperti della stessa mistura grigio chiaro che aveva sul corpo. Gli anelli tubolari alla fine di ogni treccina erano freddi e ruvidi di incisioni sotto le dita. I piedi poggiati con decisione al suolo, quasi a ghermirlo, si sollevarono silenziosi quando il carro oltrepassò una fila di alberi. Con la maestria di chi conosceva bene quei luoghi, Yvos evitava radici nodose e fogliame spinoso scivolando nella notte con la grazia di un predatore. Là dove il terreno era scosceso e friabile artigliava con i piedi il suolo cedevole. Non l’avrebbe rapita, non quella notte.
Di certo, la bella romana stava dormendo e lui, per chissà quale ragione, si scoprì clemente e desideroso di concederle un riposo tranquillo dopo quel lungo viaggio. Tuttavia, seguì il carro per molto tempo diventando ombra e vento. Emise un grugnito di sorpresa quando un soldato si staccò dal gruppo che seguiva il carro per voltarsi verso di lui. Rigido in sella, il soldato stette in attesa guardando le ombre dove Yvos era nascosto. Quasi avesse percepito la sua presenza. Yvos si fermò sotto gli occhi di quella sagoma che non vedeva bene in viso, immersi entrambi nel buio di una foresta rischiarata appena da raggi lunari che faticavano a insinuarsi fra le fronde degli alberi. La corteccia ruvida gli incise i polpastrelli mentre si accovacciava fra le radici sporgenti senza staccare gli occhi dal nemico. Yvos prestò attenzione alla voce dell’uomo che si sollevò come un ammonimento severo sebbene non fosse seguito dalla vibrazione metallica del gladio estratto dal fodero. Se c’era qualcuno presente fra le tenebre, che avanzasse e gli sarebbe stata risparmiata la vita!
Quelle parole gli procurarono una fitta nel petto, come a squarciarlo. Un sorriso famelico piegò le labbra di Yvos. Che fosse il nemico ad avanzare nelle tenebre e gli avrebbe mostrato come vi si sprofondava. Quel romano gli avrebbe chiesto una morte misericordiosa. Yvos si sollevò in piedi, in posa di attacco con ginocchia piegate e braccia lontane dai fianchi, il respiro graffiava l’aria pura e gelida. Trascorsero lunghi minuti prima che il soldato valutasse la sua sosta inopportuna e, spingendo il cavallo a ruotare su se stesso, si voltasse per raggiungere con un galoppo sostenuto la vettura in lontananza. Yvos urlò con tutta la sua forza. Come Bodbh, il corvo che si nutriva delle vittime cadute in battaglia, si sarebbe presto buttato a capofitto sulle sue vittime cibandosi di carne romana. Quel pensiero gli procurò una stretta alla gola che già bruciava. Cento, mille, infinite legioni, tutta Roma avrebbe potuto circondare la romana, ma lui non si sarebbe fermato quella volta. La donna era legata a lui da un destino che Yvos voleva conoscere. Quell’ancestrale potere che lega le anime faceva bruciare ogni parte di lui con la sua sola presenza. Era in preda al delirio, tormentato dalla brama di conoscere se anche quella romana provasse le stesse sensazioni. La immaginò avanzare nuda verso di lui con indosso solo il velo che la luce della luna le avrebbe concesso. La immaginò sotto di lui, sopra di lui, totalmente sua. La immaginò regina della sua tribù, schiava di lui e padrona di tutto ciò che avrebbe desiderato e lui concesso.
Yvos chiuse gli occhi appoggiandosi contro un albero. Ogni pensiero gli procurava un sussulto simile a dolore lì dove quella donna l’aveva ferito di più. «Dormi, mia bella romana» si sentì dire con voce tanto spezzata che sorprese anche lui. «Dormi, tu che puoi ancora farlo.»
***
L’affresco di una rigogliosa edera rampicante ornava le mura color zafferano della domus in cui si trovava. Foglie piatte e grandi quanto una mano aperta erano sorrette da un intricato muro di viticci teneri, alcune erano ripiegate su se stesse. Sembravano rifuggire da una crepa sottile che attraversava la metà inferiore del muro. Quella scalfittura l’aveva creata lei. Ancora scossa da un terrore che molte volte tornava a perseguitarla nei sogni, Aurelia Orestilla aveva scagliato contro il muro uno specchio d’argento proprio mentre sua madre la stava rimproverando di esagerare. Non c’era bisogno di correre via da Augusta Raurica con la stagione che diventava mite ed era possibile riunirsi con amici che non tornavano a Roma da anni.
Aurelia, ancora scossa, ribadì che quel barbaro l’avrebbe rapita se lei fosse stata un giorno di più in quella casa. E per dare forza alle sue parole aveva scagliato lo specchio contro il muro con parole simili a una maledizione. A quel punto, suo padre si era avvicinato e le aveva dato uno schiaffo. Fu in quel momento che Aurelia ebbe il coraggio di dire al padre che se non fossero tornati subito a Roma non avrebbe mai potuto sposare Gaio Lucilio perché un barbaro l’avrebbe rapita e gettato disonore sulla loro famiglia.
Un sorriso mesto le piegò le labbra al ricordo di quella sera. Lo specchio d’argento era un piccolo disco sorretto da una graziosa ninfa vestita appena di un velo sul seno e intorno ai fianchi. Nonostante la cesellatura perfetta dei dettagli, il disco d’argento era molto piccolo. Non era possibile ammirare il proprio volto per intero, bisognava controllare prima una parte del viso poi l’altra. Senza alcuna ragione apparente, Aurelia lo stringeva ancora in mano con una determinazione che le scintillava nello sguardo.
Non amava stare tra le mura di quella casa. Non era un dovere che le procurava gioia il recarsi in visita a quella zia materna che viveva ai confini del mondo. Dopo che in quella casa era stata offesa da un gesto che lei riteneva irreparabile e che non le aveva permesso di accettare le scuse degli zii, Aurelia era riuscita a evitare quella ricorrenza tediosa per molti anni con un rifiuto che scaturiva da tutto il suo essere.
Ogni volta che sua madre le comunicava che presto avrebbero raggiunto Augusta Raurica, l’ansia e il dolore si tramutavano in crampi che le attanagliavano lo stomaco, conati di vomito e giorni di febbre alta che la sfinivano. Un malessere che faceva temere a Ebuzia Grecina che sua figlia fosse succube di una strana maledizione scagliatale da quei barbari che servivano in casa della sorella Ebuzia Clodia. Aurelia incontrò il suo sguardo nello specchietto. Sulla lucida superficie baluginò il riflesso di una parte del suo volto alterato da una smorfia, un amaro sorriso che le ricordò il ghigno di un fauno. Quel broncio sua madre glielo rimproverava con insistenza da quando il rito degli Sponsalia l’aveva legata con una promessa e un anello al giovane Gaio Lucilio.
Gaio Lucilio. Un pallore malato le sbiancò il volto. Aveva confidato così tanto in quelle labbra che si erano posate sulle sue una sola volta e con la fermezza di un soldato che obbedisce a un ordine.
“Con un bacio, tu diventi mia” le aveva sussurrato Gaio, il suo respiro come una brezza lieve. Aurelia era arrossita violentemente, poi aveva sollevato lo sguardo su suo padre e il futuro suocero. Durante il banchetto che aveva seguito la cerimonia non aveva toccato cibo. Nonostante fosse felice, aveva osservato spesso il suo promesso, cercando su quel viso bellissimo qualcosa a cui non sapeva dare un nome. Qualcosa che era come un macigno sul petto. Colpa della sua innocenza, l’aveva rassicurata la madre. Un’innocenza lungimirante…
Sollevandosi di scatto dallo sgabello, Aurelia guardò le mura che la circondavano come se cercasse qualcosa di diverso in quel cubiculum che le apparteneva. Oltre la porta della sua stanza che dava sul peristilio, Aurelia udì chiaramente i passi concitati degli schiavi al lavoro.
Quando giunse l’ora della colazione, Aurelia si rese conto di non avere fame. I suoi zii parevano ancora più stanchi di quando li avevano accolti al loro arrivo nel bel mezzo della notte, avvisati da servi fedeli. Sua zia, Ebuzia Clodia, era invecchiata. La pelle del viso era rugosa come se un apprendista scultore avesse inciso privo di clemenza pieghe su pieghe per imparare la preziosa arte dell’incisione. Gli occhi erano spenti e stanchi. L’aveva baciata sulle guance con baci lievi, esausti. La sua voce era appena un guizzo di lingua fra i denti. Ebuzia Clodia viveva da così tanti anni in quella provincia che anche il suo latino aveva assunto la cadenza rude dei barbari.
Il marito, Quinto Fabio Massimo, era il governatore di quella provincia e comandante del forte di Vindonissa. La vita militare aveva inciso linee dure sul suo viso abbronzato. Agli angoli di bocca e occhi le rughe gli conferivano un’aria truce, come se tenesse a freno una collera impetuosa. Eppure, guardando i suoi occhi neri era possibile vedere che quell’ardore che manifestava era un mero atto di presunzione per celare una profonda stanchezza. Sua zia era acqua cheta. Suo zio, una fiamma scintillante che languiva verso la fine.
Aurelia inspirò e non si dimostrò sorpresa di quell’aria che non odorava di Roma. In quella casa non c’era il seducente profumo di incenso né quello di olio profumato versato nelle lucerne che sarebbero state accese al crepuscolo. All’esotico profumo di mirra e nardo i suoi zii preferivano il pungente profumo di rosmarino e mirto che abbellivano il peristilio. La colazione si svolse in modo molto semplice. Ripulendosi le labbra dal succo di mela con una salvietta, Aurelia evitò di schioccare la lingua infastidita dalle rinnovate parole di cordoglio della zia. Una vera disgrazia, quella che aveva colpito il giovane Gaio. Trovato morto nel Tevere con una corda intorno al collo, la lingua e le mani mozzate. Sembrava l’opera di mostri, non di uomini. Suo zio le chiese se il marito le avesse mai parlato di un pericoloso nemico. Aurelia rispose di no e aggiunse che ogni uomo rispettabile aveva ben più di un nemico. Gli occhi di suo padre erano su di lei. Li avvertiva come spilli ardenti sulla pelle. Ma era stata brava nella sua risposta. Lo vide sul volto della madre che la guardava con misurata dolcezza, come se l’amasse. Ma non era così, perché a Roma i genitori amavano poco i figli. O forse, erano solo i suoi genitori che avevano scelto per lei un diverso tipo di educazione. Gli zii non avevano avuto figli. E molte volte Aurelia aveva sentito la madre invidiare la sorella!
Solo pochi giorni e sarebbero tornati a Roma. Non poteva rivelare a sua madre né a nessun altro che da quando erano arrivati lei sentiva l’alito di quel barbaro sul collo, una voce sinistra che le bisbigliava parole rudi all’orecchio. Sapeva cosa voleva quel barbaro da lei. Dimostrare quanto fossero forti lui e la sua gente, non ancora dominati dagli invasori romani. Aurelia Orestilla strinse con più forza la mela che non terminò di mangiare. Si sentiva in trappola, imprigionata in una gabbia dorata dove nessuno poteva udire il suo canto disperato.
***
La donna dal volto dipinto urlò al di sopra della ciotola fumante in cui i resti delle viscere di un animale erano diventati una mistura nauseabonda di più fluidi uniti. Lo stesso avvertimento. Ancora una volta e doveva ritenersi fortunata che il dio rispondesse di nuovo alla stessa domanda. Con un gesto della mano dalle unghie molto lunghe, Damara cancellò i contorni del viso di quella donna che aleggiava nel liquido magico. La romana all’interno della capanna gigante. La romana dai capelli tanto chiari che scintillavano come argento. Quella donna avrebbe decretato la sua fine, la fine di tutto. La fine di Yvos. Damara, in preda al delirio, si passò sul viso quel fluido viscido inanellando parole di suppliche verso il dio. Quella romana doveva morire. Nessuna le avrebbe mai portato via Yvos e il ruolo di dominio all’interno della tribù. Doveva trovare quella donna. Fra nove lune sarebbe sorta la grande luna di sangue e allora, lei e le sue ombre avrebbero avuto tra le mani il pieno potere delle forze oscure. Toutatis avrebbe gradito l’offerta del corpo scarnificato della romana. Damara rise sguaiatamente chiudendosi nell’arco delle braccia, abbracciandosi forte.
***
Il tintinnio dei cembali accompagnava i passi delle danzatrici, le loro vesti producevano un fruscìo che ricordava lo sfrigolare dell’incenso sui carboni ardenti. Aurelia continuava a imporsi di tenere le labbra piegate in un lieve sorriso.
Un altro commensale, ubriaco fradicio, cadde a terra dall’alto del suo triclinio. Seguì un coro di risate ma quell’ilarità non la trovò complice. Al contrario, Aurelia era infastidita da quella festa in cui l’odore della selvaggina era troppo speziato e il puzzo di sudore si fondeva con quello del vino inasprito che alcuni rigettavano. Improvvisamente, avvertì un bisogno disperato di aria fresca sul viso che sentiva in fiamme. Sollevandosi dal triclinio, gridò indignata quando una mano forte e unta le afferrò la tunica con uno strattone.
«Bella Ciprigna, siedi al mio fianco, sono tuo servo!» esclamò l’uomo e prima che poggiasse le sue labbra sporche sulla tunica, Aurelia tirò via la stoffa con tutte le sue forze. Solo in pochi si accorsero di quell’episodio ma fu ugualmente umiliante ascoltare quelle risate sguaiate. Aurelia corse fuori. Non si fermò a una delle panchine del peristilio. Voleva allontanarsi dalle mura di quella casa, voleva sentire la notte intorno a lei. Sfuggendo alle guardie interessate a una schiava che faticava a tenere sulle cosce la tunica, Aurelia si precipitò verso la libertà con lo stesso impeto di un condannato che viene graziato. Arrivò sulla strada lastricata; il rumore dei suoi passi le parve un canto di gioia. I bracciali ai polsi e i lunghi orecchini tintinnavano audacemente.
Aurelia inspirò l’aria gelida e rabbrividì di piacere. Erano un dono degli dèi quel silenzio e l’aria pura, dopo aver sopportato il baccano e il lezzo ripugnante.
Immagini di ciò che aveva lasciato alla festa le attraversarono la mente e la spinsero a inoltrarsi in quelle strade che dopo tanti anni trascorsi a Roma faticava a riconoscere.
Augusta Raurica acquisiva ogni giorno di più l’aspetto di una città. La prima cosa che aveva notato quando si era recata con la madre in visita da amici era stata l’assenza della folta vegetazione di un tempo in luoghi che erano stati completamente edificati.
Guardandosi intorno, Aurelia tentò di ricordare quali strade aveva percorso. Doveva rientrare. Il cuore le batteva forte nel petto, l’aria pura che prima aveva benedetto le graffiava la pelle nuda delle braccia. Aveva freddo. Tremava.
Se quell’ubriacone non l’avesse offesa, lei si sarebbe seduta su una panchina nel peristilio fin quando i suoi genitori non l’avessero cercata, proprio come accadeva quando era una ragazzina. I suoi sensi udirono l’eco lontana di uno sciabordio d’acqua. La speranza si riaccese nel suo cuore. Vicino alla casa degli zii si trovava la fonte di una dea pagana che i germani chiamavano Aventia, una dea benevola protettrice delle acque. Con passi misurati, Aurelia si apprestò a seguire quel fruscio che l’avrebbe riportata a casa. La fonte di Aventia era un corso d’acqua che sfociava da una parete rocciosa. L’acqua che quella notte rifletteva il colore latteo della luna scintillava, pareva che sulla sua superficie fossero state gettate pietre preziose e gocce d’argento.
Aurelia si avvicinò lentamente alla fonte, con due dita toccò l’acqua gelida. Fu attraversata da un brivido che la scosse tutta e che le accese nel ventre un fuoco. Una reazione innaturale che la fece indietreggiare, sconvolta. Era acqua magica, quella?, si chiese. Stava per toccarla ancora una volta quando qualcuno la afferrò per i capelli. Aurelia pensò che fosse la dea protettrice della fonte. Era pronta a chiedere scusa per l’oltraggio che aveva commesso, ma l’intenso dolore che le causava la stretta sui capelli la fece gridare e la paura cancellò ogni sorta di pensiero quando si rese conto di essere circondata da sette uomini la cui pelle era coperta da una mistura nera e il volto celato da lugubri maschere costituite da frammenti di ossa di animali. Il fuoco che le aveva dilaniato il ventre era svanito lasciandole solo gelo e timore.
«Lasciatemi!» urlò Aurelia quando un altro uomo si avvicinò e le prese i polsi con forza, per legarglieli. L’uomo non degnò di uno sguardo l’oro che portava ai polsi e quel particolare la gettò in un baratro di terrore. Non volevano oro, né il denaro di un riscatto. La sua mente lavorava veloce, così come la sua volontà di difendersi. Scalciò contro l’uomo, che le lasciò i polsi all’istante. Si dibattè per liberarsi dalla stretta che la teneva prigioniera, tutto il capo le doleva. Qualcuno fra quegli uomini disse qualcosa che lei non comprese. Con sgomento, Aurelia li vide avvicinarsi. Tentare di allontanarli con dei calci servì solo a farsi agguantare alle caviglie. L’aria gelida le risalì lungo le cosce quando un lato della tunica venne strappato. I suoi piedi non toccavano più il suolo. Un germano che le teneva una caviglia fece scivolare l’altra mano lungo il polpaccio e guardandola negli occhi pronunciò delle parole a cui non servì una traduzione. Erano complimenti per la sua pelle morbida e liscia. Aurelia sentì le lacrime bruciarle gli angoli degli occhi.
L’uomo che aveva parlato si accorse di quelle lacrime, ma non fu per loro che spalancò gli occhi con muto stupore. La punta di una freccia uscì dal petto dell’uomo come un macabro pendente insanguinato. La stretta sulla caviglia si allentò nello stesso momento in cui un’altra freccia le sfiorava una guancia e prima che Aurelia potesse sentire dolore si ritrovò a terra, battendo così forte la schiena che per un lungo attimo non riuscì a respirare. Gli occhi aperti su un cielo pieno di stelle, sentì una lacrima scenderle su una guancia. La metà di una luna vermiglia rischiava la notte. Rossa come il sangue che le colava da una guancia, come quello che aveva visto uscire dal petto dell’uomo che l’aveva minacciata.
***
Sentiva nell’aria il suono di armi che cozzavano. Il respiro le tornò con la stessa violenza con cui era andato via, mostrando all’uomo che le si avvicinò che era ancora viva. Per istinto, chiuse forte gli occhi, negandosi la vista dell’uomo che l’avrebbe uccisa. Mantenendo gli occhi chiusi, Aurelia sentì che l’uomo le si inginocchiava accanto e ben presto una mano grande e pesante, la mano di un guerriero, le si posò sul ventre coprendolo tutto.
«Respira, romana.» La voce dell’uomo era bassa e gutturale. «Lo so che sei viva.» La mano le risalì lungo la gola, premendo lievemente. «Non ti avrei mancata se fossi stata un altro bersaglio da centrare.»
A quelle parole, Aurelia aprì gli occhi e sussultò nell’incontrare quelli dell’uomo tanto vicini ai suoi. Occhi neri come se il male stesso vi dimorasse. Sapeva che un uomo solo ad Augusta Raurica possedeva quegli occhi dove le pupille erano inghiottite da un ardente liquido nero.
In passato l’aveva ritenuto un uomo, ora lo reputò un dio. Era più imponente di un tempo, la mano che sentiva su di sé avrebbe potuto stritolarle le ossa del collo. Cercando di non cedere al terrore, di non svenire, Aurelia provò a mostrarsi calma. Non doveva avere paura di lui. Se solo non si sentisse schiacciata dalla mole dell’uomo…
«Mi hai salvata. Mio padre ti ricompenserà» disse Aurelia, faticando a tenere un tono tranquillo. «È un uomo molto ricco e potente.»
Perché la scrutava a quel modo? Aurelia deglutì. Quegli occhi che contrastavano con il colore rossiccio di barba e capelli la guardavano come se il barbaro cercasse sul fondo delle sue pupille qualcosa di molto prezioso.
«Tu non hai più una famiglia, romana» affermò l’uomo con quella voce che le scaldava il sangue con un sentimento che non era paura. Era qualcos’altro, qualcosa che la spaventava più della morte. L’uomo cancellò con due dita le tracce di sangue sulla guancia. Guardò poi i polpastrelli come ipnotizzato. Spostò lo sguardo su di lei, fissandola mentre si portava in bocca le dita per gustare il suo sangue. «Ora appartieni a me.» aggiunse in un soffio.
Con un gesto istintivo guidato dal desiderio di rivalsa, Aurelia lo schiaffeggiò in pieno viso e prima di aspettare la reazione dell’uomo iniziò a correre. Quando sentì echeggiare la risata divertita di quel barbaro, lacrime copiose le scesero sulle guance. Aveva paura, voleva tornare a casa. Urlò in preda al panico quando l’uomo la raggiunse artigliandola a un fianco. Aurelia spalancò la bocca con un sussulto doloroso quando venne intrappolata con violenza contro un albero. La mano dell’uomo si chiuse intorno alla sua gola.
«Puoi anche uccidermi, barbaro, ma domani i soldati di mio zio verranno a cercarti. Ti uccideranno e faranno dei tuoi resti un pasto per i vermi. Servirà da esempio a quelli come te!»
La stretta attorno alla sua gola si fece più salda, mentre un sorriso piegava le labbra dell’uomo. «Parole molto taglienti per essere pronunciate da una bambina.» la schernì. Aurelia lo guardò con disprezzo. «Tagliente sarà il gladio di mio padre quando ti mozzerà il capo!» esclamò con forza battendo i pugni chiusi sul suo torace.
Il barbaro le ringhiò sul viso «Fallo ancora.»
Aurelia sgranò gli occhi, stupita.
«Fallo ancora.» disse il barbaro. «Toccami di nuovo.»
Aurelia chinò lo sguardo sul torace ampio e muscoloso dell’uomo, lì dove erano poggiate le sue mani chiuse a pugno. Improvvisamente, si rese conto che la pelle dell’uomo era calda, dalla tempra dura e percorsa da un leggero tremore che pareva l’eco del suo stesso respiro. Era il corpo di un uomo quello sotto le sue mani, di un barbaro germano che l’aveva salvata solo per prenderla prigioniera. Aurelia allontanò le mani da lui come se si fosse scottata.
«Hai detto che non vuoi uccidermi, allora cosa vuoi da me?» si sentì chiedere. «Vuoi che io… Vuoi obbligarmi a…» Le guance le si imporporarono.
«No» disse l’uomo in tono secco, facendola sussultare. «E sì.» Le prese il viso fra le mani e la premette ancora di più contro l’albero. Aurelia sentiva ogni parte di lui bruciarle la pelle.
«Voglio la donna che mio padre ha visto nel mio futuro. Tu, romana.» Yvos le sfiorò gli zigomi, intanto che scrutava le iridi azzurre di Aurelia, come se volesse leggervi il futuro. Era lì il suo destino, ne era certo. Le profezie di suo padre non sbagliavano mai.
Guardare quegli occhi era per lui come essere in balia di un mare che lo trascinava dove lui non aveva alcun potere. Yvos vedeva il terrore della donna, eppure quelle mani sottili non tremavano più ed erano tornate su di lui. Per fermarlo. Yvos rise di gusto. Se avesse voluto farle davvero del male quella piccola donna non sarebbe riuscita a fermarlo. La freccia che le aveva graffiato la guancia, un segno leggero che già non sanguinava più, era stato un errore che gli aveva fatto attorcigliare le viscere. Le sue mani, con leggerezza, le si infilarono nei capelli, come a tranquillizzare una bestiola caduta in trappola. Chi era quella donna? Cosa nascondeva quella romana? Qual era il suo vero volto?
Yvos inspirò su di lei come a voler sentire il profumo della sua anima.
Suo padre aveva parlato di gloria e di morte collegate a quella donna. Dove risiedeva il destino? Negli occhi, nel cuore, nel ventre?
Le mani dell’uomo scivolarono su Aurelia, accarezzandola sul seno, sulle braccia.
Chi era quella donna? Non conosceva nemmeno il suo nome, eppure quella pelle che sfiorava sembrava riconoscerlo. L’aveva sognata quasi ogni notte da quando aveva tentato di rapirla. Le linee delicate del viso della donna iniziarono a diventare sfocate, come se lo spazio fra di loro si fosse riempito di fumo. Yvos battè le palpebre un paio di volte, ma la visione offuscata non scomparve. In quella distesa di fumo bianco vide sollevarsi fiamme lucenti che avvolsero tutto il suo campo visivo fino a fare spazio a una notte rischiarata dal bagliore di fiaccole che non riusciva a vedere. In quella notte che apparteneva ancora agli dèi, Yvos vide se stesso con il torso nudo e il copricapo di sciamano sui lunghi capelli. Davanti a lui, la delicata figura della romana gli sorrideva intanto che imprimeva sui suoi pettorali le impronte bianche delle mani dipinte secondo le tradizioni germaniche.
«Sono parte di te, Yvos. Tutto ciò che ferirà te, ferirà anche me» bisbigliò la donna nella lingua degli avi di Yvos. «Sarò la tua amante quando vorrai amarmi, la tua regina quando il tuo volere sarà meno saldo.» Le labbra romane si avvicinarono alla sua bocca. Bisbigliarono parole.
Sulle loro teste volò fra stelle lucenti come scintille di fuoco un’aquila maestosa che gridò nel cielo con voce potente.
Era la promessa di un destino che prometteva gloria ma anche dolore.
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