Se per anni ho evitato di addentrarmi nei dettagli del tradimento di Antonio, tradimento a cui si allude in “Morte a domicilio”, è perché mi faceva star male. So che molte lettrici, quando è uscito “Testimone” speravano che uno dei racconti facesse luce su quel fatto: le ho deluse.
Non trovavo la voce giusta. Qui è Francesca a raccontare.
Non è un giallo, neppure un racconto. È un frammento della vita di una donna.
La vicenda si colloca, inizialmente, fra “In croce” (il secondo racconto di “Testimone”) e “Morte a domicilio”. La conclusione fa riferimento esplicito a una scena di “Mariani e le parole taciute”. 

Maria Masella


Alle otto e mezza di sera squilla il telefono. Rispondo: ‒ Lucas Mariani.
‒ Dottoressa, può passarmi il commissario? ‒ è la voce un po’ ingessata di Anselmi.
‒ Mi dispiace, non è in casa. Ha telefonato un’ora fa per avvisarmi che tardava, aveva da fare in ufficio.
‒ Mi scusi il disturbo. Sarà da qualche collega.
Qualche convenevole e riattacca. È stata la sua voce a dirmi che il “da fare in ufficio” era una balla. Anselmi è un gran brav’uomo. Affezionato ad Antonio, ma abbastanza puritano. Ecco, nella sua voce ho sentito la lotta fra l’affetto e la riprovazione. Ha vinto la complicità maschile o il desiderio di non ferirmi?
Questa telefonata toglie il velo e sistema tasselli ballerini.
Una confezione, già aperta, di preservativi nella tasca posteriore dei jeans. Dimenticata? Da quando siamo una coppia stabile non li usiamo più: pillola e spirale, io.
Scontrini di bar dimenticati nei jeans. Non per i soliti caffè.
Sì, ho memoria per i numeri, nel mio lavoro aiuta. Gli scontrini riportano orari in cui “aveva da fare in ufficio”. Un locale, sempre lo stesso.
Conosco il mio uomo. Mio? E se mi trattengo dal lanciare contro la parete di cucina quello che ho sottomano è perché sto spignattando la pappa per Manu. Già ho dovuto imparare a cucinare qualcosa e a modellare la mia vita su quella di una figlia.
Io, Francesca Lucas, nata libera che libera voleva restare.
Quindi niente “conosco il mio uomo”, meglio “conosco Antonio Mariani”. Non solo marca di sigarette e di preservativi. Se “quella” (sì, dubito che sia un “quello”) fosse sempre la stessa, quindi una stabile, una con cui c’è qualcosa più del sesso, non si incontrerebbero in un bar, ma a casa di lei o andrebbero direttamente in una camera d’albergo, senza perdere tempo.
Non è tipo da girarci attorno. Non disprezza i preliminari, ma, se il tempo è scarso, mira al sodo.
Manu sta piangendo: è colpa dei dentini o della mia collera? Me l’ha detto il pediatra di prestarci attenzione perché i bambini sentono lo stato d’animo di chi hanno vicino.
Non sono più padrona del mio tempo, ora neppure più dei miei sentimenti.
Vorrei morire, vorrei ucciderlo, fargli male come lo sta facendo a me.
Moglie tradita: personaggio da dramma e da farsa. I segni avrei dovuto coglierli. Quando mai aveva telefonato per avvisarmi di un ritardo? E i silenzi… È sempre stato silenzioso, ma fra noi parlavamo. Di colpo è stato come parlare con un estraneo, sentivo che prestava attenzione alle parole.
Ma perché non me ne sono accorta? È inutile che mi ripeta da ragioniera i miei impegni incastrati al millimetro e al secondo. Una figlia, un lavoro impegnativo. Ecco, cado nella trappola di sentirmi colpevole perché lui mi ha tradito. “Se il tuo uomo ti tradisce è perché tu non vali abbastanza.” Ecco, io non ci sto.
Colpevole è Antonio Mariani, non Francesca Lucas.
E stima così poco la mia intelligenza da lasciare tracce. Forse non gliene frega niente che io lo scopra.
Forse lo vuole. Separazione. Divorzio. E si libera in un colpo solo di moglie e figlia che sta mettendo i primi dentini e morde come una piccola lupa.
E io cosa voglio? Non lo so.

Quando arriva, verso le dieci di sera, fingo di lavorare. Senza distogliere gli occhi dal monitor del pc dico che Anselmi l’ha cercato.
‒ Lo so. ‒ E si dirige verso il bagno.
Dai rumori capisco che si sta spogliando. Sento aprire l’acqua. Mi alzo, resto sulla porta del bagno. ‒ Doccia?
Si gira a guardarmi. ‒ La faccio sempre quando arrivo a casa. ‒ Si stringe nelle spalle. ‒ Per togliere l’odore di questurino. Che ti dà noia. ‒ Tende una mano. ‒ Potresti venire a tenermi compagnia.
‒ Non ne ho voglia. ‒ E spero che non si accorga della menzogna. Perché lo odio, non sopporto il pensiero che mi tocchi. E ho una voglia disperata che mi abbracci, che mi faccia dimenticare tutto. Il mio corpo ha voglia del suo.
‒ Stai bene? ‒ ed è già nella cabina doccia e la voce mi arriva attutita, come nebuloso è il suo corpo attraverso il vetro smerigliato. Lo vedo e non lo vedo. È una mia impressione o si sta lavando con maggior cura del solito? Come per cancellare tracce di un corpo estraneo.
‒ Sono stanca. ‒ E non è menzogna. ‒ Manu è stata irrequieta. ‒ Colpa mia, non colpa di Antonio. ‒ Dormo nel letto vicino al suo per sentirla se ha bisogno.
‒ Se vuoi ci sto io. ‒ mentre esce dalla doccia e lega un asciugamano ai fianchi.
Inghiotto a vuoto, non devo lasciarmi vincere dal desiderio. ‒ No, ci sto io; domani potrò riposare e tu no. ‒ Sicura di star bene? ‒ perché ha teso una mano e mi sono scostata. Sa che non sono una che si fa pregare.
‒ Tranquillo, è tutto ok.

Anche questa sera, alle otto, ha telefonato dicendo che tarderà perché “ha da fare in ufficio.” Fantasia e uomini sono inconciliabili: sì, mi aggrappo a pensieri scemi e infantili per distogliermi dalla realtà adulta.
Telefono a Emma e le chiedo se posso portarle Manu.
‒ Certo che sì.
Ho chiamato un taxi per fare prima. Da Quinto ai Corsi abbiamo impiegato dieci minuti, con la mia Panda ne avrei impiegato il doppio e avrei perso tempo a cercare dove lasciarla. Al tassista ho chiesto di aspettarmi.
Emma non ha fatto domande, neppure quando le ho detto che avrei ripreso la figlia la mattina dopo.
Sono scesa e mi sono fatta portare a Raibetta.
Il selciato è leggermente viscido per lo scirocco, forse per l’umidità che nel tempo ha imbevuto le pietre troppo levigate. Voci e rumori qui sembrano diversi: le arcate li deformano, li intrecciano. Come gli odori. Pungenti.
Sono venuta qui per la prima volta con lui.
Lui che ama questa città e la gira come un uomo accarezza la sua amante, nel bello e nel brutto, conoscendola anche nelle rughe e nelle cicatrici del tempo.
Non volevo innamorarmi mai, tanto meno amare. Tenevo lontano il pensiero di sposarmi. Un figlio? Forse. Per averlo non serve legarsi.
Stupida, scema, disgraziata… Io che mi sono innamorata di lui. Io con un commissario di polizia. Io che non ho mai sopportato uniformi e gerarchie e “Sissignore”. L’ho conosciuto, mi è piaciuto. Un buon amante. Ho cominciato a girare con lui per questa città e mi sono innamorata di entrambi. Volevo che mi guardasse come guardava lei, mi conoscesse allo stesso modo.
Ora sono qui, in Sottoripa.
Sono diretta al bar dei suoi scontrini dimenticati. O lasciati perché li trovassi? Ho troppi dubbi. Lei è una prostituta? Se lo trovo con una minorenne o con una poveretta che è costretta a battere, lo uccido.
Cammino e i passanti mi scontrano, sono sballottata di qua e di là, preda di timori contrastanti.
Un nuovo amore? So che succede, ma credevo che fra noi fosse diverso. Dovevi dirmelo, Antonio. Usare le palle per dirmi “mi sono innamorato di un’altra”, non solo per scopartela. Sarei stata male, ma questa cosa di nascosto è peggio.
Passo davanti al locale indicato dagli scontrini.
Lui non si nasconde. È seduto su uno degli sgabelli attorno al bancone, davanti ha un bicchiere, dal colore sembra whisky… Non ha mai amato i superalcolici, al massimo un caffè corretto grappa. Mi è cambiato anche in questo?
Da come tiene in mano il bicchiere capisco che è un attrezzo di scena, una scusa per essere lì. Ed è mezzo girato verso una donna. Mi sposto per vedere meglio. Niente. Aspetto.
Escono dopo una decina di minuti. Non è una prostituta. Non sono una coppia già collaudata, perché i loro passi non sono ben coordinati. Li seguo. La sua auto è in via Turati. Li vedo salire. Avvia.

È tornato a casa poco dopo di me. E si è fiondato nella doccia chiedendo di Manu.
‒ L’ho portata da tua madre ‒ e la chiamo quasi sempre Emma. ‒ Ho molto lavoro arretrato.
Mette la testa, già zuppa, fuori della cabina. ‒ Siamo soli? ‒ con un tono speranzoso.
Non gli è bastata quella? ‒ Ho da fare, per tutta la notte. Hai cenato? ‒ Fa segno di sì. ‒ Allora mi metto al lavoro.

Per due sere niente telefonate per avvertirmi che “ha da fare in ufficio”, per due notti ho avuto tanto lavoro arretrato e l’ho lasciato solo nel letto. Se non avesse la coscienza sporca, si sarebbe fatto avanti: non siamo una coppia da “una volta alla settimana”, a entrambi piace fare all’amore.
Con quella fa all’amore o è soltanto sesso?

Squilla il telefono, alle otto spaccate.
‒ Lucas Mariani.
‒ Sono io, Fran. Tardo. Ho da fare in ufficio.
‒ E io a casa. ‒ Riattacco.
Sono già d’accordo con Anna, la figlia ventenne dei vicini: è disposta a stare con Manu. La chiamo e aspettando che arrivi prendo giaccone e chiavi della Vespa che ho chiesto in prestito a un collega. In cambio gli ho dato la mia Panda. Antonio ne ha notato l’assenza e gli ho detto che è dal meccanico. Di auto non ha mai capito niente.

Raggiungere Raibetta in Vespa richiede una ventina di minuti, con un taxi avrei fatto prima, ma voglio seguirlo e, per farlo, ho bisogno di un mezzo di trasporto.
Spero che non abbia cambiato locale.

Non l’ha cambiato. Whisky anche oggi. Non è solo. Quando escono, la guardo bene, non è la stessa. Non sembra una professionista, ma una che è andata in un locale sperando di trovare un uomo per una nottata in compagnia.
Una nottata?
Li seguo in Vespa. Quando entrano nel portone di un palazzo di una trentina d’anni, ben tenuto, è lei a fare strada. Vorrei restare fin quando esce. Manu è con Anna…
Sta dentro un’ora.
Lo conosco: non ha bisogno di tanto tempo per carburare, ma è uscito con la fame o è deluso.
Lo vedo salire in auto, accendere una sigaretta. Quel lampo di luce non mostra un viso felice.
Se avviassi e facessi in fretta, riuscirei ad arrivare a casa prima di lui e continuare nella menzogna della famigliola felice.
Resto ferma. Lo vedo finire la sigaretta, accenderne un’altra e poi avviare.

Arrivo a casa dopo di lui. Entro e arriva Anna: ‒ C’è tuo marito, ma sono rimasta.
‒ Hai fatto bene. Come sta Manu?
‒ Si è addormentata.
Dal bagno la sua voce: ‒ Sono arrivato. Tutto bene?
Ora mi sveglia anche Manu! Saluto in fretta Anna, mi dirigo verso il bagno e metto la testa dentro. ‒ Non fare rumore. ‒ Lo dico cercando di non guardarlo e di ignorare la noncuranza con cui si striglia per togliersi di dosso le tracce.
In cucina. Mi verso un bicchiere d’acqua, fredda. Potrei prendere un cubetto di ghiaccio e passarmelo sulla fronte.
Entra. Sembra sereno, ma lo conosco abbastanza da sapere che è una maschera. ‒ Niente caffè?
Faccio segno di no. Apro uno sportello. ‒ Whisky non ne abbiamo, ma qui c’è la Nardini.
Un’occhiata, una seconda. Silenzio.
È terribile vedere la sua maschera che comincia a cedere. Si accosta al lavello, prende la moka, regola la quantità d’acqua. Gli tremano le mani. Gliela tolgo di mano. ‒ Ti ho visto. ‒ Una parte di me, quella vigliacca che non sapevo di avere, prova a fare marcia indietro: ‒ Era per un’indagine?
Accetterei una menzogna? Me lo avessero chiesto qualche giorno fa, mi sarei offesa. Ma ora, basterebbe mezzo passo e la vicinanza diventerebbe abbraccio. Cancellerebbe il dolore? No. Alzo gli occhi a incrociare quelli di Antonio. Sta male anche lui. Lo vedo far segno di no. E poi: ‒ Cosa vuoi che faccia, Fran?
‒ Francesca.
‒ Cosa vuoi che faccia, Francesca?
Ecco, a un dopo non ho mai pensato. Il futuro era con lui e si è spezzato.
‒ Io…
Alzo una mano a bloccare confessioni che non voglio. ‒ Dormo con Manu.

Sono trascorse alcune settimane. Non riesco a essere più precisa perché vivo in una nebbia: notte e giorno si confondono. Manu è irritabile, piange per un niente.
Lui esce al mattino, torna la sera.
Siamo civili, educati. Riusciamo a rivolgerci la parola pochissimo, solo “comunicazioni di servizio”.
Dormiamo separati. Lui tiene la porta aperta, io chiudo quella dello studio con il divano letto.
Cerco di non guardare la sua faccia sempre più segnata, mi basta la mia.
In tutti questi giorni è sempre tornato presto, niente più telefonate “ho da fare in ufficio.” Aspetto con ansia il suo arrivo perché ho voglia di vederlo; aspetto, con ansia maggiore, che se ne vada, perché averlo in casa mi fa stare male. Mentre ero incinta e quando allattavo avevo smesso di fumare, concedendomene soltanto due, che di solito fumavo con lui…
Ho ricominciato. Alla grande e senza accorgermene. È stata Manu a farmelo capire quando ha spostato il viso e ha detto: ‒ Pussa, mamma.
Non riesce ancora a scandire la zeta, ma si è fatta capire. Da lui si lascia baciare, coccolare e spupazzare. Con le donne, di qualsiasi età, ci sa fare. Alcuni uomini hanno il dono, lui ce l’ha. Quando siamo insieme, vedo come le altre lo guardano. Un giorno, scherzando, nel nostro letto gli avevo detto che avrebbe potuto intraprendere la carriera di mantenuto. Aveva riso e aveva cominciato a trafficare su di me. ‒ Ma lo sarò. Presto, molto presto guadagnerai più di me, dottoressa Lucas.
Tempi passati. Non esiste un nostro letto, non esistono scherzi. Soltanto le sue occhiate che mi chiedono, senza parole, cosa ho deciso per noi.
Mi considerano una tosta, lo so. Non riesco a lasciarlo, non riesco a ricominciare con lui come se niente fosse accaduto. Limbo.

Qualche tempo dopo.
Di nuovo non so quantificare i giorni trascorsi. Giorni scanditi da notti insonni. Lavoro a casa il più possibile per stare con Manu, ma alle riunioni settimanali non posso mancare.
Quella di oggi è stata più lunga del previsto. Abbiamo anche trovato traffico al ritorno, abbiamo perché mi ha dato un passaggio Gabrieli, un collega. Quando ha fermato l’auto sotto casa, lui era sul terrazzino a fumare. Mi ha visto: so che in quel suo modo confuso è geloso e non lo ammetterà neppure sotto tortura.
Sa controllare l’espressione del viso, abbastanza bene la voce: sarebbe stato un discreto attore. Ma il corpo non mente: spalle più ritte, mento alzato, una mano a sfiorare un fianco, forse cercando pistola o spada o clava. Questa sera non ha provato neppure un pizzico di gelosia. Era altrove.
Sono entrata in casa, il suo saluto è stato soltanto un gesto.
Gli ho chiesto se avesse cenato: il suo sguardo era smarrito. Ho ripetuto la domanda.
‒ Non ho fame.
Questa è una novità, perché è uomo di forti appetiti, in ogni senso. Cerco di tenere a bada il rimescolio che ho dentro dicendomi che avrà cenato con una.
‒ Faccio due spaghetti. ‒ Sentendomi una stupida donnetta vigliacca. Peggio, modello “io ti salverò”, un tipo di donna che non ho mai apprezzato.
Ripete che non ha fame, ma in modo assente.
Sono ostinata e comincio a preparare l’unico piatto che mi riesce decente.

Non è arrivato, anche se “spaghetti aglio olio e peperoncino” è il “nostro” piatto. Sono a tavola e sto mangiando, anzi, mi sforzo a mandare giù una forchettata dopo l’altra. Sento un mezzo pianto di Manu, mi alzo e mi dirigo verso la camera di mia figlia.
La porta è socchiusa e lo vedo.
L’ha presa in braccio e la sta ninnando. Che un uomo così grande e grosso riesca a essere delicato nei gesti continua a sembrarmi impossibile. La sua voce che ripete: ‒ Bella bimba mia, sei il tesoro del tuo papà. Dormi, bella bimba mia. Il tuo papà ti vuole tanto bene.
Resto ferma.
Manu ha smesso di piangere. Penso che si sia riaddormentata, ma lui continua: ‒ Oggi ho fatto una cosa orribile, bella bimba mia.
Lo vedo passarsi una mano sul viso. Mi ritraggo perché l’ha rimessa a letto, ha ben rincalzato la coperta e ora sta venendo verso di me.
Capisco che mi ha vista.
Mi sfiora appena, chiude la porta.
‒ Lasciala fuori da… Da quello che sta capitando fra noi due.
Di nuovo lo sguardo assente, come se non capisse di cosa parlo.
‒ Io… Niente… ‒ E si dirige verso la camera matrimoniale.
Gli vado dietro. ‒ Lasciala fuori! So che le vuoi bene, ma ti odio.
Si siede dal suo lato del letto. ‒ Oggi… Io… ‒ Si alza. ‒ Non si possono cancellare gli errori, ma ho avuto paura. Se fossero andati a fondo…
Lo blocco che è quasi alla porta. È più alto e più forte di me e per trattenerlo devo buttarmi contro di lui.
Le sue mani sono quelle di un uomo disperato, si aggrappano e stringono. E finiamo per fare all’amore con furia.

Soltanto il giorno dopo, sfogliando i quotidiani e vedendo una foto, ho capito, ma non del tutto, cosa l’aveva sconvolto.
Sì, indagare sugli omicidi è il suo mestiere. La donna uccisa io l’avevo intravista quella sera. Era con lui. Controllo l’indirizzo: sì, dove l’aveva accompagnata. Indagare sull’omicidio di una donna con cui aveva avuto rapporti sessuali. Deve aver temuto di restare coinvolto…

Ho acquistato tutti i quotidiani. Ho poca esperienza. La donna che ho visto con lui era una prostituta. Non una da strada, una con un suo giro di clienti. Sembra che alcuni fossero persone note.

Sono ritornata a dormire nella nostra camera. Non ha mai chiesto se l’ho perdonato, siamo come due pattinatori sul ghiaccio sottile. Andiamo avanti giorno per giorno, sono più numerosi quelli bui, ma ogni tanto riesco a non pensare.
Siamo due estranei che dividono un appartamento, che hanno una figlia molto amata; a volte facciamo sesso, perché siamo di sangue caldo. Ci amiamo, ma non comunichiamo più.
Ho il matrimonio che non volevo.
Se avevo deciso di non sposarmi era per il terrore di questo.

Ieri, alle tre, ho telefonato a Emma e le ho chiesto di tenermi Manu, se poteva. Dopo un’ora suonava al portone.
‒ Potevi fare con calma, ho una riunione alle sei, ma finiremo tardi e non so quando lui arriverà.
‒ Allora hai tempo per un caffè insieme.
‒ Ma lo faccio io!
Annuisce e sorride. ‒ Hai anche una sigaretta?
Quindi siamo in periodo fumo? O vuole affrontare un argomento difficile? Non ha mai chiesto come sono i rapporti fra me e suo figlio, ma è tutto fuorché cieca. Le porgo il pacchetto. Accende. Una boccata e poi. ‒ Non volevo sposarmi, Francesca, eppure lo amavo e gli volevo anche bene. Ho accettato di sposarlo dopo due anni di convivenza… ‒ Scrolla la cenere. ‒ Nel ’59 non era come adesso. Una donna che viveva more uxorio, si diceva così, era una pubblica peccatrice per i preti. Per i compagni era ancora peggio…
Annuisco pur non capendo dove vuole arrivare, ma Emma Mariani non è donna da perdersi in discorsi senza scopo.
‒ Basta ricordare quello che hanno fatto passare alla Iotti. Ma io niente. Lui non ha ceduto. ‒ Beve un sorso del caffè che ho versato. ‒ Avevo paura. Non di perdere la mia libertà, quella l’avevo persa il giorno in cui l’avevo conosciuto, ma una paura folle di quel sentimento così forte. Vivevamo insieme, due volte me ne sono andata. Due volte l’ho cacciato. Forse volevo capire quanto era forte quello che ci teneva insieme: non un sacramento, non un contratto.
‒ Mi ha tradito.
‒ Tutti sbagliamo. E non ti chiedo di perdonarlo o di dimenticare. O di chiudere gli occhi come insegnavano le nostre madri. Non ti chiedo e non ti offro consigli. So che gli ho visto crescere dentro l’amore per te e la paura di non essere più padrone della propria vita. Lo so perché ho provato quel tormento.
Taccio.
Posa una mano sulla mia. ‒ Non criticherò mai le tue decisioni, Francesca. E bene te ne vorrò sempre.

Dormivo, qualcosa mi ha svegliata.
Allungo una mano. Anto non c’è. Mi alzo, forse è in cucina a fumare o a farsi un caffè. Mi alzo per stare con lui. Quel tempo che trascorriamo insieme, spalla contro spalla, a parlare di tutto e di niente, così come viene e senza timore di ferire l’altro o di non essere capiti, sono il matrimonio che volevo e che ho raggiunto per vie difficili e tortuose. Non so perché mi abbia tradito, non gliel’ho mai chiesto. Il nostro matrimonio ha molte ferite, come i nostri corpi. È imperfetto, ma non lo vorrei diverso. Se gli chiedessi perché allora mi ha tradito, me lo direbbe. Non ho bisogno di saperlo.
Andando verso la cucina lo sento.
È nella camera delle figlie. Ludo è a dormire da Emma e c’è soltanto Manu. È con lei e la sta confortando, come ha fatto tanti anni prima. So che il mio Anto ha il cuore a pezzi, ma sta confortando la nostra grande che piange per Marco.
Sono passati tanti anni, ma ha gli stessi gesti delicati e attenti, la stessa voce.
Ritorno in camera e fingo di dormire.

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