Di recente numerose personalità (otto accademici della Crusca, quattro rettori, il linguista Edoardo Lombardi Vallauri, gli storici Luciano Canfora ed Ernesto Galli della Loggia, il filosofo Massimo Cacciari, il sociologo Ilvo Diamanti, la scrittrice Paola Mastrocola, i costituzionalisti Carlo Fusaro e Paolo Caretti) hanno firmato la lettera aperta dei Seicento sul semianalfabetismo di ritorno degli studenti universitari.
Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare e invocano una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti, oltre che più efficace nella didattica, e un’inversione di tendenza rispetto alla svalutazione della correttezza ortografica e grammaticale, ormai prevalente.
In effetti, negli ultimi anni in cui ho insegnato in un liceo classico di Roma, cioè quelli degli anni duemila, ho accertato che la maggioranza delle persone che hanno studiato e fanno studiare i propri figli (e non pensate “Figurarsi gli altri!” perché gli altri, in genere, sono molto più rispettosi nei confronti della scuola) non ritiene più che usare bene la nostra lingua sia la competenza di base fondamentale. Forse perché pensa che ci sia e considera tutti gli errori semplici sviste. Facendo eco, senza saperlo, ai propri figli quando, all’inizio del triennio, commentano i propri sbagli con la frase “Ma tanto lei ha capito, professoré”. (O si scrive professorè? O forse professore’? Accidenti! Non bastava l’italiano? Mi ci voleva pure il romanesco!)
Naturalmente i ragazzi sono ragazzi e gli universitari sono ragazzi appena cresciuti. Ma all’esame di maturità io ho stentato molto a impedire che a un’alunna che aveva scritto un buon tema con QUATTRO errori di ortografia venisse assegnato il 15. Agli altri docenti sembravo troppo severa. E si trattava solo di darle 14!
Ma andiamo a vedere la narrativa cara al nostro cuore, quella rosa d’intrattenimento, insomma quella non a caso affollata di young adult e new adult. All’inizio, novella Jo March, io sono rimasta scioccata: le scrittrici! Quelle che guardavo con rispetto, quasi con venerazione, si lasciano sfuggire veri e propri strafalcioni! Perché i nostri amati romanzi sono pieni non solo di refusi, ma anche di veri e propri errori. Quali possono essere i motivi? Alcuni sostengono che di recente, grazie al fenomeno del self e soprattutto di romanzi usciti all’inizio online, sono entrate nel mercato del libro persone che non sanno scrivere per niente, oppure che pensano alla scrittura come un’attività accessibile a chiunque. Fenomeno che di sicuro si verifica, ma che non spiega la decadenza in corso. Perché il contagio si è esteso anche alle case editrici, anzi addirittura alle case editrici più importanti del paese: e penso a Mondadori, Rizzoli, Einaudi!
So per esperienza personale che, non appena è nata la stampa in digitale, è stata subito eliminata la prima correzione, cioè quella che richiedeva il confronto con il dattiloscritto, per verificare la mancanza di pezzi di frase: quindi bastava che il discorso filasse da un punto di vista logico per non accorgersi che il proto aveva saltato una riga o una parentesi. Ultimamente le cose sono molto peggiorate. Vi faccio alcuni esempi, rigorosamente senza autore, perché non si tratta di una responsabilità personale.
‘Rinunciare ulteriori esplorazioni’ oppure ‘redendosi‘ oppure ‘consigliando seppellirli in’ oppure ‘tepidante, attuto, confondente‘.
Ancora ‘tutti avrebbero giovato della sua assenza’, ’l’espressione che gli restituiva’, ‘si limitò a guardarlo e a confluire la rabbia nei pugni chiusi’, ‘l’ora presta’, ‘alla sepoltura che aveva seguito‘ invece di era seguita, ’non che la cosa mi tange’.
Taccio su tutte le volte in cui viene usato é al posto di è, le per gli, gli per le.
D’altra parte, ho sentito dire che in (alcuni?) casi la correzione bozze viene affidata a liceali pagati a prezzi stracciati oppure (?!) a nessuno. Il che spiegherebbe gli obbrobri di cui sopra.
Personalmente penalizzo la valutazione del romanzo con formule tipo Cinque stelle all’autrice, una di meno alla casa editrice per le numerose sviste linguistiche, oppure Una stella in meno per i refusi. E lo faccio quando mi trovo di fronte a più di 6 sviste in un libro di CE, più di 10 in un self. Ho dovuto verificare che spesso le scrittrici/traduttrici si offendono a morte e dicono, ma soprattutto pensano, che io sia un’arpia presuntuosa. Alcune lettrici, invece, manco capiscono il problema e anzi vantano l’eccellenza linguistica del testo in questione: saranno ex alunne sgrammaticate. Del resto avrete notato quante persone non correggono gli errori presenti nelle loro recensioni, o nei loro interventi su Facebook: per consolarmi mi dico che dal cellulare è difficile correggere, ma sarà vero? E un computer non ce l’hanno? Invece non lo fanno perché non lo considerano importante. O almeno questa è la mia convinzione.
C’è poi tutto il problema della punteggiatura, quella che io chiamo moderna, cioè scorretta, molto frequente da un anno o più. C’erano alcune regole d’oro: ad esempio mai la virgola fra soggetto e verbo, fra verbo e complemento oggetto, a meno che, ovviamente, non si chiuda fra due virgole una proposizione secondaria. E questi principi, che io sappia, sono ancora validi. Mi pare invece che stia cadendo in disuso la proibizione di mettere la virgola prima della congiunzione e. Anzi ho l’impressione che stiamo cambiando proprio l’impianto di base: le virgole non distinguono più le proposizioni secondarie all’interno del periodo, si mettono invece là dove parlando facciamo una piccola pausa, cioè, come io dico, appoggiamo la voce. Mi pare che stia scomparendo, insomma, la differenza fra lingua scritta e lingua parlata. Per cui mi sto rassegnando a non evidenziare neanche sviste del genere. Inutile sbattere la testa al muro: questa battaglia l’abbiamo proprio perduta da qualche parte, tempo fa. E neanche ce ne siamo accorti.
Io non mi rassegno alla sciatteria o all’ignoranza grammaticale. Ammetto le mie lacune, non ho fatti studi universitari umanistici e ho una pessima memoria: quando scrivo, in ultima revisione, sono presa da mille dubbi, ma per fortuna in pochi secondi chiunque può risolverli con una rapidissima ricerca sui dizionari on line. Non sopporto invece chi tollera gli errori di grammatica e di sintassi in un prodotto editoriale (prodotto = oggetto che si offre sul mercato in cambio di denaro). È come se accettassimo di trovarci nel carrello della spesa una verdura ammuffita, un maglione con una smagliatura o un CD musicale graffiato. Esiste un pubblico meno colto e meno esigente, è vero, ma la letteratura, anche quella di intrattenimento, a mio parere non può esimersi dall’obiettivo di migliorare chi ne fruisce, non solo nel tono dell’umore, ma, trattandosi di parola scritta, anche nella conoscenza della nostra lingua. Da ragazzi il nostro vocabolario si arricchiva tramite la lettura, e non ci disturbava alzare gli occhi dalla pagina e chiedere in famiglia “che significa celia?”, anzi, ogni volta era una piacevole conquista. Adesso, sembra che l’utilizzo di un termine appena appena ricercato (!) che interrompa il galoppo dei lettori verso il capitolo successivo sia un peccato mortale, da scontare con critiche e abbandoni. Non tutto è semplificabile, tuttavia, e un popolo che rinuncia ad elevare le proprie conoscenze per adattarsi al predigerito che scivola in gola senza grumi si espone al rischio di auto confinarsi in un esilio sociale e politico classista, dove chi ne sa appena più di lui potrà manovrarlo per i propri scopi. Libertà è conoscenza. Il potere, come possiamo vedere dai grandi affabulatori politici di ogni risma, passa anche dal possesso e dall’utilizzo sapiente della lingua e della retorica. Sicuri di volerci impoverire fino a non riuscire più ad argomentare il nostro pensiero e le nostre scelte?
“L’operaio conosce 100 parole, il padrone 1000, per questo è lui il padrone” (don Lorenzo Milani).
Abbiami perso una battaglia tempo fa? Ma non per questo dobbiamo arrenderci e perdere la guerra per rassegnazione. È una lotta che va fatta quotidianamente e con costanza. Personalmente mi sento frustrata quando scrivo male una parola nella fretta di scrivere un messaggio sul telefonino.
Bisogna denunciare gli scrittori che non sanno scrivere. Per fortuna non ho mai incontrato errori così mostruosi come i tuoi esempi, ma non so se riuscire i a portare a termine un libro scritto a quel modo. Il mercato lo facciamo noi consumatori, scegliendo. Io scelgo l’italiano!
Purtroppo, non tutti i lettori la pensano come te. Quante volte ho sentito “È la storia che mi importa, non la grammatica”!
Lungi da me rassegnarmi. Però dobbiamo tener presente che la lingua è in continuo mutamento.
Temo che la virgola prima di “e” a breve diventerà regola perché troppe persone ormai la usano e non la sentono affatto sbagliata.