Bologna, 10 marzo 2018. Nell’atmosfera cordiale dell’Enoteca Letteraria La Confraternita dell’Uva, Andrea Camilleri avrebbe ricevuto una sonora smentita. “Le donne sanno uccidere, ma non sanno raccontarlo”, questa la sua perentoria convinzione. Come dire che le scrittrici in giallo-noir dovrebbero cambiare mestiere o quantomeno praticare altri generi letterari.

Ebbene, la bolognese Silvia Di Giacomo, al suo esordio nel romanzo con Lo stato di Dio (Foschi Editore, Collana I narratori, 2018), e la salernitana Letizia Vicidomini, alla sua quinta prova con Notte in bianco (Homo scrivens, Collana Dieci, 2017), avrebbero contraddetto il padre di Montalbano nel modo più persuasivo.
Due opere che, pur senza delitto in senso stretto la prima e con parco spargimento di sangue la seconda, indagano con acume le pulsioni più oscure dell’anima e la degenerazione sociale che dal crimine si propaga.
Un incontro al femminile il nostro, e a pochi giorni dalle celebrazioni dell’8 marzo ci stava proprio bene, focalizzato su autrici di razza che hanno saputo dar vita a figure di donna incisive e potenti.

Silvia racconta di Bologna e della nostra Italia, a un passo da qui, nella primavera del 2031, in un futuro ahimè futuribile in cui uno stato confessionale e totalitario, il Nuovo Stato Pontificio, ha cavalcato le paure esasperate della gente verso il terrorismo e il diverso, per prendere il potere e sopprimere, in nome della più stretta osservanza all’ortodossia cattolica, qualunque libertà individuale: il divorzio, il diritto all’aborto, la libera convivenza, il matrimonio tra individui dello stesso genere.

Letizia invece ci guida nel cuore di Napoli, nel rione Materdei, dove la tabaccaia Viola Carraturo, una megera trasandata e sgradevole, invisa ai più e perfino ai nipoti che ha accolto alla morte dei genitori, è stata uccisa con inusitata violenza.

Due romanzi in apparenza molto diversi, lo dico in apertura alle autrici, che invece mostrano un insospettabile fil rouge: è l’amore – o la passione in senso lato – a collegarli, divenendo ne Lo stato di Dio uno strumento salvifico che consente ai protagonisti di sopravvivere perfino alla negazione della libertà, mentre in Notte in bianco la sua negazione finisce per condurre alla catastrofe non solo la protagonista ma anche il suo assassino.
Il romanzo di Silvia è popolato di grandi figure femminili: non solo Sara, la protagonista, fotografa dall’animo fragile ossessionata dalla bellezza estetica, ma anche Aida, Angela, Valeria. Donne tutte, ribelli o conformiste, osservate però dall’autrice con sguardo sensibile e privo di giudizio censorio.
Anche nelle pagine di Letizia si impongono i personaggi femminili: Viola Carraturo in primis, che svelerà una personalità ben più complessa nell’indagine a ritroso sul suo passato, ma anche Vincenza, la proprietaria dell’appartamento in cui vive Viola, Annunziata la nipote, Maria Antonietta e Cristina, le condomini che spiano i movimenti della tabaccaia, quel suo ossessivo peregrinare nelle lunghe notti insonni alla ricerca di una pace che non sa trovare.

Chiedo alle autrici le ragioni della loro scelta di un asse portante al femminile e mi rispondono, concordi, che la personalità femminile così sfaccettata ha fornito lo spunto ideale per due romanzi incentrati sull’introspezione psicologica e sulle conseguenze di traumi complessi, quali sono appunto la negazione della libertà e dell’amore.
Osservo che un altro elemento comune ai romanzi è il tema della giustizia: Silvia concorda, sottolineando che Lo stato di Dio è una denuncia contro una giustizia che non può essere tale, proprio perché nega ogni diritto democratico; anche Letizia conferma che Notte in bianco è pervaso da un sentimento doloroso della giustizia “per quel suo essere spesso ingiusta” e che il commissario Martino, suo investigatore alla seconda indagine dopo Nero. Diario di una ballerina (Homo scrivens, 2015), attribuisce alla sua professione lo scopo primario di riportare armonia laddove il crimine ha instaurato il caos.

Diversi invece l’atmosfera di fondo e il colore narrativo delle due opere. Leggendo Silvia, ho avvertito forte l’impressione di essere precipitata in un luogo e in un tempo in cui i colori sono stati sottratti dalla barbarie oscurantistica del nuovo regime, in virtù di un grigio algido e monocorde, quello dell’anima privata della sua libertà. Al contrario il romanzo di Letizia è un caleidoscopio cromatico in cui perfino l’arma del delitto, un sacchetto di biglie di vetro, luccica seppure di malvagio richiamo. Le due autrici leggono altrettanti brani – Silvia la sequenza di un tragico attentato in un hotel di lusso al centro di Bologna e Letizia il colloquio di Martino con la condomina Maria Antonietta, in un appartamento che è “un tripudio di piccoli oggetti, tutti luminosi di cristalli e pietre fintamente preziose” – che mettono in piena evidenza i rispettivi colori narrativi.

Concludo l’incontro sottolineando il carattere visivo e cinematografico che pervade i due romanzi: le sequenze in campo lungo di Silvia ricordano spesso la cappa di claustrofobica oscurità di Blade Runner che a suo volta riflette un buio fisico e spirituale; mentre la curiosità dei condomini, dettata dalla solitudine o dalla forzata immobilità, nei confronti di Viola Carraturo e delle sue peregrinazioni notturne senza scopo apparente rimanda al voyeurismo de La finestra sul cortile, che finisce per diventare empatia e che, se non sarà sufficiente a rivelare il nome dell’assassino, riuscirà a svelare aspetti sorprendenti della personalità della vittima.
L’incontro si conclude in un clima di calda cordialità, in cui i nostri frequenti sorrisi hanno trovato pieno riscontro nella sorridente e attenta partecipazione del pubblico.

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