Ho chiesto alle lettrici e alle autrici del Gruppo Facebook di raccontarmi qualcosa del loro lavoro. Quello di tutti i giorni, non legato al meraviglioso mondo della lettura/scrittura. Grazia Maria Francese ha risposto subito con questo racconto di vita vissuta.

Oh, dannazione! La ricetta telematica non va. Il programma s’è inceppato. Ormai passo la maggior parte del mio tempo a preoccuparmi del computer. Di report, piani terapeutici: diavolerie escogitate da qualche burocrate che considera il mio lavoro, quello di medico di famiglia, qualcosa da complicare il più possibile. E i pazienti non hanno più da chiedermi che prescrizioni gratuite. Diagnosi e terapia se la sono già fatta, guardando in rete o consultando qualche specialista.
Non è per questo che ho studiato. Eppure non c’è scampo: bisogna farlo e basta. Lasciarsi trasformare in un ingranaggio della macchina che non pensa, non sente, non guarda in faccia le persone. Tranne qualche volta…

… come quel giorno. Ha quasi trent’anni ma sembra molto più giovane: un bambino. Non si chiama Matteo, ma facciamo finta di sì. Un bambino spaventato.
– Dottoressa, mi faccia fare degli esami.
– Che esami?
– Il test dell’HIV.
È arrossito fino alla radice dei capelli.
– Perché, hai avuto rapporti a rischio?
Gli trema la voce. – Ho fatto quella stupidaggine… solo una volta…
– Che stupidaggine?
– Gli amici mi hanno convinto ad andare in un locale a luci rosse. Una ragazza si è seduta vicino a me…
Mi appoggio allo schienale della poltrona cercando di assumere un’aria professionale.  – E allora?
– Me l’ha preso in bocca. Ma avevo il preservativo… che rischio c’è di essermela beccata?
Mi scappa da ridere. – Tutto qui? Nessun rischio! Ti assolvo dai tuoi peccati, va’ in pace.
Ma vuole farlo lo stesso, il test. E quando torna con il risultato (negativo, ovviamente) vuole ripeterlo. E ancora, ancora… non si riesce a farlo ragionare. Di notte ha incubi in cui tutti lo additano come sieropositivo. Sta pensando di licenziarsi, perché ha paura di contagiare i colleghi.
A questo punto dovrei mandarlo da uno psichiatra che lo imbottirà di farmaci. Invece gli dico: torna quando è finito l’orario di ambulatorio. Parliamo un po’.
Matteo è figlio unico. Vive con i genitori, pur avendo un lavoro che gli permetterebbe di essere indipendente. Non è mai riuscito a mettere in piedi una relazione con una ragazza. Si sente attratto dalle situazioni torbide. Ha sogni in cui una donna cattiva, con la pelle scura, monta sopra di lui e lo fa godere mentre gli succhia il sangue. Analoghe fantasie quanto si masturba. Si sente in colpa, contaminato. Si lava le mani centinaia di volte nel tentativo di ripulire una sporcizia che non è del corpo, ma dell’animo.
– Ma le cose vanno sempre così?
– Non sempre, per fortuna! Qualche volta mi sento allegro, tranquillo. Poi viene fuori questo lato oscuro. Ho l’impressione di essere spaccato in due…
La frase mi fa scattare un ricordo. Come faccio spesso in questi casi, gli presto un libro: funziona come cartina di tornasole per capire come stanno veramente le cose. Questa volta è “Demian” di Hermann Hesse. Lo divora in due giorni e mi telefona entusiasta.

– È così, proprio così! Non dico che mi sento in fronte il marchio di Caino, ma… allora non sono l’unica persona al mondo ad avere questi problemi!
Demian funziona come cavatappi e finalmente Matteo riesce a tirare fuori il nocciolo della questione: il rapporto con la madre. La donna dei sogni è lei! Io la conosco: una donna con i capelli neri e la pelle olivastra, piuttosto cupa. Pare che abbia avuto anche una figlia, morta in età neonatale quando Matteo aveva cinque o sei anni. Da allora prova rancore verso il marito e si è attaccata morbosamente al figlio rimasto. Non vuole che vada a vivere da solo. Cerca di convincerlo a sposarsi (ha già proposto diverse candidate) e portare la moglie a vivere con lei: la tratterà come una figlia… piuttosto che fare questo, Matteo preferisce soffrire da solo.
Le angosce che si è portato dentro per anni emergono come fantasmi. Gli ho già proposto di iniziare una psicoterapia con qualcuno più esperto di me, ma non ne vuole sapere. – Non ci andrei. Solo con lei riesco a parlare, dottoressa.
Ci rivediamo una volta alla settimana, finchè comincia a mancare qualche appuntamento e alla fine non si presenta più. Tiro un respiro di sollievo: non è la massima aspirazione della mia vita, alle nove di sera, starmene ad ascoltare un bambinone che ha il complesso di Edipo.

L’ho incontrato dopo un po’ in un negozio: sembrava una persona diversa. Con lui c’era una bella ragazza bionda. Me l’ha presentata con orgoglio: – Lei è la mia ragazza. Siamo andati a vivere insieme. – Sorride. – Non a casa dei miei! Abbiamo affittato un appartamento.
Succede solo qualche volta… ma quella sera ho stappato una bottiglia di champagne e me la sono bevuta tutta. Da sola.

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