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Giovanna Barbieri ci riporta indietro nel tempo. Filippo l’arciere fugge, dopo avere ucciso un cavaliere, e incontra una banda di fuorilegge. Che cosa gli riserva il destino? Forse l’amore di una giovane nobildonna.

Anno Domini 1313

“Non ce la faccio più a uccidere in questa guerra senza fine. Sono stanco, vorrei solo tornare a casa.”
Su un tetto di Montebello, Filippo strizzò gli occhi e nella lieve foschia che precedeva l’alba notò il luccicare delle armi patavine, colpite dalla prima luce.
“Entro un’ora al massimo saranno al villaggio” pensò accigliandosi.
Non aveva timore di morire, lo spaventava di più la possibilità di essere mutilato durante la battaglia.
“Non voglio essere un peso per mia madre e per le mie sorelle. E, se anche riuscissi a ottenere il permesso per l’accattonaggio, non è detto che riesca a sopravvivere in quel modo.”
Infine guardò in basso. Luigi si mordicchiava ansioso le unghie della mano destra e lo osservava appoggiato al muro della casa. Era un giovane fante suo amico, basso di statura e non molto robusto.
«Filippo, cosa vedi?» gli chiese togliendosi l’unghia del pollice dalla bocca.
«Solo il vago chiarore delle lame rivali, Luigi.» Restò sul vago, per non terrorizzarlo.
Se preso dal panico il ragazzo si fosse dato alla fuga, uno dei cavalieri di Cangrande lo avrebbe inseguito e punito con la morte, vanificando la possibilità per la sua famiglia d’ottenere i bottini guadagnati nelle razzie e spogliandola di ogni altro possedimento. Il tempo passò lento e Filippo preparò la freccia nella scocca.
«Luigi, sono qui, preparati!» gli urlò.
Vide il giovane acquattarsi dietro il muro di una casa e rimanere fermo, in attesa che la lotta terminasse. Non gli diede torto, trovarsi di fronte uomini adulti, robusti il doppio e ben armati avrebbe impaurito chiunque. Infine la battaglia iniziò e Filippo si concentrò sui nemici, dimenticandosi tutto il resto. I suoi dardi trafissero molti rivali e schivò per ore le numerose saette avversarie.
“Per fortuna pare solo un’avanguardia guelfa” pensò scendendo dal tetto, quando l’astro raggiunse lo zenit.

I guelfi si stavano allontanando dalla sua linea di tiro e non poteva più colpirli. All’improvviso un piccolo gruppo lo circondò, ma lui riuscì a trafiggere due fanti guelfi; tuttavia gli altri lo caricarono inferociti. Filippo li colpì con il legno dell’arco, ma non era protetto da armature e oltre all’arco possedeva solo un pugnale. Lo avrebbero ucciso, se uno dei cavalieri ghibellini non si fosse precipitato in suo soccorso.
Lo riconobbe e lo ringraziò chinando il capo; poi con agili movimenti salì su un altro riparo. Esaurì tutte le frecce, colpendo i patavini.
“I guelfi stanno per essere sconfitti” gioì dopo un po’.
Infatti gli scaligeri erano riusciti a uccidere o mutilare tutti i patavini presenti nel piccolo abitato. Quando scese, andò subito in cerca di Luigi ma non riuscì a scorgerlo da nessuna parte.
“È possibile che sia fuggito o sia morto?” s’interrogò accarezzandosi pensieroso il pizzetto.
Si riscosse quando lo scudiero del nobile Nogari, il capitano, attirò la sua attenzione con un gesto e lui gli andò incontro.
«Arciere Filippo, il capitano Nogari desidera convocarti nella sua tenda» lo informò Antonio.
Quando entrò, il nobile lo attendeva dietro un tavolaccio da campo usato come scrittoio.
«Filippo, hai per caso visto quel giovane fante tuo amico? Non ha risposto all’appello» lo interrogò l’uomo, scrutandolo con intensi occhi scuri.
Lui non ripose subito, incerto se metterlo al corrente dei suoi timori ma alla fine decise di coprire Luigi: «No, capitano, oggi non l’ho visto. È possibile che sia morto durante lo scontro? Forse il cadavere non è ancora stato trovato.»
«Dubito, è un pusillanime. Si sarà nascosto da qualche parte. In ogni caso riferiscimi se dovessi incontrarlo» lo congedò.
Filippo uscì angustiato, dirigendosi verso le tende dei compagni.
“Immagino che si sia defilato e non me la sento di tradirlo, lo inseguirebbero subito. Se Luigi è furbo, si è già messo in cammino e continuerà la marcia anche con le tenebre.”
Senza grande appetito, si diresse al fuoco da campo per mangiare. Stava per afferrare una coscia di pernice, quando vide uno dei cavalieri montare il proprio destriero; lo conosceva bene e s’azzardò a interrogarlo.
«Dove state andando, cavaliere? È prevista un’altra sortita?»
«No, arciere, vado a cercare un giovane fante assente all’appello. Il capitano Nogari sospetta sia un disertore.»
Filippo rabbrividì. “Se lo troverà, sarà la fine per quel ragazzino sconsiderato.

Dopo il pasto, per celebrare la vittoria, i mercenari al soldo di Cangrande andarono in cerca di bottino e di donne disponibili. Lui e alcuni suoi compagni della valle Provinianensis[i] li seguirono, sperando di raccogliere dei beni da rivendere. La piccola chiesa locale era già stata spogliata di ogni avere e i mercenari si stavano accanendo contro i montebellani.
All’improvviso, nonostante la confusione, udì le grida di terrore di una donna. Per istinto si diresse verso il suono ed entrò nella baracca da dove proveniva l’urlo. Il capofamiglia era già stato trafitto e giaceva agonizzante a terra; la moglie, invece, si dibatteva e piangeva sotto le grinfie di un mercenario che la stava violentando. Altri due uomini stavano infilando alcune galline e una forma di formaggio in un sacco.
“Mio Dio, li stanno massacrando per il cibo!”
Una ragazzina di circa dodici anni piangeva disperata in un angolo della casetta, col terrore di essere violentata e uccisa.
«Perché? È solo povera gente, non hanno nulla degno di essere rubato!» urlò indignato.
Afferrò i capelli del mercenario sdraiato sulla donna e li tirò con forza; quando l’uomo si fu scostato da quella poveretta lo riempì di calci, ma gli altri due sodati di ventura reagirono sguainando le spade.
«Fatti gli affari tuoi, arciere!» ringhiò uno dei ladri con lampeggianti occhi verdi.
«Li avete uccisi per procurarvi delle scorte! Sono innocenti e ghibellini.»
Il primo ladro che stava violando la donna, sebbene fosse stato picchiato da lui, raccattò la spada e trafisse per vendetta la contadina. La giovane figlia emise un ululo di agonia, nascondendo il viso tra le ginocchia.
“Questi mercenari sono più corrotti e violenti degli armigeri veronesi.”
Il secondo e il terzo ladro lo caricarono e lui parò i colpi con l’arco, usandolo come scudo. Lo avrebbero ferito a morte, se quattro dei suoi compagni della valle non fossero entrati nella capanna.

«Filippo, possibile che ti metta sempre nei guai?» gli sorrise uno degli amici.
I tre mercenari rinfoderarono le spade e lui si rilassò.
«Stavamo scherzando» disse occhi verdi e un ghigno gli alzò il labbro superiore.
«Avete ucciso due contadini senza motivo e reso orfana questa giovane donna!» latrò arrabbiato, aveva tutta l’intenzione di andare a lamentarsi dal capitano.
“Non posso lasciare la bambina da sola con loro. Potrebbe essere mia sorella minore” considerò infine afflitto girando il capo verso la sfortunata orfana.
«Pensateci vuoi a lei» propose agli amici della valle, sapendo che l’avrebbero accompagnata da un’altra famiglia del villaggio. Poi si congedò e uscì da quel luogo di morte.
«Antonio, ho bisogno di vedere il capitano» disse infine una volta arrivato davanti alla tenda del suo superiore.
Lo scudiero entrò un attimo, uscendone dopo alcuni istanti.
«Avanti» pronunciò il capitano.
Filippo avanzò. «Capitano, i mercenari stanno uccidendo i contadini montebellani e abusando di tutte le giovani donne presenti nel villaggio» gli comunicò agitato.
Il nobile non sollevò un sopracciglio. «Fa parte della loro ricompensa, molti guerrieri decidono di prendere le armi solo per quello. Dovresti divertirti anche tu, magari con qualche bimbetta» ghignò.
«Capitano, distruggeranno il villaggio e il popolo vicentino ci odierà. Questo comportamento non aiuterà la causa ghibellina!»
«Attento alle tue parole, arciere, potrei prenderle per insubordinazione. Cosa vuoi che c’importi di quattro contadini affamati e cenciosi? Noi scaligeri combattiamo per il controllo del territorio.»

In quel mentre, il cavaliere spedito alla ricerca di Luigi ritornò con il fante. Il ragazzo era stato picchiato con crudeltà dal paladino e gli occhi del disertore erano così gonfi e neri da renderlo irriconoscibile.
Il capitano sorrise soddisfatto e Filippo tremò. «Molto bene, cavaliere de Borghetti.»
«L’ho trovato in fuga poco lontano dall’accampamento» rispose il cavaliere.
«Legalo bene e portalo fuori. Domani sarà impiccato all’alba» annunciò il nobile Nogai.
«È solo un ragazzo!» s’infuriò Filippo. «Perché non fustigarlo e lasciarlo vivere, invece di ucciderlo?» propose.
«No, molti seguirebbero il suo esempio e poi è solo un fante codardo» disse il cavaliere con disprezzo.
Quella fu l’ultima goccia. Filippo afferrò il suo arco e scoccò la freccia in direzione del manesco cavaliere, centrandolo al petto, mentre il capitano urlava per attirare gli altri armigeri. Lo scudiero entrò e Filippo lo atterrò con un pugno. Non voleva altre vite sulla coscienza. Per fortuna erano tutti in cerca di bottino e nessun altro rispose al richiamo del capitano. Filippo aveva appena ucciso un nobile, un reato molto grave per un semplice popolano come lui. Corse fuori, trascinando con sé Luigi.
Aiutò l’amico a montare davanti a lui sul destriero del cavaliere morto e infine spronò il cavallo.
“Cosa farò adesso? Non posso ritornare da mia madre e dalle mie sorelle. Anche se non sono coinvolte nel crimine, il signore di Verona le spoglierà di ogni bene” rifletté pentito.
Decise di dirigersi verso Trento e la sua valle, conosceva quei luoghi e forse laggiù aveva qualche possibilità in più di sopravvivere.

Si trovava nei pressi delle colline di Sommacampagna, Luigi aveva la febbre alta da giorni, le ferite si erano infettate; il suo amico stava morendo senza che lui potesse aiutarlo.
«Lasciami qui, Filippo, salvati almeno tu» borbottò il ragazzo guardandolo. «Non dovevi uccidere il cavaliere per me.»
«Non ho assassinato il paladino solo per te, ma per tutte le vittime di questa guerra senza fine. Sono stanco di uccidere. Ora riposa.»
Luigi chiuse gli occhi e Filippo si sdraiò ancora. Sapeva che l’amico non ce l’avrebbe fatta, aveva visto tanti altri armigeri morire di avvelenamento del sangue.
Quando si svegliò il mattino seguente, Luigi era morto. Pianse, pregò per la sua anima e lo seppellì nella boscaglia. «Mio Signore, Luigi era un bravo ragazzo. Quando busserà alla Vostra porta, se potete, lasciatelo entrare.»
Fischiò al cavallo, rimontò in sella e non si fermò per una settimana; si sentiva solo senza Luigi e trascorse il mese di settembre guardandosi alle spalle e mangiando quando poteva.
“Non posso continuare così ancora a lungo; devo trovare un luogo dove fermarmi, prima dell’inverno.”

Si trovava nei pressi della via che conduceva al Brennero e Filippo cavalcava immerso in cupi pensieri.
«Fermati o sarà il tuo ultimo respiro» lo minacciò un uomo biondo, tenendolo sotto tiro con un arco a lunga gittata.
Si riscosse e afferrò la sua arma incoccando una freccia. Tre berrovieri imperiali, fuoriusciti dal loro esercito, lo stavano fissando. I due più giovani lo squadrarono stupiti con sguardo ebete, minacciandolo a loro volta con gli archi.
“Che idiota che sono! Come ho potuto distrarmi tanto? Potrei uccidere il più anziano con un tiro, ma gli altri due mi sarebbero addosso nel giro di un istante” calcolò facendo indietreggiare il cavallo.
«Sono il capitano Robert von Berlin e loro sono Ugo e Sebastian. Anche tu sei un fuorilegge» disse il più sveglio dei tre.
Filippo immaginò che l’uomo l’avesse studiato con attenzione prima di parlare e che, in qualche modo, lui avesse superato l’esame.
«Sono Filippo, l’arciere.»
«Abbassa l’arma, non abbiamo intenzione di colpirti. Siamo tutti dalla stessa parte.»
Lui squadrò l’uomo biondo e giunse alla conclusione che il capitano imperiale avesse bisogno di un secondo in comando più sveglio di quei due idioti al suo seguito.
“In fondo un po’ di compagnia è quello che mi ci vuole, non faccio che guardarmi alle spalle.”
«Cosa offrite?»
«Potrai unirti a noi: mangerai tutti i giorni, prepareremo balzelli e ci proteggeremo a vicenda.»
Accettò, non aveva molta scelta, erano in tre contro uno.

***

Isabella procedeva lenta sul suo stanco giannetto[ii]. Da quattro giorni lei, l’anziana ancella Tommasina e tre dei più attempati armigeri del casato de Zane cavalcavano per raggiungere il castello di Malcesine. La fortezza, situata a nord-ovest dell’abitato, in un punto strategico del lago di Garda, era dominio degli scaligeri feudatari di suo padre, il conte di San Pietro in Cariano. Il suo futuro marito, il castellano lacustre, aveva perduto la moglie qualche anno prima e ora desiderava risposarsi. Il padre l’aveva quindi promessa al nobile di Malcesine, quando l’uomo si era proposto di maritarla. Isabella aveva pianto quando l’avevano separata dalla madre, ma sapeva che a lei e a tutti i suoi fratelli e sorelle non primogeniti erano riservati i medesimi destini.
“Almeno io sposerò un ricco e nobile castellano; sarò rispettata e accudita” sospirò senza crederci.
Le ombre si stavano allungando nel bosco della Valle Provinianensis. Ciononostante Giovanni, il capitano degli armigeri, decise di continuare a muoversi. Entro il Notturno sarebbero giunti in una località chiamata Pastrengo, un piccolo borgo di malandate case contadine dove sostare un po’. Isabella avrebbe invece desiderato montare subito il campo; il padre prima di partire l’aveva istruita riguardo i pericoli serali nei boschi e lei non desiderava incappare in lupi, orsi e fuorilegge.
«Potremmo alloggiare nella locanda del paese, mia signora» cercò di rallegrarla Tommasina.
«Perché non proponi a Giovanni di montare il campo in quella radura laggiù?» insistette ancora. «Si sta facendo troppo buio per continuare a cavalcare.»
Tommasina avvicinò il suo giannetto al destriero di Giovanni e iniziò a discutere con lui. Il guerriero si grattò la testa quasi calva, soppesando le parole dell’ancella e scuotendo il capo. Isabella notò che l’uomo non era a suo agio sul destriero. Questi infatti stava giocherellando nervoso con le briglie dell’animale.
“Non ci vuole uno stratega per intuire che un campo è difendibile con più facilità da attacchi di berrovieri e di animali” s’irritò lei.
«No, procediamo» tagliò corto il capitano.
“Desidera un giaciglio caldo e asciutto, forse anche una compiacente locandiera” pensò corrucciandosi.

Isabella sospirò, non aveva molta voce in capitolo e le serviva la collaborazione dei soldati per raggiungere Malcesine. La stella della sera era da poco spuntata in cielo, quando lei udì il primo sibilare di frecce. Si chinò per istinto sul suo cavallo urlando un avvertimento. Troppo tardi, i tre armigeri di San Pietro erano già stati colpiti a morte: uno alla gola, un altro al cuore e l’ultimo all’inguine. Terrorizzata, spronò il suo giannetto per avvicinarsi a Tommasina. Con dolore e sgomento notò che un dardo le fuoriusciva dalla parte bassa della schiena. Isabella la toccò e la vecchia serva aprì gli occhi.
«Fuggite» mormorò.
Isabella sapeva cosa accadeva alle giovani donne in balia di spietati briganti e si angosciò, mentre incitava al galoppo il piccolo cavallo. Dietro di lei udì il rombo sordo di zoccoli in corsa. Presa dal panico, esortò ancora il suo giannetto. Era consapevole del pericolo per la cavalcatura, ma la paura la sopraffece. Aveva percorso un paio di miglia, quando l’animale scivolò sul fango e lei si ritrovò a terra. Con timore alzò il viso sporco e vide due ombre, armate di archi e di spade, tenerla sotto tiro.
«Chi siete, cosa volete?» non poté evitare di domandare.
Il primo uomo rise sguaiatamente e smontò da cavallo. Parlò con l’altro in una lingua sconosciuta. Il guerriero le si avvicinò e Isabella scorse il colore della sua sopratunica.
“Berrovieri, mercenari fuggiti dalle file dell’esercito imperiale di Enrico VII” considerò subito terrorizzata.
Il primo uomo l’afferrò e la girò a faccia in giù, schiacciandola al suolo con il suo peso. Lo udì armeggiare con le cinghie delle brache[iii] e le sollevò la veste.
“Vuole violarmi!” pensò sconvolta.
«No, lasciami!» gridò spaventata, dibattendosi e urlando.
Il secondo berroviere venne in aiuto del compagno e ghignando la tenne ferma mentre udiva i movimenti dell’altro che si liberava delle calze. Isabella si mise a strillare e a piangere ancora più forte. “Mi uccideranno.”
«Fermi!» comandò la voce di un terzo uomo. «Legatela e portatela da Robert.»
Gli uomini gli ubbidirono controvoglia. Per tutto il tragitto nel bosco continuò a singhiozzare, atterrita e traumatizzata, non sapendo cosa il destino avesse in serbo per lei.
“Cosa vorranno da me e Tommasina? Hanno già rubato la dote” rimuginò afflitta.

La notte era scura e senza luna quando giunsero all’accampamento. L’ancella gemette non appena gli uomini la fecero smontare da cavallo e Isabella si riscosse.
«Tommasina è ferita, ha bisogno di riposo e di cure» affermò più calma.
«La perdita di sangue è stata fermata. Non morirà» asserì il terzo fuorilegge guardandola.
Isabella ne dubitava, l’anziana serva non era robusta e aveva perduto molto sangue durante il tragitto.
«Che bisogno c’era di colpirla? Non avrebbe fatto del male a nessuno» esclamò arrabbiata e addolorata.
«È stato un errore, cavalcava vicino ai vostri armigeri» disse questi.
«Posso provare a curarla, domattina?» lo pregò.
L’uomo annuì e le spinse dentro una capanna di legno e fango. «Dormite. All’alba Robert vorrà parlarvi» annunciò questi congedandosi.

La nascita del sole arrivò sin troppo presto. Isabella giaceva ancora semi addormentata in un puzzolente pagliericcio quando un berroviere in cotta di maglia e colori imperiali entrò nella casupola, seguito dal terzo brigante della sera precedente. Isabella li studiò con attenzione: il primo guerriero, il capitano di quella combriccola, era robusto, sulla trentina, biondo… e puzzava. L’altro invece era castano, più snello, pulito, giovane e con intensi occhi grigi.
“Ha i colori scaligeri!”
«Cosa volete da noi? Lasciateci andare» li supplicò Isabella.
Tommasina riposava su un altro pagliericcio, bruciante di febbre.
«Abbiamo noi la tua dote, il promesso sposo non ti mariterà» sostenne Robert con forte accento del nord.
«Sappiamo che sei la nobile figlia di qualche vassallo, ma anche che tuo padre forse non pagherà per riaverti» affermò l’armigero castano.
Isabella rabbrividì sapendo che sosteneva il vero: il nobile padre non l’avrebbe aiutata a uscire da quella sventura.
«Sono Isabella de Zane, figlia di Aliostro de Zane, vassallo degli scaligeri. Mio padre mi farà cercare e vi ucciderà. Liberatemi subito» cercò di spaventarli.
«Io sono Robert von Berlin e lui è il mio secondo, Filippo l’arciere. Siamo qui con alcune donne» rise il capitano. «Un’altra ci servirebbe» ammiccò diretto a Filippo. «Non chiederemo nulla a tuo padre.»
Il capitano uscì poi dalla baracca e Isabella tremò. Sapeva cosa significava quell’affermazione: violenze quotidiane e non un minuto di riposo.
“Non posso fuggire, mi perderei nei boschi” constatò sconfitta.
«Per favore, lascia prima che aiuti Tommasina» supplicò.
Il giovane arciere era rimasto nella stanza e la stava fissando contrariato. «Cosa vi serve?» capitolò.
Isabella aveva sempre pensato che i briganti fossero senza cuore e compassione, però quell’uomo l’aveva salvata dalla violenza e ora aveva intenzione d’aiutarla con l’ancella.
«Aceto per disinfettare la ferita e corteccia di salice per la febbre» lo informò.
«Le donne del campo non conoscono le proprietà delle erbe mediche» replicò secco.
«È settembre e siamo in un bosco, troverò io la corteccia» propose lei.
L’arciere la squadrò in uno strano modo, soppesando le sue parole; infine la liberò e la spintonò fuori. Isabella fu costretta a chiudere un istante le palpebre, accecata dai raggi del sole. Quando riaprì gli occhi scorse intorno a sé un piccolo borgo, non notato la notte precedente.
«Da questa parte» la spinse lui.

Uscirono dall’abitato e s’inoltrarono nella boscaglia. Lei controllò con scrupolo gli alberi e trovò la pianta che le serviva.
«Questo è un salice. Mi serve la sua corteccia» disse invogliandolo a prelevarla con il suo coltello.
Infine ritornarono nel centro del piccolo villaggio. Un paiolo era collocato sul fuoco e una donna graziosa, sui vent’anni, ne girava il contenuto con un cucchiaio di legno.
«È possibile avere dell’altra acqua calda?» domandò.
«Chi ti ha insegnato a riconoscere le erbe mediche?» indagò lui incuriosito.
«Tommasina, durante le nostre passeggiate. Da giovane è stata novizia presso l’abbazia di Santa Maria ad Arbizzano.»
«Lucilla, c’è dell’acqua pulita e dell’aceto?» chiese lui alla donna accanto al fuoco.
«Laggiù» rispose quella, osservandola stupita.
«Lei è Isabella» la presentò Filippo sorridendo. «L’abbiamo rapita ieri sera e la sua dote ci permetterà di sopravvivere quest’inverno.»
Isabella rimase silenziosa, prese una ciotola di cotto, la riempì di acqua e l’avvicinò al fuoco. Quando il liquido iniziò a bollire, spezzettò la corteccia e la gettò nel contenitore. Una volta pronta, prese la tisana e si recò con l’uomo nella baracca dove giaceva Tommasina. Disinfettò la ferita della serva con l’aceto, poi la fasciò.
«Puoi aiutarmi a farle bere la tisana?» domandò con gentilezza.
L’uomo annuì di controvoglia, sollevò il capo della vecchia ancella e lei con pazienza la forzò a ingollare il liquido.
«Ora dobbiamo solo aspettare, quando si sveglierà le preparerò un’altra tisana» disse soddisfatta.
Filippo grugnì, la prese per un braccio e la trascinò ancora all’aperto di fronte alla donna di prima. «Lei è Lucilla. Fate quello che vi chiede. Io devo andare a caccia» le ordinò lui lasciandole sole.
Isabella si preoccupò, consapevole del fatto che se i due uomini del giorno precedente avessero voluto aggredirla ancora, nulla li avrebbe fermati. Spaventata, si guardò intorno. Per fortuna i berrovieri imperiali non erano in vista.
Lucilla attirò la sua attenzione, parlandole in dialetto veneto. «Sono la compagna del capitano Robert. Ora vieni con me, dobbiamo nutrire i cinghiali, i cavalli, le capre e le quaglie.»
Al castello, il conte de Zane aveva animali ma non allevava quelli selvatici, tranne i rapaci per la caccia. Lucilla le mostrò cosa fare e lei preparò un pastone d’avanzi per i cinghiali. Infine pensò ai volatili e alle capre.
«Non mungete le capre?» domandò lei.
«Per quale motivo? Non sappiamo fare il formaggio» confessò Lucilla.
«Io sì. Spesso affiancavo mia madre quando controllava i cuochi. Lo si può sia stagionare sia consumare subito» le rivelò.
«Insegnatemi a mungerle» le ordinò la donna porgendole un secchio.
«Non so mungerle, ma non credo sia così difficile.» Dopo diversi tentativi il latte cominciò a riempire il secchio.
Infine lei si diede da fare con il liquido, lo lasciò bollire e lo versò in una fuscella di fortuna, in attesa che il siero spurgasse.
«Domani aggiungeremo delle spezie per dargli sapore, come aglio selvatico ed erba cipollina. Per ora deve riposare in un luogo buio e asciutto» la istruì.
La donna la condusse in una minuscola costruzione adibita a magazzino. «Qui mettiamo la carne affumicata, andrà bene anche per il formaggio. Ora vieni con me, dobbiamo lavare gli abiti sporchi» le comunicò asciutta.
A loro si unirono altre due donne adulte.
“Le mogli o compagne degli altri berrovieri” indovinò lei. “Chissà se sono a conoscenza dei comportamenti dei loro uomini.”
Le altre parlavano male il dialetto veneto e la giovane si chiese da quale città provenissero e perché si fossero unite ai fuorilegge.
«Se te lo stai domandando, sono fuggite dal Sacro Romano Impero accusate di furto. Hanno sempre abitato in città, per questo non sanno fare il formaggio. Non volevano finire sulla forca, così si sono dirette a sud. Sulla via hanno incontrato i briganti e recentemente Filippo» le raccontò Lucilla mentre strizzava i capi d’abbigliamento.
«E tu?» indagò lei curiosa.
«Non sono affari tuoi!» esclamò la donna stupendola.
Un’ora più tardi le rivolse ancora la parola: «Ho ucciso uno dei miei clienti. Era ubriaco e voleva scuoiarmi.»
Lei rabbrividì e immaginò fosse stata una donna di malaffare. Sulla via del ritorno udì un vociare di uomini e s’inquietò.
“I due armigeri imperiali saranno ritornati? Filippo mi difenderà ancora?”
Una volta nel centro del villaggio, Isabella si nascose dietro a Lucilla; per fortuna i fuoriusciti non la degnarono di uno sguardo e lei trasse un sospiro di sollievo.
«Abbiamo catturato due pernici, una quaglia e un piccolo cervo» disse Filippo capitandole di fronte.

Lavorò molto quella mattina, pulendo e cucinando le pernici. Il piccolo cervo invece fu affumicato e riposto dove il formaggio era stato collocato a stagionare. Nel tardo meriggio, con timore, s’avvicinò al brigante dagli occhi grigi.
«Vorrei andare a prendere altra corteccia di salice per Tommasina e anche delle spezie per insaporire il formaggio.»
Non vedeva l’ancella da molte ore, ma sospettava che bruciasse ancora di febbre.
«Va bene, vi accompagnerò. Le altre donne sono occupate» sospirò lui facendole notare come gli armigeri spingessero le poverette all’interno delle rispettive baracche.
Isabella inorridì e s’allontanò in fretta; dapprima si dedicò alla corteccia, poi passò all’aglio selvatico, all’erba cipollina, alle spighe di cereali selvatici, alla borragine e ai piccoli tuberi commestibili da aggiungere alla zuppa serale.
«Perché state prendendo tutta quella roba?» le domandò Filippo a un certo punto.
«Sono per la zuppa di questa sera, aggiungeranno sapore» replicò lei con paura.
Filippo grugnì. Al calar del sole ritornarono indietro. Isabella si diresse subito da Tommasina, ma la serva giaceva immobile e pallida nel suo pagliericcio. Lanciò un alto gemito e Filippo entrò nella capanna. Addolorata, Isabella iniziò a singhiozzare, constatando la morte dell’amata ancella.
«Venite, avete la cena da preparare. A lei penseremo più tardi» affermò senza pietà il bandito.
“Ora sono sola in questo luogo isolato, con quattro uomini crudeli” si dolse piagnucolando mentre puliva la verdura e la gettava nel paiolo con i pezzi di pernice spennati.
«Buona. La migliore che abbia assaggiato da quando viviamo qui» constatò Filippo leccandosi le labbra.
«Hai fatto bene a non ucciderla» si complimentò infine Robert.
«Aggiungo però che la vecchia è morta; dobbiamo seppellirla» specificò Filippo.
Il capitano ruttò di gusto e si alzò. «Pensateci voi» ordinò rivolto agli altri armigeri.
Filippo e i compagni spostarono l’anziana donna, che già puzzava. Scavarono una fossa e la gettarono dentro senza cerimonie. Schiacciata dal dolore, Isabella pianse tutte le sue lacrime, poi cadde in ginocchio e pregò per l’anima di Tommasina.
«Ora basta. Venite.»
Filippo le afferrò un braccio e la costrinse a seguirlo dentro la sua casupola. Lei iniziò subito a tremare di paura e cercò di non guardarlo mentre si spogliava, temendo che l’uomo volesse approfittare di lei.
«Non vi preoccupate. I briganti imperiali non vi toccheranno più e io non prendo le bambine con la forza» la stupì lui.
Isabella si rilassò e si sdraiò per dormire in un giaciglio lontano dall’uomo. Le memorie della vita con Tommasina la sommersero. Con lei aveva esplorato i boschi vicino al castello, creato arazzi e tessuti per la famiglia.
“Sarò sola da oggi in avanti” pensò angosciata.

Poco prima del sorgere del sole, l’arciere la svegliò. «Vado a pescare, vieni con me. Ritorneremo tra un paio d’ore» le comunicò.
Lei non osò opporsi. Il torrente non era lontano e in pochi istanti lo raggiunsero. L’uomo si tolse la tunica e le calze di tessuto pesante, rimanendo in brache. Era giovane e ben proporzionato. Nonostante il terrore che volesse prenderla con la forza, lo trovò attraente. Lui entrò in acqua e s’apprestò a intrappolare le trote.
Notò diverse cicatrici deturpargli il torace e si domandò quale fosse la sua storia. «Perché ti sei unito ai fuoriusciti?» non poté far a meno di chiedergli.
«Ho ucciso un nobile cavaliere» confessò. «Robert ha rubato dell’oro al suo signore e i due armigeri sono disertori imperiali.»
Infine Filippo riuscì a lanciare un pesce sulla riva servendosi delle mani. Dopo poco tempo, altri tre seguirono il primo. «Prendili e legali con lo spago» le ordinò uscendo dal torrente.
Con calma s’infilò le calze, indossò la tunica e insieme s’incamminarono verso il centro delle case. Il sole era appena spuntato quando lei s’apprestò a pulire i pesci. A lavoro ultimato, li posò sulle braci per la colazione, innaffiandoli con le erbe raccolte sulla via.
«Cucini molto bene per essere una nobile così giovane» conversò lui osservandola.
«Ho quindici anni!» esclamò, stupita che lui non avesse indovinato la sua età.
Filippo le lanciò uno sguardo di traverso, Isabella sapeva d’apparire più giovane dei suoi anni: mora come la madre e snella come un giunco.
“Crescerò anch’io, tra qualche anno somiglierò a Lucia” rimuginò contrariata ricordando l’aspetto attraente della sorella maggiore.

Quando gli uomini lasciarono il villaggio per la caccia e le scorribande, lei pensò agli animali e al latte. Preparò altro formaggio da stagionare e una volta pronto lo portò nel magazzino dove riposava il resto. Tagliuzzò l’aglio selvatico e l’erba cipollina, aggiungendoli alla forma del giorno precedente, poi si diede alla preparazione del pane. Ovviamente i cereali selvatici non erano buoni come quelli coltivati dai contadini, ma potevano andare.
“Ringrazio mia madre per avermi permesso di osservare i cuochi durante i loro lavori, altrimenti non saprei nulla, come la maggior parte dei nobili e degli abitanti delle città.”
«Cosa stai facendo?» l’aggredì Lucilla.
«Trebbio i cereali per il pane. Certo, verrà molto scuro e di sapore un po’ strano, tuttavia credo che agli uomini potrebbe piacere lo stesso» replicò.
La donna la squadrò interdetta e dopo alcuni istanti fu raggiunta dalle amiche di sventura.
«Dove hai preso le granaglie?» indagò Lucilla più calma.
«Nei campi vicino al torrente. Se mi aiuterete a mietere potremmo cuocere più pane» le tenò lei indicando la farina.
«Non mangio pane da molti mesi» sbavò una delle altre donne con un forte accento del nord.
Isabella le portò dove aveva preso le prime spighe e insegnò loro cosa raccogliere.
«Toglietemi una curiosità, da quanto tempo siete isolate in questo bosco?» chiese a Lucilla.
«Da quasi quattro mesi, il prossimo sarà il nostro primo inverno con i briganti» rispose lei continuando a lavorare. «Abbiamo incontrato Robert, Ugo e Sebastian in primavera e Filippo poche settimane fa» specificò.
«Ho notato che non conoscete le erbe.» Isabella la buttò lì, cercando di ottenere altre informazioni dalla donna.
«Anche Rosa e Maria erano meretrici imperiali» raccontò lei.
“Questo spiega molte cose.”
Dopo un po’ tornarono al campo, trebbiarono e macinarono i grani; infine aggiunsero l’acqua.
Verso il mezzogiorno gli uomini rientrarono e lei presentò sia le piccole forme di pane sia il formaggio di capra. Infine con le altre pulì la lepre e le due anatre catturate.
«Ottimo pasto» le lodò Robert.
«Anche il pane non era male» asserì Filippo.
«Strano gusto, però» commentò uno degli altri armigeri.
«Le granaglie sono selvatiche» specificò lei. «Se il pane vi piace, potrei provare a raccogliere le spighe per quest’inverno» propose Isabella.
“Se dimostro di essere indispensabile, non mi uccideranno. Voglio rimanere in vita e in fondo non mi è andata male fino a questo momento. Anzi, ho evitato di sposare un grasso nobile castellano desideroso di ricchezze e di figli.”
Le altre donne non fecero in tempo a replicare e sparirono nelle rispettive case con i compagni.
“Non le invidio.”
«Vai» acconsentì Robert.
Isabella s’avviò per il sentiero che portava al torrente. Filippo non era con lei, così si dedicò alla raccolta delle spighe e di altre erbe selvatiche. Quando alzò lo sguardo era già meriggio inoltrato. Aveva lavorato sotto il sole per diverse ore e ora era sudata e sporca.
“Farò un bagno, è settembre ed è trascorso molto tempo dall’ultima volta.”
Si guardò intorno con circospezione, per fortuna i briganti non erano in vista. Si spogliò ed entrò nel torrente. Un prodotto fantastico chiamato “sapone” era stato inventato in Medio Oriente, ma lei non lo possedeva perciò utilizzò la saponaria. Si stava risciacquando quando vide sulla riva Filippo.
«Uscite, il sole è quasi calato» l’apostrofò seccato.
«Va bene, girati» lo pregò contrariata.
«Neanche per sogno, voglio vedere che bell’animaletto ho catturato» la schernì.
Isabella fu costretta ad alzarsi e si mostrò in tutta la sua grazia, arrossendo fino al midollo: il corpo acerbo e sodo con il seno appena spuntato e i lunghi capelli neri. Filippo non proferì verbo e la lasciò vestire, poi insieme ritornarono al villaggio.

I mesi trascorsero e l’inverno giunse in tutta la sua crudeltà. Le donne, aiutate a volte dagli uomini, passarono molte ore ad affumicare la carne di cinghiale. Inoltre lei e le altre raccolsero più cereali selvatici possibili, lasciando gli scarti per i cavalli e le capre.
Era stanca, quella sera, e aveva freddo; la neve e il ghiaccio avevano coperto il suolo, raggelandoli tutti.
«Non riesco a dormire, i denti mi battono troppo forte. Posso avvicinarmi a te?» chiese alla fine a Filippo.
In quei mesi aveva imparato ad apprezzarlo. Era burbero, ma aveva anche un cuore gentile. Filippo non l’aveva mai forzata a fare nulla e questo glielo aveva fatto desiderare ancor più. L’uomo le fece spazio sotto la coperta di pelliccia e Isabella si raggomitolò di schiena contro il suo corpo.

In quei pochi mesi era molto cresciuta. Sentì la mano dell’uomo sfiorarla e si girò verso di lui. Non aveva più paura di quello che poteva farle. Era pronta. Filippo le alzò il mento con una mano e avvicinò le labbra alle sue. La baciò e lei ricambiò. Lo voleva e fece scivolare una mano sotto la sua tunica, accarezzandogli il torace. Lui gemette e le mordicchiò con dolcezza il labbro inferiore, mentre una mano le sollevava la gonna del vestito. Le accarezzò le cosce con inaspettata delicatezza. Per istinto Isabella allargò le gambe, sentendolo gemere mentre la baciava. Lo esplorò anche lei, non aveva mai toccato un uomo prima d’ora ma la natura la guidava. Trafficò con le calze e le slacciò. Quando entrò in lei sentì dolore ma non lo fermò.
«Mio Dio, grazie» lo sentì mormorare alla fine.
Nel mezzo della notte fu all’improvviso svegliata dai movimenti di Filippo.
«Cosa c’è?» domandò lei.
«Zoccoli. Sta arrivando della gente» replicò lui rivestendosi in fretta. «Potrebbero essere altri briganti venuti a saccheggiare le nostre provviste.»
L’uomo afferrò l’arco e corse fuori. Isabella rabbrividì, non aveva armi per difendersi ma desiderava salvare i cavalli e le capre.
“Senza di loro moriremo di fame” si preoccupò.
All’esterno c’erano anche i berrovieri imperiali, le meretrici e Lucilla con mezzi di difesa occasionali.
«Montate a cavallo! Dobbiamo difendere le donne e gli animali» ordinò Robert agli armigeri imperiali fuoriusciti. «Filippo, tu arrampicati su quell’albero e scocca tutte le tue frecce.»
Nel tentativo di spaventarli e costringerli a fuggire, gli assalitori avanzarono al galoppo verso di loro, urlando con quanto fiato avevano in gola, ma né le donne né gli imperiali o Filippo scapparono. Infine, quattro banditi macilenti entrarono nel minuscolo villaggio. Sebbene nobile e non abituata a difendersi, Isabella cercò con impegno di scalzare dal cavallo uno dei nemici, aiutandosi con un lungo bastone. E questi l’avrebbe di sicuro trafitta con la sua spada se Filippo non l’avesse soccorsa con un dardo. Le due meretrici più giovani, invece, non furono così fortunate e neppure i due armigeri imperiali.
Desolate e addolorate, piansero per le compagne. Nei mesi lei aveva imparato ad amarle, non erano cattive. I berrovieri imperiali, invece, erano crudeli e prepotenti. Loro non meritavano lacrime.
«Moriremo di freddo qui fuori» la toccò Filippo. Mancavano molte ore all’alba. Non possiamo fare più nulla per loro. Rientriamo.»
Quando furono nella casetta Isabella gli si accoccolò vicino in cerca di conforto e calore, singhiozzando piano. Filippo le accarezzò con dolcezza i capelli tentando di calmarla e lei si sentì sciogliere.
«Non vi preoccupate, ce la caveremo. Lo facciamo sempre» sussurrò lui.
Isabella lo abbracciò riconoscente e Filippo la baciò ancora.

In mattinata si svegliarono, scavarono quattro buche nel terreno gelato e vi deposero i corpi dei morti.
«Ora siamo rimasti in quattro, proporrei in primavera di dividerci la dote di Isabella e separarci. Ognuno andrà per la propria strada» suggerì Filippo sulle loro tombe.
Robert non poteva ritornare nel Sacro Romano Impero e Filippo doveva abbandonare la signoria dei della Scala.
«Son stanco anch’io di questa vita. Noi potremmo andare verso Mantova, nessuno ci conosce laggiù» disse Robert stringendo Lucilla che annuì.
«Noi verso Milano» dichiarò Filippo guardandola.
Isabella gli sorrise approvando, felice di poter iniziare una nuova vita con il suo amore.

[i]Valpolicella
[ii]Cavallo da donna
[iii]Si trattava di una sorta d’indumento intimo, chiuso da cinghie, che era collegato alle calze di tessuto pesante.

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Giovanna Barbieri nasce a Verona il 15/01/1974 e ivi risiede. Nel 2001 consegue la laurea in Scienze Politiche, indirizzo economico-internazionale. Appassionata di Medioevo, nel 2009 decide di scrivere un romanzo ambientato nella sua valle, La stratega Anno Domini 1164. Nel 2014 inizia a lavorare come editor freelance. ‪
Cangrande paladino dei ghibellini (XIV secolo, ambientato tra Verona e la Valpolicella) è pubblicato a novembre 2015. Amor e patimento raccoglie tre racconti gratuiti a tema medievale-sentimentale.
Nel 2016 pubblica Il sole di Gerusalemme e Il ritorno (rispettivamente secondo e terzo volume della trilogia La stratega Anno Domini 1164). Potete trovare QUI i suoi romanzi.