Il biglietto mi arriva a Laura in ufficio.
Desidero invitarLa ad un matrimonio.
Chiesa di S.Antonio
Corso Italia
Segue la data: è per sabato prossimo, fra due giorni, alle 16. La firma è quella di Giovanna.
Giovanna, nelle ultime settimane ho provato a chiamarla, ma la voce Telecom mi ha avvisata che il numero non è più attivo.
Giovanna, la mia specie di fata, era scomparsa nel nulla. Aveva anche temuto che si fosse ammalata, i suoi annetti li aveva, ma non sapeva come rintracciarla.
E ora l’invito ad un matrimonio.
Ho ricevuto numerosi inviti a matrimoni, ho anche aiutato mia sorella a mettere nelle buste quelli per il suo… Un invito così strano non l’ho mai ricevuto.
Niente nomi degli sposi…
Però andrò. Forse si sposa una nipote, vera, di Giovanna che approfitta dell’occasione per rivedermi. E sapere come mi va la vita.
Anche un po’ tardi per spedire un invito ad un matrimonio.
Quando poco dopo aver letto il biglietto mi squilla il telefono, immagino che sia proprio Giovanna. Forse mi chiama per darmi maggiori indicazioni.
Così rispondo, da scema: — Ciao, Giovanna.
— Non sono Giovanna.
È Aldo, sembra aver perso la solita calma.
— Cosa c’è? — Sono lì lì per chiedere se per caso si sono lasciati, da come è strano.
— Hai un amico che si chiama Gerardo Bombelli?
Pensare… Gerardo, cioè Jerry… E sul campanello al portone c’era Bombelli. — Sì, il compagno di un’amica di vecchia data.
— Non sai chi è Bombelli?
È eccitato davvero. — No. Davvero.
— Prova a pensare.
— Senti, Aldo, ho la testa vuota. Stai male? Sta male Maura? Qualche guaio?
— Bombelli, studio immobiliare, uno dei più antichi e stimati di Genova e Nord Italia. Mi ha telefonato per propormi un lavoro.
Ne ho accennato a Jerry, ma così, en passant…
— Un periodo di prova e poi, se va, una filiale mia. Era uno così importante che non gli avevo neppure inviato il curriculum. Così ho chiesto da chi aveva avuto il mio nominativo. “Ho i miei canali. In questo caso, mio figlio Gerardo che la conosce.” Cavolo, Laura, mi ha chiamato lui in persona.
Lui parla ed io faccio due più due: si spiega la casa da favola e i bei vestiti… Deve aver preso una bella scuffia per Pupa se ha vissuto, mesi e mesi, in subaffitto con lei. Che, in quanto a disordine, Pupa non è seconda a nessuno.
Si è fatto anche le faccende domestiche, una settimana sì e una no!
— Ti ho steso?
— No, no, Aldo. Sono felice per te e per Maura.
Vero, lo sono.
Tutti sono felici. Tranne Clelia, forse.
Anche il biglietto di Giovanna profuma di felicità.

Sabato
Le previsioni l’avevano detto e per una volta ci hanno azzeccato: è una giornata smagliante. Fredda, sì, ma con un cielo terso.
Il mare è ancora più terso del cielo.
Ho lasciato Spiddi(2) in una traversa, all’altezza del Lido, dove ho trovato. C’è più casino del solito, sarà il bel tempo.
Corso Italia è al meglio. Gente che passeggia, che fa footing, che pattina e va in bicicletta.
O se ne sta seduta al sole a godersi l’anticipo di primavera.
La mia mattinata è stata… Non so come dire. Un’emozione che ti prende dentro.
Con ordine.
Il mio sabato mattina è dedicato al sonno(quando non sono di turno alla TEXA): alzarsi senza sveglia, ciondolare per casa, far colazione in pace. La ripresa del lavoro è abbastanza lontana da poterla dimenticare.
Quando uno squillo insistente comincia a trapanarmi il sonno, prima mi copro la testa con il cuscino, poi rassegnata apro un occhio… Tendo una mano e prendo la sveglia (sono stata così scema da mettere la sveglia?). La sveglia non è inserita.
Lo squillo continua.
Telefono.
Acchiappo la cornetta e borbotto un pronto molto poco pronto.
— È da non so quanto che chiamo. Ma non rispondi mai!
Lucy, mia sorella Lucy. Mi frego gli occhi. — Che ore sono?
— Le nove. Perché?
Le nove ed io sono andata a letto alle quattro: girovagando da un localino all’altro il tempo è scivolato via. Ma Lucy lo sa che di sabato dormo fino a tardi. La telefonata può avere soltanto un motivo. — Cosa c’è? Sta male qualcuno?
— No, perché?
— Sono le nove.
— Appunto per questo che ti chiamo. Spicciati.
Ormai rassegnata, mi metto seduta sul letto. — Cosa c’è, Lucy?
— Vestiti. Ho bisogno che mi accompagni.
— Dove? — sentendo il letto che mi chiama. Se mi corico subito forse riprendo il sogno. Doveva essere anche un bel sogno.
— Alle dieci ho l’eco.
— L’eco?
— L’ecografia, il controllo per la bambina. — Perché ormai tutti hanno deciso che finalmente Lucy e Matteo avranno una femmina. Nessuna conferma scientifica del fatto, solo una decisione famigliare. Sarà femmina. — Preferisco che mi accompagni tu. Matteo sta con i bambini. Lo sai che le cose mediche lo fanno star male.
Metto i piedi giù dal letto e comincio a cercare le pantofole. — A che ora è?
— Alle dieci, te l’ho detto.
— Dove?
— Dove vuoi che sia. Dal mio ginecologo. Da Manin. Mi passi a prendere con la macchina e mi accompagni.
— La macchina l’ho venduta ora ho una moto.
— Con la pancia non mi sento di muovermi in moto. Vieni su in moto, la lasci e prendi la mia macchina. Spicciati, perché quando si è in ritardo, sua eminenza ti mette in coda.
Mi sciacquo la faccia, la lavata ai denti è questione di un attimo. Mi infilo nei calzoni di fustagno e nel maglione tolto ieri sera (ha anche una macchia di pizza). Completo il tutto con il trapunto arancio che è stato di Lucy.
Dannata sorella! Ma perché non mi ha avvisata per tempo! Anche soltanto un messaggio sulla segreteria telefonica o un messaggio sul cellulare…
Inutile farsi sangue marcio, perderei tempo.
Zigzago con Spiddi(2) fino a casa di Lucy. Davanti al box di Lucy qualcuno ha posteggiato, incurante del passo carrabile.
Salgo di corsa. Chiameremo un taxi.
Lucy sta finendo di vestirsi e di dare le ultime istruzioni a Matteo. — Oh, brava, Laura! Sei arrivata.
— Spicciati, Lucy, non voglio arrivare tardi.
— Tardi? — Lucy è placida e calma.
— Mi hai detto che è per le dieci, a Manin. Manca già un quarto. Ci arriviamo solo se voliamo.
Lucy si ferma davanti allo specchio dell’ingresso e si riguarda con calma. — Però la gravidanza non mi ha sciupato il viso, vero, Laura?
— Spicciati! Imperativo del verbo spicciarsi, cazzo!
— Non essere volgare davanti ai bambini. — E si sistema meglio la sciarpa.
— I bambini sono di là.
— Questa è qui — e si sfiora la pancetta. — E i due diavoli non sei nemmeno andata a salutarli.
— Viene tardi, Lucy! — Mi giro verso Matteo che ciondolava senza dir nulla. — Diglielo tu, Matteo!
Matteo si schiarisce la voce, sempre lo fa quando è a disagio. E non dice nulla.
— Cosa c’è, Matteo?
— L’appuntamento è per le undici, Laura — mormora Matteo, arrossendo.
Non fosse in avanzato stato di gravidanza, non fosse la mia unica sorella, e moglie di un mio quasi fratello, ecco… La scrollerei fino a farle uscire dalla testa la nebbia che ha al posto del cervello. Esclamo: — Lucy — sperando almeno in un attimo di pentimento.
— Ma lo sai che se non faccio così arrivo tardi! — protesta Lucy.
Infatti, tutta la famiglia sa di questa fissa di Lucy di scrivere anticipati di un’ora gli appuntamenti. Anche Laura lo sa e se Lucy dice le otto tutti sanno che è per le nove, tanto per fare un esempio.
— Comunque, spicciati, che dobbiamo chiamare un taxi. Il tuo box l’hanno chiuso.
— Impossibile! — protesta Lucy e guarda Matteo.
— È una Fiesta rossa? — chiede Matteo.
— Sì.
— La mia nuova. L’ho già portata fuori così non vi potevano chiudere.
In qualche modo, alle dieci e mezza riesco a mettere Lucy in auto. Piazza Manin non è tanto lontana… Ma trovare posto di sabato mattina non sarà facile.
Come leggendomi nel pensiero, Lucy propone la soluzione. — C’è la fermata del bus, se non troviamo altro ti metti lì. Tanto i bus non accostano mai e non dai noia a nessuno.
Infatti, posto niente.
Ma anche il posto (vietato) sulla fermata del bus è tutto pieno. Così facciamo un giro prima di trovare.
Alle undici meno un minuto entriamo ansanti nello studio del ginecologo. Lucy si gira verso di me. — Vedi che il mio sistema degli orari funziona?
Veleggia tranquilla verso la scrivania della segretaria. — Lucia Arnolfini, ho appuntamento per le undici.
La segretaria, una nuova, controlla nelle prenotazioni e scuote il capo. — Mi dispiace, signora Arnolfini, il suo appuntamento era per le dieci.
— Impossibile.
— No, guardi — le indica sul monitor del computer. — Ore 10 signora Arnolfini per ecografia.
— E ora? Ho preso un giorno di permesso a scuola…
— Posso metterla in coda. — Consulta ancora le prenotazioni. — Per le 12 e trenta.
— Non può proprio…
— Il dottore finirebbe alle 12 e trenta, già non sarà felice di fermarsi.
Lucy si gira verso di me. — Cosa faccio? — Poi non attende risposta. — Allora facciamo per le 12 e trenta. Stare qui ad aspettare per più di un’ora non ha senso, usciamo a fare colazione.
— E a telefonare a Matteo — aggiungo io.
— Ma sì, ma lui non si preoccupa, sa che sei con me.
Più tardi, al bar, davanti a cappuccino e focaccia, Lucy borbotta, con la bocca piena: — Non so come è potuto succedere. Sono sempre così precisa.
Anch’io mi sto chiedendo la stessa cosa e riesco ad immaginare una sola possibilità. — Hai preso tu l’appuntamento, Lucy?
— No, mi ha telefonato a casa la sua segretaria per ricordarmi che dovevo fare l’eco.
— Ma hai parlato tu?
— Ma no, la telefonata della segretaria l’ha presa la Rosella. Mi ha scritto un biglietto chiarissimo.
La Rosella è la paziente signora che va qualche ora la settimana a rendere agibile la casa di Lucy.
— Il ginecologo ha telefonato dicendo le dieci, Rosella ha scritto le dieci, tu hai pensato che avesse già tolto l’ora, come fai sempre.
— Ma sapete tutti che se dico le dieci è per le undici!
— Però deve essere andata così…
Lucy alza le spalle. E continua a mangiare tranquilla. Quando è incinta tutti i suoi malanni psicosomatici spariscono: niente colite, niente mal di testa, niente… Neppure le nausee ha. Tutti malanni cominciati con la prima mestruazione, quando ha cominciato ad aver paura di restare incinta. Appena lo è, ovvio che la paura sparisce: questa è la diagnosi di Lamarinetta che di stranezze se ne intende più di uno psicologo professionista.
La guardo mangiare con sano appetito. Marco è chiaramente dimenticato.
La guardo mangiare e tengo d’occhio l’orologio per non rischiare di arrivare tardi una seconda volta. Perché non siamo nel bar più vicino allo studio medico, ma in quello un po’ più in là (secondo Lucy fanno un caffè migliore e anche la focaccia… non c’è paragone!).
Lucy e la gestione degli orari.
E qualcosa comincia a prendere forma. Un dubbio, ma tanto vale la pena di tentare. Quando, ormai più di cinque anni fa, ho deciso di trovarmi lavoro a Genova lasciando Milano (lontana dal mare), avevo come residenza ufficiale la casa di sua sorella Lucy.
Anche se poi ero a Milano o da Pupa.
Ma mi era sembrato meglio, chiedendo lavoro a Genova, dare un indirizzo e un telefono di Genova. Pupa era però fuori discussione, perché era sempre fuori e non aveva segreteria telefonica (costava troppo), mentre da Lucy c’era quasi sempre qualcuno.
— Ti ricordi quando lavoravo a Milano, Lucy, prima della TEXA?
— Un bel po’ di anni.
— Avevano telefonato per dei colloqui, per indicarmi l’ora… — Nel biglietto scritto da Lucy era indicato Carignano per le 9 e Campi per le 10, conoscendone le abitudini io avevo immaginato che le ore giuste fossero le 10 e le 11… L’ho davanti agli occhi, come fosse successo non ieri, ma oggi stesso.
— Sì, mi ricordo che avevi dato il mio telefono.
— Non volevano cellulari.
— Le telefonate le hai prese tu?
— Chi si ricorda?
— Sforzati. — Intanto mi alzo, vado alla cassa a pagare, ritorno al tavolino ed acchiappo la sorella. Non voglio fare tardi di nuovo.
— Come faccio a sforzarmi. Sono anche un po’ in ansia. Per l’eco.
Da come ha divorato la sua focaccia con cipolle dubito che Lucy abbia un filo, anche piccolo, di ansia. Se non la somatizza come fame… Con Lucy tutto può accadere. Arnolfini padre dice che in fondo Lucy è stata il primo tentativo, non tutte le rotelle sono andate al posto giusto…
E sono ormai le 12 e ventinove quando spingo Lucy dentro lo studio medico. A quel punto comincia il vortice eco.
Lucy sdraiata sul lettino, a pancia in su, con il ginecologo che procede all’eco.
— Eccolo!
Piazzata in zona seguo i movimenti sul monitor. Un cosino.
— Bene, bene — continua a ripetere il ginecologo.
— Lo sapevo — gli fa eco Lucy. — Mi sento come con gli altri due.
Aiuto Lucy a rivestirsi. Quel cosino mi ha fatto venire un groppo alla gola. Una pazzesca voglia di fare un figlio.
Mentre entriamo in macchina, e neppure abbiamo preso la multa, Lucy si blocca. — Mi ricordo. Quel pomeriggio ero a scuola, le telefonate le ha prese la baby-sitter. Ti ho dato direttamente il biglietto.
Quindi senza effettuare la classica modifica “Lucy”, ma io, conoscendo le abitudini di mia sorella, ho automaticamente aggiunto un’ora per compensare quella che Lucy doveva aver tolto.
Così sono arrivata tardi alla società di Carignano. E sono approdata alla TEXA. Umberto. Garavini. Maura ed Aldo. Pupa.
Il caso.
Arriviamo a casa di Lucy che sono ormai quasi le due. Con Matteo in fibrillazione (ansia per il bimbo futuro e scatole piene per i due diavoli pupastri già confezionati).
Non posso mica lasciarli soli! In più, se non me lo sono sognato, cosino era una cosina… Diventerò zia Laura di una piccola Laura (sperando che non sia sfigata come zia).
Metto un po’ (un bel po’) d’acqua in pentola, butto gli spaghetti (abbondanti) e mi esibisco nei miei speciali spaghetti olio aglio e peperoncino.
Mentre, alle tre passate, sto finendo di rendere decente la cucina, mi ricordo che devo andare al matrimonio. Più che una pettinata e un po’ di trucco non ci esce.
Ravatto nei cassetti di Lucy alla caccia di qualcosa di pulito (il mio maglione, già sporco, si è schizzato scolando la pasta e poi friggendo milanesi e patatine).
— Cosa ti serve? — chiede Matteo.
— Fra nemmeno un’ora ho un matrimonio, elegante.
— Spetta. — Apre la sua speciale anta dell’armadio e ne toglie una scatola. — L’avevo comprato per Lucy, ma è lievitata.
Apro la scatola, di solito Matteo regala maglioncini blu, non il massimo per un matrimonio elegante, ma almeno sarà pulito, ma a caval donato non si guarda in bocca.
Sorpresa. Mentre Matteo borbotta: — Per una volta che avevo tentato qualcosa di diverso dal solito, ha messo pancia.
Bella camicia, candida e con pizzi pirateschi a cascata.
— Dovrebbe starti.
Eh, sì che mi sta, lo capisco a occhio. Pesco anche un paio di pantaloni di velluto nero. Continuo a ravattare da Lucy fino a ritrovare quel cinturone nero che abbiamo comprato insieme. Forse è un insieme non adatto ad un matrimonio ma fa sensazione.
Il diavolo grande ha una passione per il gel: lo uso senza parsimonia per spararmi i capelli.

Sabato pomeriggio, sarà una cerimonia elegante… Dannazione, deve essere una cerimonia ancora più elegante ed importante di quanto avevo previsto: arrivando verso Boccadasse mi accorgo che l’accesso a Piazzale Firpo è transennata.
I miei pantaloni di velluto nero e camicia alla pirata saranno adatti?
Ma sì! Chi vuole mi guarda e chi non vuole guarda di là! Io mi piaccio.
Avanzo decisa verso la zona transennata. Furgoni, cavi, luci… Sembra di essere precipitati in un set.
È un set.
Gente elegantissima sta uscendo dalla chiesa ma attorno si affaccendano uomini e donne in jeans e maglioni. Si sta rappresentando un matrimonio: escono gli sposi e subito dopo gli invitati.
Giovanna è lì. Elegantissima. L’emblema della madre dello sposo. Il cappello con l’ala piccola e rialzata non ne nasconde il viso dai lineamenti classici. Da come si spostano gli attori capisco che è proprio lei la protagonista della rappresentazione. Dimostra parecchi anni in meno.
È uno spot. Pubblicità di cioccolatini. Giovanna, apre la borsetta, perfetta, ci si aspetta che prenda il fazzoletto, invece compare un cioccolatino, lei lo scarta. Lo guarda, socchiude gli occhi con espressione beata e con un gesto languido comincia a mangiarlo.
Qualcuno grida: — Buona!
Giovanna toglie il cappello, mi ha visto, si avvicina e dice ad un tecnico di farmi passare.
Ci abbracciamo.
— Ti ho cercata — le dico.
— Ho cambiato vita. Anch’io ti ho cercata…
— Ho cambiato casa.
— Ti piace il nostro spot? “Il momento più dolce”.
Rido e poi commento. — Perfetto. E tu sei bellissima.
— Madre della sposa. — Mi posa una mano sul braccio. — Vieni voglio farti conoscere una persona. Sai quel numero che mi ha dato? Ho chiamato e così da cosa nasce cosa… Secondo lui so recitare. Ha trovato i finanziamenti per un piccolo film indipendente e ci sarà una parte anche per me. — Mi guarda con gli occhi brillanti. — Il sogno della mia vita, Laura. E devo ringraziare te.
Un numero, le ho dato un numero di telefono? Ma sì, il cliente di Matteo.
Giovanna continua a raccontare. — Ho messo Rodolfo alle strette. Anche se ormai sono una vecchietta, voglio vivere la mia vita. Sono stanca di vegetare nella sua ombra. — Si sfila un guanto e mi mostra un anello. — È stato tutto molto romantico, adatto alla nostra età. Anello e domanda di matrimonio. Gli ho detto che lo lasciavo e si è deciso: la tecnica che mi aveva consigliato mia nonna “nessun uomo sopporta di essere lasciato”.
— E tu?
— Ho accettato l’anello, per il matrimonio ho preso tempo. Che aspetti! Questa mia nuova vita voglio godermela.
Rido.
— Vieni! — Mi guida nella zona dove c’è più confusione.
Una faccia, mi sembra di conoscerla…
Avanziamo. Poi, accidenti, non capisco più niente.
Al centro del ciclone c’è proprio lui: bell’omo.
L’uomo del Colombo. HÈs rather kitsch but hÈs really worth a kiss!
Come quel giorno ha giaccone e pantaloni di fustagno stazzonati modello buttero. Camicia aperta sul collo. Ma il meglio è il viso. Aperto, deciso.
Si allontana dal viso i capelli un po’ lunghi…
— Chi è?
— Il regista, Laura. Mi hai dato il suo telefono. Non lo conoscevi?
Scuoto il capo. — No.
— Vieni, te lo presento.
— No…
Invece di convincermi mi spinge e gli cado quasi fra le braccia.
La sua stretta me la ricordo e anche l’espressione dei suoi occhi. È stupito. — Bella scema?
— Volevo presentarti una mia amica… — Giovanna ha cominciato a parlare, ma lui non deve averla sentita perché ripete: — Bella scema, dove eri finita?
— Vi conoscete?
È lui a riprendersi per primo. — Al Colombo. Piangeva e continuava a ripetere bella scema. Scema non so, ma bella davvero. E così abbiamo montato una sceneggiata. — Alza un braccio, forse per attirare l’attenzione di qualcuno.
E dopo un attimo, accanto a noi, c’è lui l’uomo della sorveglianza. — E così l’hai ritrovata? — Sono le sue prima parole.

Domenica
Un grande sabato. Con Giovanna ci siamo raccontate di tutto: sembra strano che abbia quegli anni! Ha la voglia di divertirsi di una ventenne.
E con Pietro ho passato una gran serata.
Pietro? Lui. Bell’omo. HÈs rather kitsch but hÈs really worth a kiss!
Kiss ricevuti e dati, scambiati. Ma andiamo per ordine.
Mi hanno trascinato a cena con loro, subito dopo aver concluso le riprese. Tutti insieme in trattoria, attori e tecnici, lì a Boccadasse a mangiar pesce. Più la sottoscritta, adottata senza problemi dalla tribù.
Arrivati in trattoria stavo per sedermi accanto a Giovanna, ma lui mi ha preso sottobraccio: — Non mi scappi più, mia bella scema!
E così ci siamo messi vicini.
— Che poi non so neppure come ti chiami.
— Laura.
— Bello. Potevo mica presentarti agli amici come “bella scema”.
— Io devo presentarti come “bell’omo”?
— Pietro. Marcenaro.
— Arnolfini.
Abbiamo parlato del lavoro appena finito e di quello da cominciare.
Poi il gruppo si è sfaldato. Giovanna è passata a salutarmi e mi ha detto che mi chiamerà.
Io stavo per andar via, ma Pietro mi ha tenuto un braccio sulle spalle, rilassato e contento. Come la sottoscritta.
Ormai quasi tutti erano andati via.
— Dovrò andare…
— Ti accompagno.
— Ho la moto in una traversa davanti al Lido.
— Ti accompagno alla moto.
Neppure io avevo voglia che la serata finisse, avessi potuto l’avrei fatta continuare per sempre. Abbiamo camminato. Corso Italia era ormai deserta, in fondo era ancora inverno. Ma il suo braccio attorno alle mie spalle mi teneva caldo.
Siamo arrivati alla moto.
— Dove vai?
— In centro.
— Se hai un casco di scorta, mi dai un passaggio fino a Piazza Dante?
— Sì, certo. — Gli ho porto il casco. — Dove abiti?
— Da Piazza Dante, faccio Via Fieschi in un attimo. Poi ci sono.
— Allora ti do uno strappo. Non ti dà noia che guidi io?
Si era messo a ridacchiare. — Sai guidare?
Avevo fatto segno di sì.
Ero montata in sella, avevo indossato il casco, lui era salito dietro di me.
Dannazione! Era una situazione erotica e bollente. Lo era anche per lui, ne avevo le prove tangibili. Non ero la sola a trovare eccitante quella posizione.
La sequenza di eventi che ci ha portati a letto non la ricordo nei dettagli. È finito che ci è venuto da baciarci, un bacio appassionato e poi da cosa è nata cosa e la sua casa era più vicina della mia.
Una gran nottata.

Ora sono qui, nel suo letto, ancora intrecciata a lui e non ho nessuna voglia di disintrecciarmi.
So che se non è lui quellogiustoperme allora quellogiustoperme non esiste. I nostri corpi stanno bene insieme, le nostre teste anche.
Lo sento muoversi.
— Ciao, bella scema.
— Ciao, bell’omo.
Si stira, mi stiro. Basta quella minima frizione dei nostri corpi per eccitarci di nuovo.

Abbiamo di nuovo fatto scintille, ora siamo stanchi e soddisfatti.
— Sai che ti ho cercato? — La sua voce ha quel tono pigro e soddisfatto che gli sta così bene.
— E quando?
— Ho finito in fretta e furia quello che dovevo fare e mi sono precipitato a Parigi, veramente in quel mortorio di charme.
— Quando?
Si ferma un po’ a pensare. — Mercoledì. Sì, mercoledì.
— Ero già andata via.
Ride. — Che cavolo! Lo so, altrimenti ti avrei trovata, mia bella scema. Ho corrotto l’impiegato e ho saputo il tuo telefono. Ho provato a chiamarti ma non c’eri mai.
Le chiamate senza messaggio.
— Mica potevo lasciarti un messaggio, che cavolo! E cosa ti dicevo? Ciao, mia bella scema? Il mio nome non ti poteva dire niente.
— Potevi dire bell’omo.
— E che ne sapevo di averti stesa con un’occhiata? Avremmo risparmiato un bel po’ di tempo.
— Eh, sì! — esito. — Ma forse no, non ero pronta per una nuova storia. — Non aggiungo che non avrei sistemato i casini in tante vite: Lucy e Matteo, Maura ed Aldo, Pulcra e Jerry, Giovanna e (forse?) Rodolfo… E perché non Clelia, Umberto, Tom… Chiaro, sistemato i casini dopo averli incasinati al massimo.
Mi molla un tenero scapaccione sul culetto. — Oh, mio bel culetto della mia bella scema… Non una nuova storia, mia bella scema. La nostra storia: bella scema e bell’omo. Le due metà della mela. — Esita ancora: — Hai uno?
Vero: abbiamo parlato di tutto ma non di eventuali legami.
— Libera. E tu?
— Io no.
Mi sgonfio, come un palloncino ferito. Che cavolo, dopo il suo bel pistolotto di poco fa sulla “nostra storia” questa mica me l’aspettavo. Dire omini è dire traditori ed infidi? No, qualcuno sì, non tutti: comunque la mia dose l’ho avuta alla grande.
— Eh, sì… — mesto. — Sono impegnato con una. — Mi mette le mani ai fianchi e mi sposta sopra di sé. — Una bella scema, che piange negli aeroporti e si tira i capelli. E va in moto. E ha un culetto mucho eccitante. Anche il resto lo è.
— Stronzo! — Gli do una pacca e lui rende e siamo di nuovo aggrappati in un a corpo a corpo.
— Calma, calma… Vogliamo che uno dei due resti vedovo prima di cominciare? Ora ci mettiamo calmi e passiamo alla fase progetti. Ti ho in testa da quando ti ho vista e così non è troppo presto: sapevo che eri quella giusta.
Progetti? Ripenso alle parole di mia madre. Sì, un progetto è un rischio, ma quando ti senti così la speranza matematica è molto alta, direi incoraggiante.
— Non sono per case separate. O io vengo da te o tu da me o ne cerchiamo un’altra.
Della sua ho visto poco, ma è grande e soprattutto è tanto il mare che si vede dalle finestre. Per un buffo destino del caso, è ad un tiro di schioppo da Carignano. Sporgendosi dal balcone si vedrebbe l’edificio dove ha sede la società che avevo preferito alla TEXA.
Da quell’errore di orario è cominciato tutto.
E se la mia casa, che ho smesso di sistemare, la lasciassi a Maura ed Aldo? È più loro che mia…
— Da te.

Abbiamo dormito per un po’, poi ci siamo alzati a far colazione e mi ha fatto vedere la casa. Mi va… la sento già mia.
Squilla un cellulare. Sto un po’, come una scema, prima di capire che è il mio, dimenticato acceso nella borsa.
È Tom. — Ciao, Laura. Verrei a Genova oggi pomeriggio, sei libera?
Pietro mi sta guardando.
— Occupata, Tom. Penso che diventi una cosa stabile.
Pietro fa segno di sì e sorride e si china e mi bacia una spalla (dice che è appetitosa).
E la tentazione di recitare da dio mi prende la mano ancora una volta. — Senti, Tom. Ho un’amica, rimasta sola da un po’, una brutta storia. Ti do il suo telefono.
— Ma sì!
E gli détto quello di Clelia Samperi.
Riattacco.
Mia madre ha ragione: le nostre vite sono tutte intrecciate… E ognuno di noi recita da deus ex machina per quelle degli altri.

FINE