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Elizabeth Grey ha costruito il suo racconto intorno a una statua di grande fascino: “Il ratto di Proserpina”, opera dello scultore Gian Lorenzo Bernini. L’autrice immagina i pensieri nascosti in quella pietra candida e nel cuore dell’artista che le ha dato vita.

Il racconto si è classificato al terzo posto nel concorso “Amore a modo mio”, indetto dal Blog.

Mentre osservo il tuo volto trasfigurato dalla paura, sento le mie dita affondare nella carne bianca, quasi volessero trattenere un sogno troppo a lungo inseguito, un sogno che neppure sapevo di poter un giorno accarezzare.
Ti ho attesa per così tanto che non capisco se si tratti di un’illusione o se tu sia invece reale. Forse per questo non riesco ad allentare la presa. Il tuo corpo racchiude in sé tutto ciò che ho sempre desiderato. Non posso lasciarti fuggire, non posso, devi essere mia.
Ai nostri piedi l’erba appena sbocciata si confonde con una massa scomposta di viole e candidi gigli, sfuggiti dalle tue mani tremanti. Il tuo incarnato è pallido e smunto, dai tuoi occhi velati una lacrima è appena sgorgata quasi volesse implorarmi di desistere da questa insana follia.
Eppure niente di tutto ciò può placare la sete che ho di te. La mia mente è indebolita, annebbiata dalla bramosia, ti voglio con così tanto ardore che le mie membra sembrano agire per proprio conto, rifuggendo le briglie che la ragione vorrebbe impormi.
Chi sei tu? Quale incantesimo hai gettato sulla mia volontà ormai in frantumi? Possibile tu sia solo una donna? Forse una Ninfa? Probabilmente una maga, un’incantatrice, una seduttrice. Chiunque tu sia non ha più importanza. La mia solitudine doveva avere fine prima o dopo. Affronterò ogni  avversità, sfiderò perfino l’ira di Giove se ciò servirà a trattenerti al mio fianco. Il tempo che verrà basterà a placare la miseria passata, o perfino l’eternità scivolerà indolente fra le mie dita come la vita fuggevole fa con i comuni mortali? La tua presenza riuscirà a lenire le mie pene?
Domande, domande e ancora domande. Troppe. Ora è tempo di risposte. Ora è tempo di condurti come mia sposa nel regno dei morti, nel mio regno che presto diventerà anche il tuo. Ti legherò a me con un filo indissolubile, ti farò inghiottire i frutti proibiti e a quel punto non potrai più lasciarmi, mai più.
Che dico? Nessuno può lasciarmi! Nessuno!
Io sono Ade, il temibile dio degli Inferi, implacabile e inflessibile, oscuro e violento, custode dei giuramenti, giudice degli spergiuri, io sono il serpente strisciante, a me si sacrificano arieti, pecore e tori neri come la pece, il mio nome è ciò che incute maggior terrore in tutti coloro che temono la morte. Non puoi sfuggirmi, non puoi. Come fai a non capirlo? Inutili le lacrime che inondano i tuoi occhi, inutile la tua riottosità e questa assurda smania di sottrarti alle mie attenzioni. Più che fuggire, dovresti sentirti ricolma d’orgoglio. Perché allora ti opponi? Chi sei tu per osare tanto? Sei solo una donna, creta fra le mie mani, strumento per il mio diletto, calore per le mie fredde notti eterne. Tu non hai diritti se non quello di restare al mio fianco e condividere con me uno scettro che pesa più di una condanna perpetua. Tu mi ubbidirai e ti piegherai docile al mio volere, riderai quando lo desidererò, canterai per me come facevi su questi campi verdeggianti, ballerai al suono della mia voce e più di tutto mi amerai. Mi amerai…
Tu mi amerai. Oh dolce essere. Perdona la mia irruenza, perdona il mio ardore. Plutone, non Ade, è il mio nome. Principe dell’Averno, signore dell’abbondanza e della ricchezza, lato oscuro ma giusto della triade che governa il mare, il cielo e la terra. Ciò che è mio apparterrà a te. Il tuo amore è tutto ciò che desidero in cambio. Non sei solo una donna, sei molto di più. Tu sei giunta per plasmare il mio mondo, per condurmi con mano paziente oltre la miseria in cui altri mi hanno fatto precipitare, tu mi farai rinascere e rinascerai con me. D’ora in poi ti chiamerai Persefone, colei che ama l’oscurità, sarai mia sposa e mia amante, mia compagna e mia fida consigliera. Non sarai più una fanciulla, ma una donna e infine una madre, gli affetti che hai ora più cari lasceranno il posto all’amore per il tuo sposo.

«L’amore per il tuo sposo…» mormorò il più anziano dei due uomini, avvicinandosi sempre più.
Il giovane, che camminava al suo fianco, si voltò per osservare il suo maestro. «Come dite?»
L’altro si strinse nelle spalle e scosse il capo. Io? Ti sbagli. Non ho proferito parola alcuna…»
«Ah, ecco.» Il discepolo portò nuovamente l’attenzione alla scultura che avevano finalmente raggiunto. «Be’, come stavo dicendo, fra le sue opere giovanili, questa è la mia prediletta. Ut pictura poesis, non c’è che dire. Pur da semplice osservatore, sono attratto irrimediabilmente nell’orbita dei personaggi, è come se, anche solo guardando, vivessi il momento culminante dell’azione insieme a loro. Chissà se sarò mai capace di tanta perfezione, di tanto naturalismo estremo, di un tale virtuosismo…»
«Mm…» annuì il maestro, a cui quella voce ammirata parve giungere da molto lontano.
«L’ho studiata a lungo, sa?» continuò il giovane, accalorandosi sempre più. «È straordinario come momenti che da un punto di vista temporale si succedono tra loro siano racchiusi tutti insieme in un’unica opera, sì che basta osservarla da differenti punti di vista per ottenere impressioni completamente diverse, quasi contrastanti. Da sinistra si è testimoni dell’atto del rapimento, con la presa al volo a passo potente e spedito. Di fronte si coglie invece un’immagine statica, il trionfo di Plutone che resta fermo mentre regge fra le possenti braccia il suo ambito trofeo. Da destra, infine, ciò che colpisce è la profondità dei sentimenti. Prima fra tutti vi è la sofferenza di Proserpina, le sue lacrime che scivolano lungo il volto dolorante, il braccio che teso verso il cielo sembra intonare una preghiera a Giove suo padre, la mano destra che preme sulla guancia del suo rapitore in un ultimo inutile gesto di rifiuto, il vento che ne sconvolge la chioma così come l’animo. Poi la passionalità del dio che, con i muscoli tesi per lo sforzo, spinge le dita a fondo nella morbida carne dopo che la sua irruenza del tutto incontrollabile ha lacerato le vesti della Ninfa. E ultima, ma non meno importante, la devozione di Cerbero, il cane tricefalo guardiano infernale, che vegliando sulle sorti del suo padrone, abbaia all’aria e volge le tre teste in ogni direzione, quasi volesse tenere lontano chiunque possa opporsi al compimento del volere divino. Impressionante, davvero superbo. Maestro Bernini, vi sentite bene?»
Ridestandosi da un torpore simile al sonno, il più anziano scosse ancora una volta il capo. «Come dici?»
Il giovane corrugò la fronte e ripeté la domanda. «Vi ho chiesto se vi sentite bene. Sembrate piuttosto scosso.»
«Sì, non temere, sto bene» lo rassicurò l’altro, accennando un sorriso stanco.
Non del tutto convinto, l’apprendista abbassò la voce fino a che parve un sussurro. «Avete l’aria di aver visto un fantasma» azzardò, incapace di contenere la sorpresa.
«Un fantasma, non essere ridicolo» sbuffò il maestro, minimizzando con un cenno secco della mano. La sua mente, però, formulò una risposta completamente diversa.
“Oh mio giovane discepolo, forse un tempo capirai anche tu quale legame si crea mentre i frammenti di roccia cadono a terra, liberando un’anima troppo a lungo imprigionata, un’anima che chiede solo di spiegare il volo. È un legame che non si affievolisce mai, indissolubile, che mi costringe ogni volta a tornare in questa villa cardinalizia, come se le creature che un tempo ho inciso mi chiamassero, invocando il mio nome, talvolta con voce tonante, altre volte con sussurri sofferti.
Non è il fruscio di un fantasma ciò che udii, bensì i pensieri che questi corpi racchiudono. Sono pietre che ancora oggi mi parlano, inermi solo a un occhio inesperto, mute per chi non sa come prestare ascolto. Racchiudono una forza e una vitalità stupefacenti che restano inespresse solo finché una mano amorevole non dona loro la voce. Una mano come la mia. Loro lo sanno, per questo mi chiamano, per questo ogni volta si raccontano a me, narrandomi dal principio la storia che la mia opera da anni tenta di descrivere.
Oh, mio caro Plutone, sento i tuoi tormenti come se provenissero dalle tue labbra di marmo. Scolpendo il tuo corpo possente ho conosciuto la passione che ha guidato i tuoi gesti, ho condiviso la tua bramosia per questa Ninfa, ho toccato con mano la solitudine che la tua corona ti impone, l’astio dell’uomo che pesa sul tuo capo e ti induce a calcare la terra invisibile a tutti. Chi sono io per biasimare la violenza del tuo gesto? Ti compresi più di chiunque altro. Questo è il motivo per cui resi il tuo aspetto tanto regale. Darti forma è stato una sfida e un privilegio al contempo. E ora non posso far altro che osservarti orgoglioso, come se la tua maestosità fosse un po’ anche merito mio e non solo frutto della tua divinità.
E tu, mia dolce Proserpina? Non temere, sono qui anche per te, mia amata. Mi chiedi di guardarti, di compatire la tua sorte, temendo che i fiori che ti circondano possano distogliermi da te. Ti sbagli, nulla potrebbe competere con la tua bellezza. Allora dimmi, sono pronto ad ascoltarti ancora una volta come già feci in principio quando balzasti fuori dalla pietra informe. Dunque non restare muta di fronte a chi ti ha creato con tanto amore, parlami, te ne prego, narrami della tua disperazione ancora una volta.”

Chi mi chiama? Di chi è questa voce che pronuncia il mio nome con tanto affetto? Sembra un accento sconosciuto, eppure familiare al tempo stesso. Non distrarmi, voce gentile, in questo triste momento ho ben altri pensieri che mi affliggono.
Atterrita chiamo le mie compagne, ma nessuna pare potermi udire. La mia veste è lacera, i fiori distrutti, i petali calpestati, il mio cuore in frantumi. Quale sventura si è riversata su di me? Non capisco. Perché io?
Vagavo lungo le rive del lago Pergo, cogliendo fiori nella radura e ascoltando rapita il canto dei cigni. Tutto ciò che chiedevo era di correre e cantare su questi prati in compagnia delle mie giovani amiche e di qualche farfalla dalle ali variopinte, invece ciò che mi attende è una notte perpetua, fredda e cupa.
So chi sei, temibile essere. Sei bello e vigoroso, ma il tuo sguardo è triste così come lo è la sorte di chi, suo malgrado, incrocia il tuo cammino. Il tuo nome è Ade, sei il dio dei morti, il castigatore di tutti i comuni mortali. Ti avventi sulle loro vite, strappandoli ai loro affetti e derubandoli di ogni speranza futura. Sei privo di cuore, sordo ai lamenti e alle preghiere e, da par tuo sei apparso, afferrandomi con violenza, strappandomi la tunica, riversando a terra senza alcun rispetto i fiori che avevo raccolto e calpestandoli poi con passo pesante.
È tutto così ingiusto che le lacrime sgorgano dai miei occhi senza che riesca a trattenerle. Davvero ti illudi che un giorno mi piegherò al tuo volere? Non sono debole come credi, giovane sì, ma non così volubile da arrendermi senza lottare. Non sono una semplice donna, bensì una Ninfa, figlia di Giove e di Cerere. Questo rapimento non resterà impunito.
So già cosa avverrà. Non sei il solo a scorgere ciò che il futuro ha in serbo per noi. Se prima il sole splendeva alto nel cielo, se i prati erano fioriti, gli alberi carichi di frutti e i campi ricchi di verdure e frumento, d’ora in poi tutto muterà e sul mondo calerà un inverno perpetuo. I fiori appassiranno, i semi non verranno più sparsi e il frumento e i frutti smetteranno di crescere.
Sofferenza, ecco cosa causerà questo tuo gesto malsano. A me, a chi mi ama e, con noi, a tutti gli uomini mortali. Non lo vedi? Lasciami andare ora che siamo ancora in tempo, te ne prego. Non sarò mai tua, non completamente, come fai a non capirlo? Non è amore questo.

Ti sbagli, mia dolce Ninfa, l’amore ha molte facce, alcune limpide e luminose, altre oscure e dalle sfumature ambigue, ma si tratta pur sempre di amore.
Questa unione è voluta da Venere stessa, non lo capisci? La freccia di suo figlio mi brucia nel petto, ora l’avverto con lucida chiarezza, insieme a un dolore dolce e amaro al tempo stesso. Non l’ho visto mentre tendeva l’arco, né mentre scoccava il dardo, eppure ne riconosco il tocco, ne ravviso la forza a cui nemmeno un dio può opporsi.
Perché mai dovrei oppormi io, dunque? Perché dovresti tu?
Perfino la sofferenza di cui parli avrà una fine. La terra tornerà a distribuire generosa i suoi frutti e l’erba crescerà dove il gelo aveva portato la morte. Tuo padre comprenderà, perfino tua madre si piegherà.
Il futuro ci sorride, come fai a non vederlo? La tua presenza cambierà tutto. Insieme governeremo il regno che sotto i nostri piedi si stende all’infinito, insieme dispenseremo premi e castighi fino all’ultimo dei mortali, la tua benevolenza renderà pietoso un cuore che la solitudine aveva reso implacabile. Col tempo il nostro legame diventerà indissolubile e, se pure ti allontanerai, sarai tu stessa a voler tornare da me, ora lo so. I frutti dell’Ade allora avranno il solo compito di avvalorare ciò che il sentimento da solo porterà: dapprima rispetto, poi amicizia, infine una devozione sempre più appassionata.
Il mio cuore, tuttavia, non ha bisogno di attendere, già palpita con impazienza e sembra voler balzare fuori dal petto per unirsi al tuo. Lasciamo fare a Cupido e alle sue sapienti frecce. Mi dispiace solo che non sia stata colpita anche tu, perché allora sarebbe stato tutto più semplice. Ma nulla nella mia sorte è agevole, dunque di cosa mi sorprendo? Avrò tutto il tempo che l’eternità racchiude per conquistarti.
Questi due mortali che ora ci osservano siano testimoni della determinazione che guida le mie gesta. Ti rapisco per possederti nel corpo e nell’animo, per farti mia ora e per sempre. Guardate, quindi, come il mio fato si compie. L’amore trionferà su tutto il resto.

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Elizabeth Grey ha sempre amato il mondo della narrativa, fin dai tempi delle scuole, prima come semplice lettrice, poi, piano piano, nella veste sempre più consapevole di autrice. I suoi primi tentativi risalgono all’età adolescenziale, quando iniziò a scrivere un paio di romanzi fantastici che, tuttavia, vennero abbandonati in corso d’opera e mai terminati. Risucchiata dagli impegni scolastici prima e lavorativi poi, non ha più pensato a coltivare questa passione finché, trovatasi improvvisamente senza lavoro, ha deciso di approfittare di un avvenimento sfavorevole per trasformarlo in una vera e propria opportunità. Scrivere l’ha aiutata a superare un momento difficile e, nello stesso tempo, a riscoprire un mondo mai davvero dimenticato. 30 days to love è il suo primo romanzo ed è stato autopubblicato su Amazon nel marzo 2015. The right man – La brace sotto la cenere è il suo secondo lavoro, autopubblicato nel gennaio 2016, anch’esso appartenente al genere romance contemporaneo e, come il primo, ambientato a New York, la sua città natale. La partecipazione al concorso “Amore a modo mio” indetto dal blog “Babette Brown legge per voi” è stata la sua prima esperienza in veste di autrice di un racconto. Il racconto che trovate anche in questa nuova iniziativa benefica.

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