Il termine resilienza deriva dal latino resalio, ovvero l’iterativo di salio che significa saltare. Si tratta di un verbo correlato all’immagine di risalire sulla barca rovesciata per salvarsi. Nel tempo, l’aggettivo resiliens ha enucleato sia il rimbalzare di un oggetto, sia la peculiarità di un corpo di introiettare l’energia di un colpo contraendosi e riprendendo la forma originaria. Negli ultimi anni la parola resilienza è stata inserita in diversi settori di studio: in fisica indica la capacità di un materiale di assorbire energia ammortizzando l’urto se subisce deformazione elastica. In ecologia, significa la velocità mediante cui un sistema ecologico, oggetto di perturbazione, riacquista il suo stato primordiale. In biologia, resilienza riconduce alla competenza di autoproteggersi in seguito a un deterioramento. Nella tecnologia dei materiali, si concretizza nella resistenza a frattura dinamica e al ritorno alla sua forma. Negli anni Ottanta, la resilienza venne usata da A. Solnit ed E. Werner, per indicare l’abilità di un individuo ferito, che ha vissuto un trauma o un danno, un dolore, di cui detiene il ricordo, di riprendere in mano la propria vita reagendo positivamente. Negli ambiti sociologico e psicologico, la resilienza rappresenta la capacità di adattamento per riacquistare serenità ed equilibrio e riprogettare il proprio percorso di vita dopo episodi traumatici. Quindi la resilienza è il riuscire ad adattarsi a situazioni difficili, a problemi complessi, potenziando le risorse interne intrapsichiche e quelle esterne ambientali e affettive. Pertanto un evento traumatico non può precludere a un essere umano di poter continuare a vivere, egli deve essere in grado di reagire positivamente e ripartire da quanto è in suo possesso in termini di risorse fisiche e interiori. La resilienza presuppone di morire in senso astratto inizialmente, per poi affrontare le prove, superarle e uscirne rinforzati.


Gli studi sulla resilienza

Gli studi sulla resilienza sono complessi. Una studiosa che ha provato a superare i limiti anche oggettivi di indagine, è la dott.ssa Ruth Feldman, ricercatrice presso il Centro Interdisciplinare di Herzliya, in Israele, e presso lo Yale Child Study Center, dell’Università di Yale. Ella si occupa di resilienza attraverso un approccio integrato tra prospettive neuroscientifiche, filosofiche, cliniche per lo studio dello sviluppo umano. La dott.ssa afferma l’importanza delle relazioni precoci nello sviluppo psicobiologico dell’essere umano e ritiene che la resilienza sia probabilmente il fine ultimo della maturità umana e che sia il più importante obiettivo della scienza della prevenzione. Gli individui che dimostrano coraggio, fiducia e resistenza nel portare avanti percorsi positivi in situazioni complicate, instaurano migliori relazioni a livello personale e sociale ed esprimono empatia e compassione per gli altri.
La ricercatrice Feldman propone un modello complesso, non improntato sulla neurobiologia della paura né sul perseguimento della felicità, quanto piuttosto sulla neurobiologia dell’affiliazione e propone una concettualizzazione bio-comportamentale evolutiva che tiene in considerazione lo sviluppo psichico. Il modello definisce cosa davvero è la resilienza e può essere riassunto attraverso i seguenti principi: la resilienza implica la plasticità, pertanto meccanismi che promuovono un flessibile adattamento a condizioni mutabili, un uso delle disposizioni contestuali al servizio della crescita personale, la capacità di perseverare verso obiettivi a lungo termine mediati dalla possibilità di mutare e ricalibrare. La resilienza è integrativa e regolatoria: la regolamentazione promuove l’integrazione flessibile degli elementi del sistema in un insieme funzionale, che modella il sé, l’individualità e il benessere, attraverso la formazione di nuove configurazioni, specifiche per persona, per diade e per cultura. Molte ricerche sullo sviluppo hanno posto al centro dell’indagine il costrutto della “regolamentazione”. La resilienza è “time-based”: la temporalità è centrale non solo nell’evoluzione e nel percorso dall’infanzia alla vita adulta, ma anche nelle esperienze sociali reali. La velocità di tali incontri consente la formazione di nuovi paradigmi da unità pre-esistenti. La resilienza è sociale: la socialità è alla base della sopravvivenza e dell’adattamento, e le specie che sanno usare meglio le dinamiche sociali di azione coordinata, hanno un enorme vantaggio al fine della sopravvivenza. La resilienza implica il significato: le varie caratteristiche sono in parte condivise con altre specie, ma è prettamente umano il bisogno di dare un senso all’esperienza traumatica. Nonostante anni di ricerca, non è stata ancora formulata una prospettiva scientifica globale sulla resilienza, però in sintesi possiamo dire che non si nasce resilienti, ma lo si diventa in funzione di come siamo stati cresciuti dall’ambiente. Sarebbe importante studiare la resilienza attraverso la valutazione nel tempo, tramite studi longitudinali dall’infanzia all’età adulta, di marcatori biologici, comportamentali e sociali specifici per età che conducano un soggetto verso una via più resiliente, studi che in genere sono molto difficili e lunghi e che però Ruth Feldman ed il suo gruppo di ricerca hanno coraggiosamente promosso. Le ricerche empiriche contemporanee sulla resilienza si accentrano soprattutto sulla neurobiologia della regolazione dello stress e della paura o, in alternativa, su evidenze clinico/epidemiologiche conseguenti al trauma. In entrambi i casi, la resilienza è considerata come “assenza di sintomi” o “mantenimento della salute mentale” a seguito di gravi eventi o traumi. Per alcuni psicoanalisti post freudiani, quali Sullivan, Fromm e Erickson, la resilienza va analizzata in funzione delle esperienze e della crescita personali, essi però non hanno contemplato le evidenze neurobiologiche.  Nel tempo non è stato ideato un modello atto a spiegare la resilienza dell’essere umano che includesse sia l’importanza della realtà soggettiva e delle funzioni umane superiori che i fattori neuroevolutivi e neuroscientifici. Questo perché le indagini neurobiologiche sui disturbi psichici hanno concentrato l’attenzione sulla neurobiologia della paura, dando così origine ad una visione parcellizzata e riduttiva della resilienza esclusivamente in termini di “risposta alla paura”. Nelle ricerche sulla resilienza manca la focalizzazione sui processi di sviluppo psichico, nonostante i modelli tengano conto che il Sé è naturalmente dinamico ed evolutivo. Il concetto di resilienza ricorda la forza d’animo denominata da Platone «thymos» cioè animo, coraggio, quale forza invincibile atta a rendere ogni anima imbattibile e resistente a tutte le avversità. La resilienza annovera inoltre la capacità di superare i momenti difficili, non solo di resistervi; dunque mi riferisco all’abilità di apprendere dall’esperienza faticosa una lezione di vita e di rinascere. Questo è realizzabile anche grazie ad aiuti mirati. La possibilità di essere resilienti è relata non solo al patrimonio genetico, ma anche all’ambiente socio-culturale, scolastico, lavorativo e dunque all’occasione di relazionarsi con soggetti che B. Cyrulnik ha denominato tutori di resilienza perché in grado di dare origine a un rapporto basato sulla fiducia. Il percorso di ricostruzione è agevolato da un buon attaccamento primario con le figure di riferimento. Resilienza significa pertanto crescere interagendo con il contesto ambientale. È vero allora che si può essere di supporto alle persone nel processo di ripresa mediante l’educazione alla resilienza, favorendo lo sviluppo di abilità quali: indipendenza, introspezione, capacità di interazione, iniziativa, creatività, autonomia. Per formare un individuo a essere resiliente, bisogna sostenere la sua capacità di accettare le difficoltà e il suo desiderio di ripresa. Sono i legami e la collaborazione a implementare la resilienza, in quanto la reazione positiva comprende l’abilità di saper creare relazioni positive. È stato condotto uno studio in America proprio su questo. In realtà è emerso che gli americani sopravvalutano la propria resilienza, che ha un impatto sulla loro salute e benessere. La notizia positiva è che chiunque può imparare la resilienza. La cattiva notizia è che la maggior parte non sa di aver bisogno di acquisirla. La resilienza è la parola chiave degli ultimi tre anni. Dai titoli e dai commenti sull’argomento nelle notizie politiche, sportive e sulle celebrità al focus sui programmi di salute e benessere, così come le app per la cura di sé, la resilienza è entrata nel lessico americano come un altro obiettivo del benessere personale: averne di più. Sulla base dei risultati dell’indagine, si osserva che lo stress, in particolare finanziario, emotivo e sociale, ha un impatto maggiore sul benessere rispetto allo stato di salute fisica. La ricerca ha rilevato che eventi stressanti gravi possono essere reintrodotti in un equilibrato percorso di crescita, ma lo stress cronico può essere fatale. Si evince dunque la necessità di descrivere al meglio sia scientificamente che socialmente i fattori interni ed esterni associati alla resilienza e come facilitare la costruzione di tali abilità. Si è scoperto che la resilienza non è sempre un tratto della personalità con cui siamo nati, ma secondo gli esperti, è un’abilità che può essere appresa.  Quando lavoriamo per migliorare la nostra resilienza, stiamo effettivamente rimodulando il nostro cervello perché sia più equipaggiato per affrontare le diverse avversità della vita.

Legame fra resilienza e attaccamento nella formazione della personalità

La resilienza è molto collegata all’attaccamento. Da un lato, la concretezza di una base sicura, forte e reale, consente una migliore esplorazione del mondo e la formazione di una personalità che accetta la sperimentazione delle emozioni, sia negative che positive, la capacità di collaborare e di reagire agli inconvenienti della vita, di essere resiliente quando i fatti lo richiedano. Dall’altro lato invece, le bambine/i che per diverse motivazioni non possono vivere con una figura di attaccamento che si occupi di loro, sviluppano un attaccamento insicuro, pertanto possono farsi travolgere dagli eventi che accadono e sviluppare alcune patologie a volte non visibili, oppure reagire e crescere senza gravi disturbi psicosociali, attivando meccanismi e modalità resilienti. Da molti studi risulta che soggetti sottoposti a grave stress senza sviluppare patogenesi, sono dotati di personalità la cui caratteristica fondamentale è la resilienza.

Resilienza rappresenta salute e benessere

In base agli studi americani sulle associazioni tra livelli di resilienza, malattia e salute mentale, i meno resilienti hanno riportato una maggiore prevalenza di asma e sindrome dell’intestino irritabile ed erano anche significativamente (51%) più propensi a segnalare una diagnosi di depressione, disturbo d’ansia, disturbo da stress post-traumatico, disturbo bipolare, ADHD, disturbo ossessivo compulsivo o disturbo alimentare.
Gli americani meno resilienti hanno maggiori probabilità di aver subito la perdita di una persona cara per cause innaturali come il suicidio (45%), un incidente d’auto (33%), overdose di droga (22%) o violenza armata (16%).
Gli americani più resilienti (93%) credono che la salute mentale sia importante quanto la salute fisica. Eppure solo un terzo degli intervistati ha riferito di essere “propenso a chiedere aiuto di fronte a una situazione negativa”.
Ora vi riporto alcuni dati molto particolari delle interviste di un’indagine: alla domanda Stai attraversando un momento difficile? La risposta più comune che le persone hanno detto di sentire: “Stai bene?” (55%), ma preferirebbero di gran lunga sentire: “Mi dispiace tanto, ti amo” (59%).
Più del 50% sente: “Come stai?” e “Andrà tutto bene”, ma preferirebbero di gran lunga sentire: “Ricorda quella volta in cui loro / noi … (ad esempio, raccontando storie di persone care perdute)” (52%) e “Fammi sapere se c’è qualcosa che posso fare “(49%).
Le prime tre cose peggiori da dire: “Tutto accade per un motivo” (24%), “Ciò che non ti uccide ti rende più forte” (22%), “Non preoccuparti, andrà bene” (20%).

Insegnare la resilienza a scuola

Certamente si può, si tratta di strutturare alcune attività fondate sulla collaborazione, sull’aiuto e sul rispetto reciproco; ideare progetti che mirino all’acquisizione di responsabilità, iniziativa personale, e creatività, che sono gli elementi essenziali della resilienza. Lo sviluppo di tali istanze è fondamentale per mettere in luce l’espressività della bambina/o mediante autonarrazioni, controllo delle proprie emozioni, dispiegamento delle potenzialità, dell’autonomia, dell’autoconsapevolezza e autostima. Comprendiamo dunque come la capacità di resilienza dipenda non solo da noi stessi e dalle relazioni affettive con le figure di riferimento, ma anche dalla possibilità di vivere in un ambiente educativo positivo, in cui sperimentarsi e sviluppare i propri talenti.  Non esiste una ricetta per apprendere ad essere resiliente, in quanto ogni individuo è diverso dall’altro. Pertanto ognuno di noi è dotato di potenzialità creative diverse, parliamo dunque di resilienza personale. Le persone hanno personalità, sistemi di reazione personali che vanno analizzate, incentivate e motivate.

Resilienza per infanzia e adolescenza

Janusz Korczak, difensore dei diritti dell’infanzia, scrittore, medico ed educatore polacco, è un precursore degli studi sulla resilienza. Egli ha proposto un’educazione basata sul dialogo, sul rispetto dell’altro, sulla libertà di espressione e collaborazione. Secondo lui è necessario insegnare alle bambine/i ad affrontare le situazioni critiche e a superarle, ribaltando le esperienze dolorose in momenti di crescita, di apprendimento. L’educazione alla resilienza è vista pertanto come invito alla speranza e come spinta propulsiva al superamento. Korczak ha vissuto un periodo nel ghetto di Varsavia con i suoi ragazzi, ai quali ha cercato di far capire, attraverso forme d’arte quali il teatro, la musica, la poesia, ogni aspetto della vita, compresa la morte. Solo il reale riconoscimento dei diritti del bambino permette lo sviluppo dell’educazione e dell’umanità. Sul tema dei diritti del bambino Korczak si è dimostrato particolarmente profondo. Lo dimostra anche la sua opera Il diritto del bambino al rispetto (1929) interamente dedicata a questo argomento. Lentamente ha maturato l’idea, oggi attualissima, che per aiutare i bambini a crescere occorre considerarli nella loro globalità e integrità, unificando i saperi della medicina, della psicologia, della pedagogia, della sociologia, ma anche della storia, della poesia, della religione. Studiare il bambino significa porsi di fronte a lui assumendo un atteggiamento di accettazione e di rispetto.

Progetto di resilienza per la scuola

Penso sia indispensabile dare vita a progetti di tipo trasversale, pluridisciplinare, integrati e inclusivi sulla resilienza, a partire già dalla scuola dell’infanzia. I progetti devono prendere le mosse dalle “Raccomandazioni sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente” del 22 maggio 2018 emanate dal MIUR: dalla lettura di questo documento emerge, infatti, il bisogno di impegnarsi nella costruzione e nello sviluppo di competenze sociali e civiche, volte ad assicurare agli alunni la capacità di resilienza e dunque di adattamento ai cambiamenti. Una società in perenne trasformazione economica, sociale e culturale richiede strategie di analisi specifiche e la scuola deve mettere in campo metodologie atte a creare interrelazione tra apprendimento formale e informale. Attraverso le attività progettuali sulla resilienza, i docenti insegnano alle alunne/i a sviluppare tutte le loro potenzialità, inclinazioni e talenti, affinchè nel momento del bisogno, possano attingere a tale ricco serbatoio quale modalità volta a sostenerli nei momenti di crisi e difficoltà che la vita può riservare. Gli obiettivi si sostanziano nella promozione dell’acquisizione di ragionamenti e comportamenti positivi e resilienti: sviluppare un pensiero positivo nell’affrontare le situazioni problematiche, anche attraverso critiche costruttive, potenziare i propri punti di forza, favorire l’assunzione di responsabilità e di iniziativa, quali capacità di seguire e di proporre spontaneamente e responsabilmente idee personali, essere in grado di scegliere strategie ad hoc per implementare la comunicazione e la capacità di ascolto, saper costruire equilibrate relazioni sviluppando la capacità di cooperazione, imparare a trasformare le sfide in opportunità affrontando le situazioni difficili con coraggio, saper comprendere e analizzare le istanze di un determinato fatto e  le relazioni di causa-effetto, imparare ad affrontare alcuni problemi elaborando una o più soluzioni, cioè la capacità di problem solving. Mediante attività espressive quali musica, drammatizzazione, pittura, lavori manuali, le bambine/i apprendono a edificare un atteggiamento resiliente e creativo. Le attività laboratoriali mirano a favorire l’autostima, la cooperazione, il benessere psicologico, il senso estetico e i rapporti sociali: tutti fattori che agevolano lo sviluppo del bambino positivamente.  Si possono attivare percorsi e visite guidate in luoghi significativi che favoriscano l’esercizio della resilienza che è una capacità dinamica che si sperimenta con tecniche come il brain-storming, il problem-solving e il photovoices, in modo da considerare l’uso della parola e del gesto come incontro, nel rispetto di opinioni differenti.

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