Giornalista, scrittore, occasionalmente addetto al pronto soccorso linguistico, Carlo Animato è stato definito “colui che rende divertenti contenuti da tagliarsi le vene” (cit).

Asl, sportello prenotazioni, mezzogiorno meno qualcosa di una mattinata a metà gennaio. Personaggi, al di qua e al di là del vetro: una signora del popolo minuto in là con gli anni; l’impiegato, emozionalmente scarico, a pochi minuti dalla chiusura.

– Sentite, giovanotto, io ho già fatto dieci terapie a dicembre. Adesso mi hanno detto che ne devo fare altre dieci.

– Si devono prenotare, ma se ne parla a marzo.

– Ma il dottore mi ha detto che le devo fare tutte attaccate.

– Signora, prima di marzo è tutto occupato. Prendetevi il foglio con l’appuntamento nuovo.

– E non mi potete venire incontro, voi, col medico?

– E volete che glielo porto io?

– No, grazie, siete troppo gentile. Non vi disturbate, ci penso io…

La signora scambia quel misto odioso di sarcasmo e ironia per un estremo, inusitato atto di cortesia. Così, invece di rispondere per le rime, bloccando la già spazientita fila, ringrazia persino il suo interlocutore. A dimostrazione che, in fondo, alla confusione delle lingue scaturita da Babele non si è mai più posto rimedio; e che l’incomunicabilità – nonostante i social, i traduttori universali e l’avvento del terzo millennio – resta il primo problema per questa umanità.

In effetti, come dire?, non tutti hanno gli strumenti adatti per identificare quel mostro bizzarro che prende nome di ironia, dalla quale, come diceva Victor Hugo, ha giustamente inizio la libertà, ma per colpa della quale è anche possibile provocare considerevoli disastri nei rapporti interpersonali. Perché questa forma spudorata e intelligente di senso del comico stravolge il significato delle parole, affermando qualcosa che sta invece a significare il suo esatto contrario.

Eppure, nel nostro caso, la signora davanti allo sportello aveva un vantaggio: poteva comprendere il senso di quella risposta canzonatoria esaminando sia le parole, sia il tono e l’atteggiamento scelti dall’interlocutore. Il tono e l’atteggiamento usati, infatti, rappresentano un’indicazione migliore, un aiuto alla comprensione (un sottotesto, direbbe chi parla complicato). E lei non c’è riuscita. Figuriamoci se si fosse trattato di un brano di conversazione scritto, magari su un cellulare o fb (dove perfino l’uso del punto finale al termine di un messaggio, ancorché corretto, pare sia colto come segno di freddezza o di mancanza di sincerità).

http://www.huffingtonpost.it/2015/12/09/messaggi-punto-fine-frase-da-evitare-ricerca_n_8756836.html

Ma in fondo credo che un po’ tutti noi lo abbiamo verificato: dinanzi a una frase scritta le interpretazioni possono essere diverse, specie se il mittente è qualcuno che adopera ben più di cinquanta sfumature, e le riempie di colore lessicale invece che del grigio uniforme di una lingua sempre più elementare e limitata, come quella che usiamo quotidianamente.

“Meno male che hanno inventato gli emoticon!” starà dicendo qualcuno. Vero. In tempi come i nostri, le faccine emozionali precisano il tono che vogliamo attribuire al nostro dire, proprio per evitare improprie comprensioni o sanguinari fraintendimenti. Tuttavia gli emoticon funzionano sul cellulare o sul computer. E quando invece scriviamo un racconto, o – per chi lo fa ancora – una lettera? Siamo in grado di padroneggiare l’arte al punto tale da scrivere senza possibilità di equivoco? Senza scatenare repliche piccate dovute a cattiva interpretazione? Senza impelagarci in successive, estenuanti discussioni per chiarire precisare circostanziare il senso di due parole che il mittente intendeva color bianco panna e che son giunte a destinazione tinteggiate uniformemente di blu di prussia?

Insomma, se le parole indicanti il nostro stato emotivo sono frutto di involontaria confusione, possiamo aiutarci graficamente? E ci ha mai pensato qualcuno?

Pochi sanno che qualcuno affrontò l’argomento già tre secoli fa, al termine di una curiosa vicenda personale. Un gentiluomo di corte napoletano, famoso per altri versi come alchimista e massone, aveva pubblicato un libro sulla scrittura degli Incas. Secondo il suo stile barocco e dispersivo, però, vi aveva infilato dentro una serie di dissertazioni particolari che andavano dalla critica al miracolo di san Gennaro fino all’individuazione di quale segno il Padreterno avesse posto sulla fronte di Caino, dopo il fratricidio. Dinanzi a quel profluvio di argomenti bizzarri ed enciclopedici, corroborati da colte citazioni letterarie che spaziavano dalla Cina all’Egitto a Babilonia, gli inquisitori ecclesiastici conclusero, senza dubbio alcuno, che nel testo era stato usato un “gergo maligno”, atto a spacciare contenuti esoterici avversi alla morale della Chiesa.

A quei tempi, una simile accusa portava difilato il libro all’Indice e l’autore alla pubblica dannazione. Così, per discolparsi, l’aristocratico cabalista scrisse una lettera di precisazione al papa, accusando i giudici di aver male interpretato certi suoi passi dal carattere, a sentir lui, chiaramente beffardo.

“Or che altro è un’Ironia non intesa per Ironia, se non una solenne bugia? Perché si troverà così detto bene di chi l’Autore voleva dir male; e detto male di chi intendeva dir bene; data lode a chi meritava biasimo; e biasimo a chi era degno di lode. Vi par questo solo un piccolo pericolo per la gente dabbene?”

PUNTO IRONICOQuindi, al fine di scongiurare ogni tipo di frainteso, e restituire all’autore ciò che l’autore voleva intendere, quale fu il rimedio che il nobile pugliese propose al mondo delle lettere? L’uso di un nuovo esemplare di punteggiatura – il punto ironico, appunto – composto da un puntino sovrastato da un semicerchio. Un espediente che dovette impressionare favorevolmente chi lesse quella sua astuta difesa, poiché alla fine le accuse contro la sua pubblicazione odorosa di zolfo caddero tutte.

Ma da allora nessuno pensò più di inserire questa originale invenzione accanto a esclamativi e interrogativi per migliorare e render più varia la vita di scrittori e tipografi. Così la novità grafica suggerita al pontefice Benedetto XIV abortì sul nascere. E insomma, se il priore Martino (abate nel ‘300 del monastero toscano di Asello) per un punto perse la cappa, come ci ricorda il famoso proverbio, nel caso settecentesco del massone meridionale un punto forse gli salvò la testa e l’onore, ironicamente parlando…