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Pauline è dolce e femminile. Renée ama vestirsi da uomo e ostentare sicurezza e forza. Entrambe sono le facce di una stessa persona, che ai Giardini del Luxembourg corteggia la dolce Hélène.

Gennaio 1902
Si sentiva nervosa: ormai aveva percorso il raggio attorno al punto d’incontro per chissà quante volte. Non aveva voglia di allontanarsi, per paura di perderla, di farla aspettare, anche se il suo orologio le confidava che era ancora troppo presto. Le scarpe nere da uomo erano coperte della polvere bianca dei viali del Luxembourg. C’era stata una lotta a casa su quale delle sue anime avrebbe dovuto mostrare a quell’incontro galante: la dolce e giocosa Pauline, magari avvolta in una nuvola di velluto e taffetà, oppure la forte e sfuggente Renée, che sfida le convenzioni indossando calzoni e redingote? Alla fine Renée aveva vinto, almeno nell’aspetto: vestire abiti maschili la rendeva più sicura, più capace di affrontare il mondo con la risata di Pauline. Vestirsi da uomo, senza perciò perdere l’eleganza del femmineo, la divertiva e le sembrava il miglior modo per vincere la paura di essere soltanto una come tante, di passare inosservata. Quel trucco funzionava per scrivere versi e per le serate mondane, sperava che con un po’ di talento e tanta volontà sarebbe servito anche a renderla più saggia nelle questioni di cuore.
Faceva freddo quell’inverno, ma almeno un incoraggiamento di sole si era degnato di far capolino in quel cielo già troppo bianco. Osservò come ci fosse una certa grazia nascosta nella quiete spettrale degli alberi spogli, nelle ombre dove la brina era destinata a rimanere.
 Da lontano osservava qualche bambinaia intraprendente permettere ai figli di qualche famiglia benestante di giocare ancora un po’ in quel bel tempo, sicura che i cappotti di pelo, i guanti e i cappelli avrebbero scongiurato il pericolo di tosse e starnuti.
 L’ansia dell’attesa, che il gilet e la cravatta non avevano soppresso, le faceva di nuovo rimbombare il cuore nella gola, ogni battito accentuato dai giri della stoffa sul collo.

Strinse forte tra le sue mani il suo rosario personale, il libro in sedicesimo dalla copertina di marocchino rosso che nascondeva sempre nelle pieghe dei vestiti. Le era già venuto in aiuto in passato con le sue pagine ocra, incarnazione dell’impalpabile dea della Poesia e dell’Amore, che dalle alte vette del Parnaso accorreva prontamente a soccorrerla.
Chissà cosa facevano a quell’ora i figli di Hélène, mentre la madre si agghindava per andare a quell’incontro. Era sicura che da poco si fosse seduta alla toilette, mentre la sua cameriera le raccoglieva la folta chioma castana sul capo e la ornava di nastri.
“Dove andate, madame?” Chissà se aveva risposto, oppure se aveva fatto capire alla serva con un gesto imperioso dei begli occhi neri che certe domande sono destinate a rimanere senza risposta.
Aveva conosciuto Hélène a un ballo, in casa di un’amica comune. A metà serata, dal nulla, era scattato qualcosa, in un gioco di mezze domande troppo franche.
 La donna si era interessata a lei, alla stravagante poetessa, alla creatura alla quale piaceva essere uomo e donna insieme. Non era riuscita a capire che cosa pensasse davvero di lei, sapeva solo che il suo profumo le era rimasto nelle narici per giorni: sapeva di curiosità e arroganza.
 Hélene risplendeva di una bellezza un po’ sfiorita, forse fuori moda; ai tempi dei Greci, ne era sicura, gli uomini avrebbero combattuto per i suoi lunghi capelli d’ebano e per i suoi fianchi larghi. Per questa Hélène si sarebbero battuti Paride, Menelao e Achille assetato di guerra.
 Solo due giorni prima, quando credeva di aver ormai dimenticato le sembianze della nuova conoscenza, le era arrivato un biglietto cortese, su carta profumata alla lavanda, vergato con una scrittura riccioluta e frivola: Hélène voleva incontrarla in segreto. Non aveva scritto esattamente così, ma non l’aveva invitata a casa sua e questo bastava a dare a quell’incontro, lontano dal rumore dei figli piccoli e della servitù pettegola, un sapore clandestino.

Sfogliò le pagine del libro: la carta ingiallita sembrava un campo di battaglia a guerra finita: le pagine erano piegate, annotate, accarezzate, bevute, eppure non si rifiutavano mai di venirle in aiuto. Le parole della Decima Musa erano ancora lì, stampate precisamente una accanto all’altra, a contrastare il disordine del suo cuore, a sillabare con parole dolcissime e chiare i sentimenti che provava adesso con rinnovato vigore. Ogni parola che leggeva era una muta invocazione, un inno che, era sicura, non sarebbe rimasto inascoltato.
Grazie ai versi di quel libro, anni prima, aveva conquistato Natalie, la fragile attrice dagli occhi chiari, sussurrandole quei sentimenti più antichi del peccato. La prima volta che si erano incontrate, per paura o forse per senso del pudore, aveva letto a Natalie il brano che parlava di stelle e di luna e, anche se era un pomeriggio di primavera, Natalie aveva saputo subito dove guardare per cercare il satellite. Sembrava così fresca e innocente, Natalie, nel suo abito color crema di stoffa leggera e le sue forme piccole ed eleganti. L’aveva affascinata per quella sua timidezza, quell’aria bambina di finta innocenza e pudore. Poi era venuta una torrida estate, ma l’afa parigina era niente in confronto al fuoco dei loro corpi avvinghiati tra le lenzuola, spossati dai giochi di Afrodite. Mentre le accarezzava distrattamente i seni rosati e turgidi, le aveva ancora fatto immaginare canti di vergini e ghirlande, storie di passioni più forti di carri da guerra e pleniluni sopra le rocce della campagna di Lesbo.
In quei giorni Pauline era entrata a passo lento nello splendore dei Campi Elisi.
Poco importava ora che quello fosse stato un connubio di amore e rovina: la gelosa imprevedibilità della sua amante aveva fatto cessare il torpore della lingua e la dolce debolezza che si impadroniva di lei ogni volta che Natalie la guardava ridendo vivace. La sua piccola era stata troppo gelosa, insicura, persino cattiva; non aveva capito che un cuore votato alla Dea non resterà a lungo in una gabbia dalle sbarre d’oro. Natalie era ancora sulla sua pelle, con le cicatrici dolceamare che lascia Eros che scuote i monti e la nostalgia adulta di chi sa di aver compiuto una scelta obbligata e di conseguenza giusta. Sapeva che la sua durezza, nelle ultime ore della loro relazione, l’aveva probabilmente ferita, ma quando si recide un legame, bisogna troncarlo di netto, così come si taglia un ramo troppo alto.
 Non aveva pianto quando le aveva voltato le spalle, dopo tre anni di tempesta: la penna dei poeti insegnava il sacro matrimonio tra amore e morte e lei, invece, era ancora viva.

A meno che quel nuovo fuoco che le ardeva la gola non la uccidesse.
 Cercò di farsi tornare in mente ogni lettura su quel tema classico, ma il gioco non bastò a calmare la sua mente che tornava inevitabile alle forme di Hélène. 
Chissà se la bella Tindaride sarebbe stata così pronta ad accogliere il messaggero d’Amore. Si chiese quale frammento fosse più adatto a incantarla, pregò Poesia di ispirare il canto giusto. Doveva forse parlarle di un pettinino e dell’amore che una donna che prova passione per altre donne può comunque provare per il frutto nato, forse senza desiderio, dal suo ventre rigonfio? Oppure una storia di dei che dipingesse di porpora e oro i suoi sentimenti? Cosa poteva persuadere la baronessa, l’orgogliosa madre di famiglia a baciare le sue labbra?

Si sentì stupida a parlare con una dea di carta, inventata da una donna in fondo non troppo diversa da lei. E se quel feticcio non fosse servito ad aiutarla e lei fosse impazzita per un amore senza speranza? Non dicevano che anche Saffo la Bella fosse alla fine, da vecchia, impazzita d’amore, perdendo in un salto vita e poesia?
Mentre le dita erranti sfogliavano nervose le pagine, una viola del pensiero si incastrò tra i suoi polpastrelli. Afferrò delicatamente tra pollice e indice il fiore essiccato, esaminando in controluce i petali sottili che avevano trattenuto il colore, ma non il profumo troppo evanescente di ogni aprile. Quel fiore prezioso era dentro il libro dal giorno in cui le era stato regalato, tanti anni prima, quando era ancora soltanto Pauline Tarn, studentessa anglo-francese, scribacchina di versi ipermetri, innamorata del poeta di Firenze, alla ricerca di un nido sicuro dove volare.
Violet, dolce Violet, la sua amica d’infanzia, la sua anima sorella, dolce e premurosa come l’essenza delle viole, meraviglia della stessa fragilità e dello stesso colore.
 Renée cominciò a combattere contro i cassetti cremisi dei propri ricordi: di Violet voleva ascoltare ancora le melodie vibrate tra archetto e violino, bere il sorriso benevolo e sentirla accanto, a farle coraggio ancora una volta. Adesso tutto quello che rimaneva dell’amica della sua infanzia, della dea minore che aveva vegliato sulla notte interminabile della sua adolescenza, era solo quel libro che, senza accorgersene, adesso stringeva con entrambe le mani al petto. Il libro e quel fiore, religiosamente riposto al suo interno.

Violet era morta da sola, il sei aprile –data infame!- dell’anno precedente, nel letto sporco di un sanatorio di Nizza, uccisa dalla tubercolosi e da una poetessa accecata da Afrodite.
 Ripiombò nell’angoscia delle note spezzate di Violet, del suo sguardo che assomigliava sempre di più alla brina sulle siepi del giardino: sentiva sulle sue mani il respiro sanguigno dell’amica che non aveva saputo stringere al momento del bisogno. Anche quella era una storia di amore e morte, una storia compiuta che adesso si costringeva a cantare scandendo le sillabe. Thanatos uccide Eros, ma l’amore immortala chi nella morte è caduto: così Dante aveva regalato a Beatrice l’amore eterno, non di uomo né di dio, ma della Poesia.

Chiuse gli occhi: risognava davanti a sé quella perla di colore in un campo di verdi tutti uguali allontanarsi da lei, mentre quello che avrebbe voluto vedere erano le labbra sottili e rosse di Violet regalarle l’ineffabilità di un sorriso sincero. Sentì vicino al petto la puntura del rimorso: aveva trattato la sua migliore amica come si tratta ogni anno l’ultimo giorno d’estate, con la consapevolezza che non importa quanto l’inverno possa essere innevato e perfido, prima o poi il cielo riprenderà colore e la terra ricomincerà a intiepidirsi. Aveva creduto che per quanto Violet si fosse allontanata da lei o lei da Violet, alla fine si sarebbero sempre ritrovate.
Soltanto un anno prima l’amica aveva cominciato a stare male, a essere spossata da una febbriciattola insistente. La musicista gliene aveva parlato distrattamente, come era sempre solita parlare, perché, così diceva, “non sono io che ho l’animo incontenibile dei poeti, ma quello ricettivo dei musicisti”. Così la sua anima da poetessa non le aveva prestato troppa attenzione. Aveva sanato il tarlo della propria distrazione inventandosi che Natalie le occupava troppo la mente e le membra poiché la giovane attrice pareva dividere una passione uguale tra le dita fatte per graffiare e le urla lanciate per gioire. Non si era accorta quando le sfumature rosate avevano disertato le guance di Violet. Aveva persino cercato di fare dei versi su quella inusuale mutazione, parlando di fiori baciati prematuramente dal gelo che scolora. Scossa dal quel pensiero, si era raccontata che le viole sono fiori prematuri, fragili soltanto all’apparenza e nell’immaginazione di mediocri versificatori e che sicuramente prima o poi il colore sarebbe tornato sul volto innocente dell’amica.
Una sera di febbraio provò a svegliarla da quell’illusione. Lei e Natalie, in tregua armata, erano andate a sentire Violet suonare in teatro, ma anche da lontano l’eco di quella tosse forte abbastanza da rovinare alcune note e fare più incerti i movimenti dell’archetto non le era sfuggita. Preoccupata, avrebbe voluto aspettare l’amica dopo l’esibizione, ma Natalie aveva accusato un’emicrania e lei aveva troppo paura che quello fosse il preludio di una tempesta insostenibile: non si era opposta ed erano tornate subito a casa. Si era ripromessa di informarsi su quella tosse, ma si sa che il tempo è maestro di travestimenti e illusioni. Quando realizzò che ormai giorni erano passati dal concerto aveva scritto a Violet, senza ricevere risposta, finché una sera, scappando dalle grinfie della sua amante, era andata a chiedere di lei alla sua porta. La disperazione si era impossessata di Pauline quando una domestica le aveva annunciato che mademoiselle era andata in Costa Azzurra per strappare ancora qualche giorno di sole e d’aria alla bestia che mordeva i suoi polmoni.
Il resto era stato un viaggio disperato nei primi giorni di aprile. Pauline aveva imparato, per dirla con le parole di Renée, che nessun treno di prima classe corre veloce quanto il corvo inesorabile della Grande Signora.
Esausta da quella battaglia mentale, appoggiò la schiena a un platano nodoso e aprì ancora una volta il libro, lasciando che il vento freddo ne baciasse le pagine.
«Che tu mi sia d’aiuto come hai fatto altre volte» sussurrò, riposando le palpebre per trattenere le lacrime. Quel tu parlava alla poesia, alle viole e alla Dea trasportata da colombe albine. Sentì le pagine del libro darsi il cambio con gentilezza e in quel momento ebbe la certezza che la Poesia le stesse parlando: quella Dea speciale che l’aveva accarezzata sin da piccola, sarebbe venuta in suo soccorso anche questa volta per catturare il cuore della bella baronessa.
«Non è educato addormentarsi mentre si attende una signora.» Renée aprì gli occhi e si trovò di fronte quello sguardo color nocciola, quella pelle di biscuit e quel sorriso impertinente, perennemente imbronciato.
«Disperavo di vedervi, baronessa.» Si aggiustò il cilindro sulla fronte con la mano sinistra, dando un’occhiata di sfuggita alla pagine rimaste aperte. Chiuse di un sol colpo il libro e lo ripose nella giacca. «Dunque stavate leggendo, Monsieur Vivien.»
«Pregavo.» Porse gentilmente il braccio a Hélène.
«Non credevo che anche i poeti avessero una fede.» Maliziosa, la corteggiata si aggiustò dietro la nuca un ricciolo ribelle.
Renée notò subito le leggere carezze dell’età che impreziosivano il volto gioviale della baronessa e sentì la dolceamara belva squassarle nuovamente il petto. Hélène doveva avere il sapore di una mela troppo rossa, che forse nessuno aveva mai colto prima nel modo in cui avrebbe voluto fare lei in quel momento.
«Se volete, potrei spiegarvelo passeggiando un poco.»
«Non vicino alla fontana, monsieur, mi distrarrebbe troppo dal concentrarmi sulla vostra filosofia.» La più anziana le indicò con un cenno discreto della testa i sentieri deserti tra gli alberi. Camminarono lentamente per i viottoli ancora umidi.
«Avete forse perso la parola? Bizzarro, per uno scrittore come voi.»
«Colpa vostra, madame» le rispose Renée, fermandosi vicino a un albero, come colta un’improvvisa stanchezza.
«Mia?» Il tono preoccupato della baronessa già assomigliava a una bandiera bianca. Renée tirò fuori il libro e cominciò a leggere: 
«La mia lingua è spezzata, sottile una fiamma ha attraversato il mio corpo…»

La guardò in viso, facendola arrossire; ripose il libro, rapida le prese le mani continuando: «e il mio sudore cola come rugiada nel mare…e vedo il tuo viso, attraverso la morte.»
Le accarezzò la nuca e la baciò con intraprendenza, assaporando il sapore di zucchero e rosa, senza lasciare tempo al rifiuto o alla sorpresa. L’altra prima si arrese, si lasciò assaporare, poi le sue mani strinsero la redingote e la schiena. Renée capì che anche quelle dita stavano pregando, sperando che quel contatto non finisse: fu allora che lei lo spezzò.
«Non posso credere che nessuno abbia mai dedicato poesie ai vostri begli occhi, baronessa.» La prese in giro con sottile crudeltà, lasciando che lei abbassasse gli occhi e le difese.
«Ma quel qualcuno non eravate voi» rispose l’altra, ritrovando la propria fierezza quasi felina. «E per favore fate che per voi sia soltanto Hélène.»
«Hélène, mia dolcissima Hélène dal sapor di primavera.» Nuovamente la prese sotto braccio, accarezzandole la nuca.
«Allora io per te sarò Renée soltanto.» Renée la forte, l’intraprendente, la poetessa. Renée soltanto e non Pauline, delicata e timida. Rimasero in silenzio, incamminandosi verso i viali centrali e l’uscita del parco. «Il cielo sta imbrunendo, mia cara, sarà meglio che voi torniate a casa prima che la luna scintilli.»
«Quando mi parlerete ancora della vostra filosofia? Credo di avere ancora qualche curiosità insoddisfatta.» La sua voce era tornata ragazzina e suonava le note della speranza.
«A casa mia posso farvi vedere i libri che contengono questa e altra sapienza. Quando potreste essere libera?»
«Domani dovrei visitare un’amica, ma credo proprio che con questo freddo la mia cara sorella maggiore avrà preso un raffreddore –è cagionevole di salute- e avrà bisogno che la vada a trovare.»
Il cuore di Pauline sorrideva alle troppe parole di un cuore innamorato.
«Vi farò avere il mio indirizzo in un biglietto domani mattina.» Rispose, versando a Renée il tributo del controllo che l’avrebbe gratificata e fatta sentire forte. Raggiunta la Rue Sufflot, Renée lasciò che Hélène si allontanasse verso la propria vettura e che il conducente frustasse i cavalli.
Nella luce ormai fioca immaginò Hélène salutarla con un bacio attraverso il vetro della carrozza. Solo quando ogni traccia di lei scomparve, si incamminò verso casa, lasciandosi sfuggire un ringraziamento alla sua Dea.

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Autrice di “Quasi una commedia” e di Sorridimi“, Beatrice da Vela si divide fra le traduzioni e la scrittura di romance contemporanei. Potete incontrarla su Facebook.