Buongiorno. Abbiamo con noi Silvia Ami, ingegnere meccanico. Domanda: che ci fa qui? Presto detto: Silvia scrive. Ha pubblicato due racconti per le antologie di EWWA e un romanzo, “Take”, che sta traducendo dall’inglese in italiano.
Silvia, benvenuta. Per una volta, diamo voce a una scrittrice agli inizi. Com’è stato il voltafaccia da ingegnere a scrittrice?
Grazie Babette! Allora, per rispondere alla tua domanda, più che un voltafaccia la mia è stata una presa di coraggio. Ho voluto lasciare libera di esprimersi una parte della mia personalità che era rimasta chiusa a leggere in biblioteca per lungo tempo. Quella parte di me che ama perdersi in una storia, non per evadere ma per sperimentare qualcosa di nuovo.
Chiedo sempre a voi come facciate a unire la scrittura a “tutto il resto” (lavoro, casa, famiglia… insomma hai capito). Lo faccio anche con te.
La mia risposta presumo sia in linea con le precedenti. Mi riservo delle ore per poter scrivere con calma, ma ogni momento è buono per pianificare e immaginare dialoghi e scene. Foglietti volanti e Evernote (una applicazione che ho sullo smartphone) mi servono per fissare le idee quando sono in giro. Perché l’ispirazione può venirmi in qualsiasi momento! Soprattutto quando sono sotto la doccia e non posso buttare giù due righe.
Ci parli del tuo romanzo? Ho letto che hai scritto “Take” dopo aver sognato i personaggi. Una bufala giornalistica, oppure è la verità?
Nessuna bufala. È vero. In genere non ricordo i miei sogni, ma a volte mi capita di farmi un film nella testa (ho trovato una correlazione con le cene troppo abbondanti) e di svegliarmi sul più bello. TAKE, ovvero la storia di Ethan e Joss, è uno di quei casi. Mi sono sognata la scena iniziale all’aeroporto e al risveglio morivo dalla voglia di sapere come andava a finire tra quei due, così ho bussato alle porte del mio subconscio e li ho fatti venire fuori.
Il risultato è un romantic suspense ambientato a Las Vegas, con protagonisti una risoluta agente dell’FBI in vacanza forzata e il seducente responsabile della sicurezza di un immaginario casinò.
Come hai materialmente scritto il romanzo? Scaletta, penna d’oca (sogni rivelatori a parte, ovvio).
Scrivo da ingegnere! Sì, sono di quelle persone che segue una scaletta, salva anche dieci versioni diverse di un capitolo perché “non si sa mai”, si fa una scheda dei personaggi e tiene il conto delle parole scritte. Cerco anche di usare meno carta possibile, per cui quando arriva l’ora di dare la caccia agli errori passo il file nell’e-reader e leggo le mie cose come se fossero di un altro. Con me questo metodo funziona abbastanza bene.
Altro aspetto fondamentale è il confronto. Ho bisogno dell’opinione onesta delle Beta reader per tappare i buchi. A esempio, quando scrivo una scena io ho in testa un’immagine ben precisa e capita che, presa dalla foga di scrivere i dialoghi, mi dimentichi di dare i dettagli al lettore. Se non ci fossero le Beta a dirmi: “Ehi, ma qui manca qualcosa!” io potrei rileggere la scena mille volte e non me ne accorgerei, perché il contorno l’ho già in testa.
“Take” avrà un seguito? Il clan dei Gallagher ci piace molto…
TAKE avrà il suo seguito. Ho in programma di iniziare a scriverlo non appena finita la traduzione di questi ultimi capitoli. La storia sarà imperniata sulle vicende di Adam, il fratello maggiore di Ethan, ma questa volta ho in mente di tirare dentro tutto il clan al completo.
Sei un po’ una giramondo, e non solo per vacanza. Com’è stato il tuo soggiorno in Germania? Cinque anni, se non sbaglio.
L’amore per i viaggi me l’hanno trasmesso i miei genitori, il senso dell’avventura mi sa che l’ho preso da mio padre, mentre l’interesse verso altre culture è una cosa tutta mia. Avessi tempo e soldi, girerei il mondo per toccare di persona quello che altri mi hanno raccontato. Adoro leggere i romance, ma il libro che ho letto e riletto più volte in vita mia è “Un Indovino Mi Disse” di Tiziano Terzani.
La Germania è stata un’ottima scuola dal punto di vista lavorativo e confesso che a volte mi manca. A mio avviso, le bellezze del nostro paese non riescono a sopperire a certe lacune sociali che ci caratterizzano.
Parlaci della collezione di macchinine e del laboratorio tipo “Doc, Ritorno al futuro”. Mi faccio i fatti tuoi? Sì, senza vergogna alcuna.
Ti sei scordata di citare gli aggeggi da cucina! Altra mia passione. Viaggiare è un’esperienza sensoriale e per me il gusto è importante tanto quanto la vista. Ecco perché quando il dovere ci impone di rimanere a casa troppo a lungo apro il cassetto delle spezie e provo una nuova ricetta.
La collezione di macchinine è ufficialmente di mio figlio maggiore, il secondogenito infatti è più orientato verso i mattoncini Lego, e nonostante io cerchi di contenerla all’interno della loro camera si espande per tutta la casa.
Il “Laboratorio di Doc” è lo studio in cui scrivo e che condivido con la mia dolce metà, altro ingegnere, che colleziona computer, tablet, apparati elettronici di ogni tipo e dimensione.
È la nostra fucina di idee, incasinata ma funzionale.
Grazie per la compagnia e per la pazienza con cui hai risposto alle mie domande sfacciate.
Grazie a te, Babette. Un abbraccio virtuale a tutti i lettori.
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