“Gli occhi del desiderio” è una Fan fiction che Sarah Bernardinello ha scritto, ispirandosi al libro “Endora III – Il tempo degli inganni” di Fernanda Romani.

Diamo la parola a Fernanda Romani.

Durante la stesura del terzo episodio di Endora, Il tempo degli inganni, ho avuto la rara occasione di passare un pomeriggio, a casa mia, con l’amica Sarah Bernardinello a discutere alcuni aspetti della saga. Li chiamiamo i nostri “momenti di brainstorming” e non capitano spesso. Quel giorno, anticipai a Sarah alcuni eventi del terzo episodio, uno dei quali era il triste destino di una donna che accetta di compiere un omicidio per assicurare un futuro a suo figlio: un ragazzo quasi cieco, destinato a una vita di miseria.

Sarah, che aveva già iniziato a scrivere narrativa M/M, fu incuriosita dal nome di questo ragazzo, Nabir, e buttò lì una battuta: “Ma com’è questo Nabir? Bello? Magari potrebbe essere il protagonista di una storia M/M. Non puoi mica lasciarlo morire in miseria. Non hai pensato a scriverci uno spin-off?”

No, non ci avevo pensato. Per me Nabir era solo un personaggio che nel libro veniva nominato e poi dimenticato. Uno dei tanti “danni collaterali” di una feroce lotta di potere.

Però, pochi mesi fa, rileggendo il capitolo dove racconto la morte di sua madre, mi è tornato in mente il colloquio, così come mi sono ricordata quelle poche battute di Sarah. L’idea è apparsa subito dopo: perché non scrivere la storia di Nabir in chiave M/M? Scartai subito l’ipotesi di farlo io. Amo il genere Male to Male, ma non mi ritenevo in grado di affrontarne la narrazione, pur avendo a che fare da qualche anno con alcuni personaggi bisessuali di Endora. Il passo successivo fu chiedere a Sarah se fosse disposta a farlo lei.

Così è nata questa fan fiction, alla cui stesura ho fatto da consulente per fare in modo che rispettasse i dettagli del mondo che avevo costruito. Sarah ha saputo raccontare la vicenda con la sensibilità che la contraddistingue e di cui tutte le sue storie sono impregnate.

Per completare il racconto, ho deciso di offrire, come prologo, il capitolo del libro dove appare la madre di Nabir; una donna che accetta di compiere un’infamia per amore di suo figlio.

Prologo

Tratto da Endora III- Il tempo degli inganni, di Fernanda Romani.

– Nhavi!
– Per gli dei, cos’è successo?
L’istruttrice fissò la spada insanguinata che stringeva in mano, incapace di credere all’enormità dell’azione appena commessa.
Altre guerriere si erano precipitate vicino alla sua giovane allieva, che giaceva a terra.
Una voce ansiosa si levò sopra tutte le altre.
– Presto, chiamate una guaritrice!
L’intero cortile della caserma era in fermento, ogni attività si era fermata, visi sgomenti la scrutavano.
– Sitra, che cosa hai fatto?
Ascoltò quelle parole come se provenissero da qualche recesso buio dentro di lei. Rimase immobile, circondata da frasi concitate e imprecazioni.
– Dov’è la guaritrice? Perché non è ancora qui?
– Spostatevi! Non statele tutte addosso!
– Largo! Largo! Fatemi passare!
Una donna con una grossa borsa a tracolla si fece spazio tra allieve e istruttrici. Appena vide la ragazza a terra, impallidì.
– Grande Katra! La figlia di…
Si inginocchiò senza nemmeno finire la frase e, tirato fuori un grosso paio di forbici, cominciò a tagliare la divisa di Nhavi.
– Sitra, che cosa hai fatto?
Sentirsi ripetere quella domanda insopportabile la riscosse dall’immobilità in cui si era rinchiusa.
Fuggire! Doveva fuggire!
Gettò a terra la spada come se bruciasse. I suoi piedi si mossero all’indietro, quasi fossero incapaci di obbedire all’impellente necessità di allontanarsi.
Alla fine il suo corpo esegui l’ordine.
Si girò e corse via, con la mente oppressa dall’immagine della ragazzina a terra.
Due occhi stupiti l’avevano fissata nel momento in cui aveva affondato la lama. Occhi che non avrebbe mai dimenticato.
* * *
L’istruttrice cavalcava spedita lungo i vicoli della periferia di Omira, il cappuccio del mantello stretto attorno al viso e la borsa piena d’argento che le pesava sulla coscia.
L’unico rumore era il suono attutito degli zoccoli del cavallo. Una vibrazione solitaria, che si riverberava nel petto e nella testa mentre percorreva le anguste stradine che la stavano portando fuori dalla città. Lontano.
Dopo quanto aveva fatto, la sua vita all’interno dell’esercito era finita e sapeva quale fosse il rischio nel tornare al proprio villaggio. Eppure doveva correrlo. Doveva portare il denaro a sua madre.
Ricordava ancora ogni particolare del giorno in cui le aveva affidato il suo unico figlio maschio, ormai diciannovenne. Nemmeno un sospiro era uscito dalla bocca dell’anziana cacciatrice. Rifiutarsi o lamentarsi non era nel suo carattere. Si era presa carico di un compito gravoso, che l’aveva condotta a consumare i pochi risparmi pur di  prendersi cura di quel nipote, quasi cieco. Sapeva bene che un uomo divenuto incapace di lavorare era destinato a diventare un mendicante, un creatura debole e affamata, preda di una morte precoce.
L’istruttrice ormai non si chiedeva più come avessero fatto le nemiche della Custode dei Confini a sapere di quel figlio così sfortunato. Il denaro che le era stato offerto rappresentava la risposta a tutte le sue preghiere.
Malgrado questo, aveva fallito. Si era illusa di poter diventare un’assassina in nome del suo amore di madre ma, ora lo sapeva, la sua coscienza si era ribellata a quella decisione.
O forse era stata la dea Alcheria a punirla, per aver pensato che una simile opportunità provenisse da lei.
Madre Alcheria, perdonami!
Come aveva potuto accettare di uccidere Nhavi, la migliore delle sue allieve, a cui si sentiva legata da un profondo affetto, quasi come se fosse una figlia?
Cercò di scacciare dalla mente l’orrore per quanto aveva commesso, un’emozione che rischiava di travolgerla e farle dimenticare lo scopo di quella fuga. Il futuro di suo figlio. Solo questo contava.
Portare il denaro a sua madre era ormai l’unica speranza che le restava
Sapeva bene di non avere il diritto di tenerlo, ma anche restituirlo non sarebbe servito a nulla.
Il suo era un tipo di fallimento che non si perdona, non l’avrebbero lasciata vivere.
Si addentrò nel quartiere delle concerie, incurante dell’odore greve che permeava l’aria ancora impregnata di umidità. Leggeri veli di nebbia mattutina stazionavano ancora nei vicoli, mescolati alle voci dei lavoratori, all’opera dentro le numerose botteghe. Non un solo raggio di sole riusciva a penetrare la coltre grigia che da giorni  incombeva sulla città, quasi a voler ricordare a ogni abitante di Omira che la stagione-delle-brume  era ormai inoltrata.
Percorreva le strette vie con attenzione, scansando i pochi passanti. I sensi tesi, pronti a cogliere un eventuale rumore di zoccoli alle sue spalle, le dicevano che nessuno la stava inseguendo, ma non era sufficiente. Chi l’aveva assoldata di certo immaginava dove si sarebbe diretta. Doveva essere più veloce di loro.
E rischiare. Rischiare tutto.
Ormai il pericolo non erano più soltanto le donne della Custode Rainna, c’erano anche le sicarie della dea Katra oppure, chissà, delle Jaimirie. Lei non sapeva chi l’avesse pagata, ma non aveva importanza. Avrebbe dovuto sfuggire alle cacciatrici più pericolose di Omira e non c’era una fazione migliore di un’altra, non per lei.
Una volta uscita dalle viuzze maleodoranti attraversò un prato, intralciata da un gregge di pecore intente a brucare. Scansate le più vicine, spronò il cavallo verso sud, oltrepassando alcune grosse querce. Avrebbe dovuto fare un largo giro per raggiungere le colline, ma non poteva permettersi di perdere tempo. Doveva arrivare al villaggio, da suo figlio, prima di coloro che l’inseguivano. Una vecchia cacciatrice come sua madre avrebbe saputo dove nascondersi  e come proteggerlo.
Se solo lei fosse riuscita a portarle il denaro…
Si passò un mano sugli occhi, per liberare le ciglia inumidite dalle frange di nebbia che vagavano per la campagna, senza mai smettere di scrutare attorno a sé, pronta a cogliere ogni movimento e ogni ombra.
Il rumore d’ali la fece trasalire. Un’ondata di brividi violenti la scosse in ogni  fibra del corpo, uccidendo la speranza. Il suo istinto le diceva che il nemico era giunto.
Alzò gli occhi, soffocando un tremito.
Un corvo albino volava sopra di lei.
No!
Quel grido silenzioso fu l’unica cosa a cui riuscì a pensare.
No! No! No!
Ora sapeva di non aver mai avuto alcuna possibilità di fuga. Forse non  l’avrebbero lasciata vivere nemmeno se avesse portato a termine l’infamia per cui era stata pagata.
Aveva accettato di diventare un’assassina. In cambio di niente.
Il tonfo sordo degli zoccoli parve scaturire dal nulla, dietro di lei, ma nemmeno per un istante l’istruttrice pensò si trattasse di fantasmi. Erano qualcosa di peggio.
Le sicarie di Katra.
Ora sapeva di chi era il denaro che portava assicurato a tracolla, l’argento con cui aveva creduto di comprare un futuro per suo figlio.
Il corvo cadde di schianto sul collo del cavallo, che fece uno scarto, spaventato. Lei, mantenne il controllo, rapida nel gettare a terra quell’ammasso bianco ormai senza vita, maledicendo gli uccelli sacri, putride carcasse magiche destinate a morire appena portavano a termine la caccia.
Diede di sprone, incapace di rinunciare alla speranza.
Doveva vivere. Arrivare da lui. Vederlo un’ultima volta. Fargli sentire la sua voce nella penombra da cui era avvolto.
Nabir…
Il colpo alla schiena la fece oscillare.
Abbassò lo sguardo e vide la punta metallica che le spuntava dal petto, ma strinse le dita attorno alle redini. Il dolore era sopportabile e non doveva fermarsi.
Un altro colpo. Un altro ancora.
Altre punte metalliche che le perforavano la carne.
No! No! No!
Ormai incapace di controllare il peso del proprio corpo, l’istruttrice cadde in avanti. Avrebbe voluto aggrapparsi a qualcosa, continuare la corsa, ma non c’era più nulla che lei potesse decidere. Scivolò a terra e, nell’impatto con il suolo, udì un lamento. Era la sua voce. Il dolore la travolse, penetrò in profondità, scagliando lampi nella nebbia in cui la sua mente si dibatteva. Una nebbia dove non c’era umidità, né squarci di aria limpida, solo tenebre incombenti e una sofferenza più intensa di qualsiasi dolore fisico.
Nabir…
Non l’avrebbe più rivisto. Per lui aveva rinunciato a tutto, eppure non era servito. Stava morendo, con il viso affondato nell’erba e un inutile sacchetto d’argento appeso alla cinghia.
Inutile. Era stato inutile.
Il rumore di zoccoli fece vibrare il terreno, prima di fermarsi vicino a lei.
Una voce femminile, una mano che le frugava addosso.
− Il denaro lo prendo io. Scavate una fossa, nessuno deve trovare il corpo.
Il buio, solo il buio. E un ultimo guizzo di dolore che incenerì ogni suo pensiero.
Nabir…

(continua…)

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