Sin dalla notte dei tempi, il “sangue”, così come il “nero”, l’oscurità” hanno sempre ricevuto una ben precisa connotazione di vivificazione esistenziale, a dispetto del loro simbolismo più lineare, di superficie.

Pertanto considerare il nero (l’Oscurità, nella sua perspicua valenza psicologica e poetica) come una causa del Sublime, è possibile, in particolar modo se prendiamo come esempi le poesie di Saverio Bafaro.

Questa cosiddetta “Estetica del Terrore”, invero, è una necessaria sovversione dell’ordine delle cose, di conseguenza della destrutturazione della parola, della deautomatizzazione del linguaggio, dunque confluisce all’interno di un sistema concettuale che promuove l’effetto straniante ai suoi più alti livelli, in cui linguistica e dimensione estesica dell’emozione stringono un indissolubile patto d’alleanza (È l’attimo in cui / accoltelli il mio corpo / come colpendo su fette d’arancia / ed io credo nella lingua oscura / non essendo ancora approdati / sulla spiaggia inviolata).

Queste poesie, definite del “Terrore”, le trovo più vicine, a livello semantico, a quelle di “timore”, ed esattamente a quello panico.  Come ben sappiamo, il bianco è proprio il colore del timore panico, e quindi del senso di smarrimento, della vertigine presupposta come preludio al Sublime, di quel vuoto abissale che stringe il poeta nella propria stretta, una voragine senza forma da colmare con l’unica malta che egli conosce: la parola poetica. Bafaro ben tesse il suo terrifico ordito, fatto di parole precise, di lemmi e campi semantici che affondano nell’inconscio del lettore, lo seduce con quel “terrore” che è motivo di una distanza (positiva) e, di conseguenza, di un’ineluttabile riflessione.

“Fra tutti quanti i colori, di sicuro il bianco è quello che induce nello scrittore una maggiore inquietudine. Il bianco è il colore del foglio”. Bafaro si oppone con forza e determinazione a questa sostanza cromatica che è sì Poesia ma che, in virtù del suo opposto, genera un equilibrio. Gli opposti si fondono come in una sorta di legge enantiodromica (Eraclito). Ritrova il suo paradiso iperboreo in una fitta sequenza figurativa, in cui la sinestesia e la sensorialità propinata, ora a piccole dosi, ora in balìa degli eccessi d’immagine, sfrenano l’immaginazione, come capita nel silenzio che allude (Una croce di fuoco / mi sveglia / nel cuore / amaro della Notte / guscio di tenebra / dal fiato greve e disperso / nella fiamma al petrolio / brucia per sempre la speranza / di riveder vivere la carne).

Come in un culto eleusino, le poesie di Bafaro assumono una straordinaria ritualità, un percorso iniziatico, in cui ombre e luci divengono guide all’interno di quest’abissale struttura che è il testo poetico, in cui ci si smarrisce, ci si perde il sé (funzione primaria della vertigine), per poi, dopo averla fatta a brani, reintessere la propria identità che è anche l’essenza della Poesia. Il tema del passaggio metamorfico (C’è un buco / nella foglia d’Autunno / che dà dall’altra parte). La Poesia, e quindi il verso, si metamorfosa sotto lo sguardo del lettore come un’ombra pronta a condurci per mano nel suo mondo di oscura specularità, opposta.

In conclusione, una Poetica che sa scuotere il lettore e che lo imbriglia nella sua inquietudine esistenziale.

Saverio Bafaro, Poesie del terrore, La Vita Felice, 2014.

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Saverio Bafaro nasce a Cosenza nel 1982. A Roma, presso «La Sapienza», diventa dottore in Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, e attualmente sta specializzandosi in psicoterapia.
Nel 2001, riceve il Premio «Città di Scalea» e pubblica la sua prima silloge di testi poetici. Tra i suoi libri successivi si segnalano: Poesie alla madre (Rubbettino, 2007), Eros corale (2011), disponibile in formato e-book sul sito www.larecherche.it. e, di recente, Poesie del terrore (La Vita Felice,2014).

Sue opere sono inoltre apparse all’interno di antologie poetiche, di rubriche come Lo Specchio de «La Stampa», a cura di M. Cucchi, e di riviste letterarie come «Capoverso» e «Poeti e Poesia», di E. Pecora. Collabora con il blog Postpopuli.

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