Nel 1971 la band britannica suonò nella suggestiva cornice degli anfiteatri romani in un concerto epocale.
I Pink Floyd si sono sempre caratterizzati per l’originalità della loro musica e per alcune scelte coraggiose in una carriera lunga e straordinaria. Uno degli episodi più luminosi e suggestivi della rock band britannica è stato senza dubbio il film documentario “Pink Floyd at Pompei”. Si tratta di un vero e proprio omaggio alla musica di Waters, Gilmour, Wright e Mason che testimonia la fine della prima fase della loro attività artistica. Con questa pellicola il gruppo britannico suggella la fase più creativa e sperimentale della loro musica e il regista scozzese Adrian Maben filma i quattro giovani musicisti all’apice del periodo psichedelico e avanguardista fondendo mirabilmente la meravigliosa cornice degli scavi di Pompei con i suoni drammatici ed ‘esistenziali’ dei Pink Floyd. A distanza di oltre quattro decenni, ascoltando e vedendo il documentario rimane intatta tutta la straordinaria e originale vena creativa di una band che non aveva timore di sperimentare con suoni e apparecchiature elettroniche (allora quasi fantascientifiche) una musica estremamente evocativa capace di ipnotizzare gli ascoltatori. Dopo questa avventura i Pink Floyd cambieranno decisamente la loro musica per creare un nuovo capolavoro sonoro, quel “The dark side of the moon” che è passato alla storia come una pietra miliare del rock di tutti ti tempi.
La fusione di musiche e immagini
Il regista scozzese naturalizzato francese Adrian Maben concepì l’idea di base per il film nel 1971: già all’inizio dell’anno aveva contattato il manager dei Pink Floyd Steve O’Rourke con l’idea di combinare le musiche della band con opere pittoriche, ma i quattro musicisti aveva respinto l’offerta. L’estate seguente, il regista si recò in vacanza in Italia e, nel tentativo di recuperare il suo passaporto che pensava di aver smarrito durante una visita alle rovine di Pompei, tornò al crepuscolo nell’antico Anfiteatro Romano e lo ritenne una location ideale per filmare in Pink Floyd in azione. Fin dall’inizio, Maben immaginò che la band dovesse suonare nell’anfiteatro vuoto, senza alcun pubblico. Grazie alla sua conoscenza con il professor Ugo Carputi dell’Università di Napoli, il regista ottenne dalla locale Soprintendenza il permesso, per l’ottobre seguente, di effettuare sei giorni di riprese nel sito archeologico campano, per l’occasione chiuso al pubblico.
I Pink Floyd insistettero per eseguire tutto il materiale dal vivo, il che implicò il trasporto in Italia, via camion, di tutta la loro attrezzatura da concerto, assieme a un impianto per la registrazione a 24 tracce che garantisse la stessa qualità sonora dei loro lavori in studio.
La troupe, giunta fra le antiche rovine, capì immediatamente di non avere elettricità sufficiente per tutte le complesse attrezzature. L’inconveniente fu risolto portando la corrente elettrica sul luogo direttamente dal Municipio locale, attraverso un lunghissimo cavo che percorreva le strade della cittadina campana, ma la circostanza restrinse i tempi effettivi di ripresa a soli quattro giorni, dal 4 al 7 ottobre del 1971. Le scene girate per prime in ordine di tempo ritraevano i quattro musicisti aggirarsi fra i vapori della Solfatara di Pozzuoli; quindi, nell’Anfiteatro Romano la band eseguì dal vivo tre brani: la prima metà ed il finale di “Echoes”, “One of These Days”, e “A Saucerful of Secrets”; ogni composizione venne eseguita in sezioni separate e poi montate assieme. Dopo ogni ripresa, la band riascoltava l’esecuzione in cuffia per approvarla. I ritardi causati dai problemi tecnici obbligarono il regista a integrare le riprese con materiale girato in uno studio cinematografico, più precisamente l’Europasonor di Parigi, dal 13 al 20 dicembre del 1971. Per preservare in qualche modo l’ambientazione pompeiana alla base del film, le sessioni parigine furono poi montate con spezzoni delle sequenze girate a Pozzuoli, assieme a immagini di repertorio tratte dall’archivio della Soprintendenza; parte di queste ultime furono anche proiettate alle spalle dei musicisti. A Parigi la band registrò dal vivo “Set the Controls for the Heart of the Sun”, “Careful with That Axe, Eugene”, la sezione centrale della suite “Echoes” e, su richiesta del gruppo, il brano “Mademoiselle Nobs” (rifacimento di “Seamus” dall’album Meddle) nel quale una femmina di Levriero russo chiamata appunto Nobs, di proprietà di una famiglia circense amica del regista, “canta” un blues, accompagnata da Roger Waters alla chitarra e David Gilmour all’armonica mentre il tastierista Richard Wright le porge il microfono.
Il primo montaggio del film, della durata di circa un’ora, fu completato da Maben nel 1972 fra le mura di casa sua, poiché il regista aveva già sforato sul budget. La “prima” inglese del film, inizialmente prevista per il 25 novembre 1972 al Rainbow Theatre di Londra, fu all’ultimo momento bloccata dal gestore del teatro, per ragioni burocratiche. Preoccupato per la breve durata del film, all’inizio del 1973 Maben chiese a Roger Waters il permesso di riprendere il gruppo mentre lavorava a quello che poi sarebbe divenuto uno dei loro album più celebri: “The Dark Side of the Moon”. Il regista filmò quindi i quattro musicisti negli studi della EMI ad Abbey Road, intervistò brevemente Gilmour, Waters, Mason e Wright e immortalò anche la band mentre faceva colazione alla caffetteria degli studi. All’epoca in cui il materiale fu girato (gennaio 1973), il gruppo era già in fase di missaggio dell’album: i singoli musicisti di fatto si prestarono – appositamente per Maben – a “recitare” le sequenze in cui appaiono sovraincidere su basi le loro parti strumentali (nessuna delle quali compare nella versione definitiva dell’album).
La seconda versione del film, allungata a circa 80 minuti grazie agli inserti sul making dell’album, uscì nell’agosto del 1974, quando “The Dark Side of the Moon” era già balzato in testa a tutte le principali classifiche mondiali proiettando i Pink Floyd verso un successo e una popolarità senza precedenti.
“At Pompei”, la musica diventa arte
Quando finalmente il documentario uscì nelle sale nell’agosto del 1974 tutte quelle persone che non avevano avuto il privilegio di vedere i Pink Floyd dal vivo, poteremo ammirare il loro grande fascino e la loro grande perizia con la sperimentazione elettronica fusa con la psichedelica e con alcune influenze modali della musica classica contemporanea. Le versioni di classici come la straordinaria suite “Echols” e gran parte dei brani di “Ummagumma”, furono esempi del personale modo di concepire la musica per la band inglese. Ancora oggi ascoltare quelle sonorità fuse perfettamente con la cornice di Pompei stimolano sensazioni molto intense, profonde. I Pink Floyd in quel contesto di cultura e architettura classica, hanno offerto una musica evocativa, suggestiva a volte struggente per la delicatezza dei passaggi armonici e melodici. Inquietanti e cerebrali sono alcuni momenti di improvvisazione pura novecentesca nel brano “A saucerful of secrets”, dove i quattro musicisti sono totalmente fusi con i lori strumenti che offrono un muro di suono moderno e originale. In quei momenti colti e raffinati la musica dei Pink Floyd assumeva una forma di vera e propria arte.
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