Prima fatemi fare un minimo di presentazione personale, perché nessuno di voi mi conosce. Mi chiamo Chiara Vitali e sono una bolognese doc, architetto, moglie e mamma. Nel tempo libero pianifico viaggi, supporto la passione di mia figlia per baseball e softball, brontolo dietro il mio gatto siamese e scrivo recensioni, fra le altre cose, per il blog Romanticamente Fantasy.
Complice il fatto che mio marito lavora all’estero, e quindi adora viaggiare, ogni anno scegliamo una meta estiva fuori dai confini italiani, e, coinvolgendo la famiglia di sua sorella, partiamo, in sette, all’avventura. Parigi, Londra, quest’anno New York. Meta probabile dell’estate 2018, le capitali del nord, Copenaghen e Stoccolma. Armati di bagagli (sempre troppi) bambini (per ora tre) e macchine fotografiche (mai abbastanza) partiamo verso ogni nuova città, certi di divertirci e sicuri di stancarci .
La tentazione di scrivere questo Diario di Viaggio con lo stile semi serio che mi contraddistingue è tanta, quindi perdonate, fin d’ora, ogni digressione trash, con la speranza di accompagnarvi con una lettura vivace e interessante, e di invogliarvi a fare un salto in America. Ho scattato ogni foto che vedete inserita nell’articolo, che ha un’impronta molto “architettonica”. D’altra parte io viaggio con il naso in su, vagabondando alla ricerca di edifici, statue e chiese.
Come i marinai, che gridando “Terraaaa!” accendevano le speranze dei naviganti ormai disperati, così siamo sbarcati a New York, stanchi, stressati, desiderosi solo di arrivare in albergo, stenderci sul letto e non tirarci mai più su. Ma mai più davvero. Il viaggio aereo è lunghissimo, tutto fatto di giorno, e il tempo sembra non passare. Le tratte Bologna-Londra e Londra-New York durano un’eternità, e l’attesa all’aeroporto di Heathrow è infinita. Non sto ad annoiarvi su cosa significhi per un bambino fare un volo intercontinentale. I nostri sono grandi, vanno dagli 8 ai 12 anni, ma otto ore seduti in aereo sono tante per chiunque.
Ma, accidenti, siamo in America! L’architetto che è in me rialza la testa un filo ciondolante, e mi lancia dietro una serie di improperi. Basta brontolare. Vedrò con i miei occhi edifici che ho studiato sui libri, grattacieli e musei che in Europa ce li sogniamo, quindi è vietato lamentarsi. Ok, magari solo un pochino, va bene? D’altra parte è sera, la notte porta consiglio e riposo, e da domani l’America si aprirà alle nostre italiche esplorazioni.
Due parole sulla zona in cui abbiamo deciso di prendere l’albergo.
“Marco, dove prenotiamo?”
“A Wall Street, tesoro”
“Ma sei impazzito??? Non c’è niente a Wall Street! E come mangiamo?”
“Donna, fidati di me.”
“Mai.”
Regola numero uno, fidatevi SEMPRE di un uomo che viaggia per lavoro. Al nostro arrivo ci accoglie un albergo delizioso, il Wall Street Inn, un po’ retrò, posizionato, incredibilmente, nel centro dell’area dei locali newyorkesi, a Lower Manhattan.
Nel cuore del Financial District, a due passi dal World Trade Center, dalla sede della Federal Reserve e della New York Stock Exchange, sorge un universo pulsante di locali, tutti uno di fianco all’altro, che ogni sera sono stati oggetto delle nostre attenzioni. Posizionati tutti nello stesso isolato, antico e basso, quasi a volersi tenere per mano per la paura di essere schiacciati dai bestioni di 50 piani che li sovrastano, sorgono almeno una decina di pub, uno più accogliente dell’altro. Irlandese, tedesco, messicano, brasiliano, ovviamente yankee, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ogni sera mi immagino debbano essere visitati dai giovani leoni della finanza mondiale, che, tra una birra e un hamburger, dimenticano i dolori della borsa.
A capeggiarli la Fraunces Tavern, piccola, antica e quasi mitologica taverna. Su di essa devo spendere due parole. Intanto una doverosa precisazione. Quando si descrive qualcosa di americano con il termine “antico” non si va molto indietro negli anni. L’America è giovane, straordinariamente giovane, per un europeo come me, ed è super orgogliosa di ogni traccia del suo passato, tanto che non perde occasione di metterlo in mostra. L’edificio che la ospita, molto modesto, a dire il vero, è del 1719. Prima abitazione del mercante Stephan Delancey, fu trasformata in locale d’accoglienza nel 1762 da Samuel Fraunces. È famosa perché, tra le sue mura, George Washington tenne, nel 1783, il discorso d’addio agli Ufficiali dell’Esercito Continentale. Oggi ospita un museo (poca roba) e un ristorante, ed è conservata esattamente nelle condizioni originali. Valore aggiunto, offre un ottimo cibo, forse il migliore che abbia mangiato in America, curato nell’aspetto e ricercato nel gusto. Salmone, filetto, gli immancabili hamburger, ma in una veste moderna e un po’ fusion che stupisce i palati più esigenti. Un must da visitare, ve lo garantisco.
La prossima puntata: 29 gennaio 2018.
Tutte le immagini, se non altrimenti specificato, appartengono a Chiara Vitali e non possono essere utilizzate senza l’autorizzazione della stessa.
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