“Dedico questo film ai miei figli, unico squarcio di luce nelle notte più buia…” (Alejandro Inarritu)

Emozioni e sofferenze del nuovo millennio

È sicuramente uno dei film più intensi e rappresentativi del nuovo millennio. “Babel” del cineasta messicano Alejandro Inarritu ha lasciato un segno indelebile per le emozioni evocate da questo vero e proprio affresco della disperazione e della sofferenza umana. Non a caso ha chiuso la “trilogia” sulla morte iniziata con “Amores perros” e proseguita con “21 grammi”. Dopo aver debuttato a Hollywood con star del calibro di Sean Penn, Benicio Del Toro e Naomi Watts in “21 grammi”, Inarritu era intenzionato a proseguire il suo percorso interiore per capire la natura più intima e profonda del dolore e delle angosce degli esseri umani.  La conclusione della cosiddetta trilogia sulla morte doveva avere un respiro più corale e internazionale. Il film è infatti ambientato negli Stati Uniti, in Messico, in Marocco e in Giappone. Tre continenti: America, Asia e Africa per descrivere tre mondi lontanissimi, profondamente differenti, tutti però accomunati dalla medesima angoscia, sofferenza, dolore e istinto di sopravvivenza. Il soggetto, scritto magistralmente a quattro mani con l’amico Guillermo Arriaga, descrive con atmosfere diverse, colori e sensibilità le tre situazioni che si incastrano tutte come per magia grazie ad un fucile da caccia. L’arma è infatti lo strumento che condiziona i destini incrociati di un pastore marocchino e la sua famiglia, un intellettuale giapponese con la sua figlia adolescente sordomuta e una coppia borghese statunitense in crisi durante una vacanza in Marocco.

Inarritu racconta con grande poesia la solitudine e i confini geografici, culturali e psicologici che la generano; rappresenta la cognizione del dolore, il destino ineluttabile dell’uomo e le difficoltà di comunicazione dei sentimenti che possono unire e dividere.

A differenza dei precedenti film, pervasi totalmente dal pessimismo e dall’assenza di qualsiasi speranza per gli esseri umani, in “Babel” Inarritu sembra poter credere in un residuo di bontà nell’animo umano. Le tre storie unite tragicamente da un fucile da caccia non si concludono tutte negativamente, come se un disegno superiore abbia voluto aiutare i loro fragili e disperati protagonisti.

I punti di forza di questa epopea sul dolore e sulla redenzione sono la scrittura, la fotografia di Rodrigo Prieto e le straordinarie musiche dell’argentino Gustavo Santaolalla più il brano di chiusura “Bibo No Aozora” di Ryuichi Sakamoto.

Anche il cast è assolutamente perfetto: un mai così espressivo Brad Pitt, una meravigliosa e intensa Cate Blanchett, la messicana Adriana Barraza (la baby sitter che rischia di far morire i bimbi americani del deserto), il sempre convincente messicano Gael Garcià Bernal, la nipponica Rinko Kikuchi nel ruolo della figlia sordomuta di Koji Yakusho, uno dei più importanti attori giapponesi viventi e i due straordinari bambini marocchini Mustapha Amhita e Mohammed Boubker.

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Alejandro Gonzales Inarritu, 51 anni, nato a Città del Messico, è uno dei più significativi talenti emersi negli ultimi 15 anni. I suoi film hanno sempre fatto discutere e non sono mai passati inosservati per le complesse tematiche affrontate.  Prima di focalizzare il suo interesse per il cinema, il giovane Alejandro Inarritu era un grande appassionato di musica e amava molto la radio.