Adozioni? Utero in affitto? Una questione molto dibattuta.
Per la Rubrica “Pensieri Sparsi”, vi presentiamo un articolo di Luce Loi.

Francesca era adolescente quando ha saputo che non avrebbe mai potuto avere figli. A causa di una malattia ha subito un delicato intervento e da allora vive con questa consapevolezza e una pillola da prendere tutti i giorni.

La sua vita, oggi, è perfettamente normale. Ha un’attività, un marito che la ama, una casa di proprietà. E il sogno di adottare un bambino. Mi ha raccontato dell’entusiasmo con cui lei e il marito hanno iniziato questo percorso. Ci conosciamo dai tempi dell’università, ma non c’incontriamo spesso. Ogni volta che possiamo ne parliamo. Sono quasi tre anni che hanno iniziato il percorso e solo lo scorso mese hanno potuto vedere il primo bambino. Fin ad allora è stata un’estenuante gara al massacro, fatta di esami, indagini psicologiche, corsi formativi, colloqui con assistenti sociali, associazioni, e corse in giro per l’Italia. Dei soldi spesi, pari a quasi due anni di stipendio del marito, ne parla appena. Mi racconta delle domande trabocchetto a cui lei e il marito dovevano rispondere separatamente, però, o delle visite di idoneità fisica e psicologica e delle difficoltà nel trovare una nazione estera che accetti la loro domanda. I requisiti sono svariati, da chi chiede almeno cinque anni di matrimonio a chi pretende un certificato di sterilità irreversibile. Dell’adozione nazionale non se ne parla: un’assistente sociale le ha chiarito che i bambini italiani sani sono molto richiesti all’estero, e gli stranieri possono pagare cifre più alte. Un bambino portatore di handicap, invece, potrebbe portarselo a casa anche subito.

Alla fine, dopo tanta fatica, hanno ottenuto l’idoneità per l’adozione internazionale e sono partiti per la nazione estera prescelta. Arrivati lì, però, si sono trovati davanti a un muro insormontabile. L’idoneità faticosamente conquistata in Italia lì non è valida. La ragione è molto semplice: ricordate la pillola che Francesca prende tutti i giorni? Bene. Quell’intervento di 20 anni fa significa che lei è una donna malata, e quindi non adatta a occuparsi di un bambino sano. A donne come lei possono dare solo bimbi con malformazioni più o meno gravi. Gliene propongono tre: un bambino senza una gamba, uno malato di cuore, un altro con problemi psichici. Francesca si giustifica, dicendomi che ha rifiutato per via del suo lavoro, dei genitori anziani, della casa al quinto piano senza ascensore e della distanza di oltre un’ora dall’ospedale più vicino. “Non posso farmi carico di un bambino malato” mi dice, e capisco cosa prova. Ma per me non ha bisogno di giustificarsi. Chi ha sofferto tanto non chiede altro dolore, ma solo un po’ di serenità.

Saranno costretti a riprovare in un’altra nazione. Ma, a breve, il loro decreto esecutivo scadrà. E a quel punto dovranno rifare tutto da capo: esami, visite, colloqui. Le chiedo se dovranno pagare di nuovo quella cifra, mi risponde di sì. La guardo e le faccio notare che con quei soldi può permettersi un utero in affitto all’estero e le avanzerebbe anche qualcosa. Lei sorride, scuote la testa: “Voglio dare una casa a un bambino che già c’è.”

Non so dove trovi la forza. Mi sembra assurdo che una donna come lei, piena di amore e di entusiasmo, che chiede solo di poter accogliere un bambino abbandonato, debba subire tutte queste umiliazioni.
Lei capisce il mio turbamento. Mi abbraccia e tira fuori la sua allegria, che nonostante tutto non l’abbandona. “Non mi arrendo” dice. “Vedrai che ce la faccio.”

La abbraccio, le prometto che ripasserò a trovarla al più presto.
La lascio lì e faccio pochi passi. Qualche metro più avanti c’è l’ex-orfanotrofio. So come funzionava: i figli indesiderati venivano lasciati lì, in attesa. A volte tornava la madre, regolarmente sposata, oppure li sceglievano le donne che non potevano avere figli, o che ne avevano appena perso uno. L’unica spesa per lo Stato era la cifra corrisposta alle donne che li allattavano, le balie. E alcune di loro decidevano di tenerli con sé.

So cosa state pensando: i bambini di allora non erano tutelati come oggi. Non si aveva la certezza che finissero in buone mani, che fossero amati. Mi viene da rispondere che nemmeno oggi l’abbiamo e anche che bisognerebbe pensare a tutelare anche chi quei bambini li vorrebbe adottare. Ormai dai genitori, biologici e non, pretendiamo troppo. Sessant’anni fa non avevi bisogno di due stipendi e una casa di proprietà per adottare un bambino, e nemmeno di spendere poco meno di quanto tuo marito guadagna in due anni. Sessant’anni fa non dovevi aspettare tre anni per poter vedere il tuo possibile figlio, e quel figlio non si ritrovava a crescere in una struttura per anni e anni, ma poteva sperare subito in una famiglia, in una casa.

Ogni bambino ha diritto a un’infanzia serena. E ogni adulto dovrebbe avere il diritto di poter dare amore a chi ne ha bisogno. Due solitudini che chiedono solo di incontrarsi, nonostante siano divise dal muro sempre più alto della burocrazia.

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Luce Loi è scrittrice di romance contemporanei. Vi ricordiamo il suo ultimo libro “Tra le stelle e le onde”, pubblicato con Cento Autori.

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Cristina, studentessa ventiduenne, si dedica anima e corpo all’università e sembra del tutto disinteressata ai ragazzi. Ma quando la settantenne nonna Elsa le propone di partire con lei per una crociera nel Nord Europa accetta, entusiasta. Non sa che si tratta di una trappola: Elsa, temendo di non riuscire a vedere la nipote sposata, ha consultato un’amica cartomante, che le ha predetto che Cristina troverà l’uomo giusto per lei su una nave. E sarà un uomo con gli occhi chiari. Peccato che, in crociera, ben più di un giovanotto corrisponda ai requisiti! In un tourbillon di eventi che la vedono impegnata a sfuggire al numerosi ammiratori, tra gag, imbarazzanti equivoci e intrusioni della nonna, Cristina cercherà di dare un ordine alla sua vita. Sarà quello predestinato dalle stelle?

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L’immagine è tratta dal sito http://www.carabinieri.it