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“Poi ecco l’ultimo dono da incartare: con cura infinita, impacchetto il regalo più importante di tutti, il tuo. Ho scelto una carta pregiata, pesante, porosa e blu scuro, il tuo colore preferito.” Eppure, sarà un altro il dono -impalpabile- che la protagonista consegnerà.

Il Natale si è avvicinato a grandi passi cogliendomi, come ogni anno, impreparata e inquieta. Il catenaccio dei regali da fare ‘perché si deve’ l’ho concluso alcuni giorni fa, con ancor meno originalità e brio del solito.
Conoscendo il progredire del mio umore nero ho lasciato per ultimi quelli che mi piace davvero scegliere, nella speranza che mi aiutino ad arrivare alla fine di questo ennesimo dicembre: il trenino di legno per il mio piccolo di quattro anni che ha ancora la magia negli occhi, il microscopio per sua sorella grande che vuole capire il perché delle cose, il romanzo dallo stile sconvolgente per una delle mie migliori amiche, l’album della jazzista afgana dalla voce incredibile per l’altra.
Poi ecco l’ultimo dono da incartare: con cura infinita, impacchetto il regalo più importante di tutti, il tuo. Ho scelto una carta pregiata, pesante, porosa e blu scuro, il tuo colore preferito. Nessun disegno, nessuna scritta beneaugurale, nessun decoro, solo una bellissima distesa color inchiostro, ravvivata da un semplice cordoncino argento: avrei voluto fare una gassa d’amante al posto del solito nodo doppio, ma non ricordo come si fa. Nessun biglietto pende dal fiocco semplicissimo che ferma il nodo, non serve. Infatti ho scritto la dedica che ho pensato per te sulla prima pagina, di modo che accanto alla mia foto che ti piace tanto (quella seppiata, dove non porto gli occhiali e in cui ho quell’espressione un po’ malinconica da diva degli Anni Venti) ci siano vergate, con la mia fidata stilografica dall’inchiostro viola, le parole che voglio siano solo tue. Ho firmato col soprannome che mi hai dato quella notte di diciassette anni fa, quel nome da regina degli elfi e delle fate usato solo tra noi.

Sì, è una copia del mio libro quella che ti sto portando ora. So che sei fiero di me, sento che me lo sussurri all’orecchio, scostando con un alito di vento lieve i miei capelli rossi dal taglio asimmetrico.
Ho aspettato troppo tempo, lo so. Questa copia, la prima che ho stretto tra le mani, è sempre stata per te. Avrei voluto portartela prima, ma non era mai il momento. Mille impegni, il lavoro, le cose da fare… ovvero, sinceramente, non ne avevo il coraggio. Come non ho avuto la forza di venirti a trovare in questi due anni e mezzo. Mi sono insultata più e più volte per la mia viltà, ma persino le poche volte che sono riuscita a guidare fino a lì, non sono riuscita a scendere dall’auto.

Tu lo sai che ti penso ogni giorno, che ti parlo come se fossi nella stanza accanto, ridendo delle battute e dei tormentoni che erano solo nostri. Sai che ti metto al corrente di ogni cosa mi succeda, anche di quelle che possono non farti piacere, come un nuovo amante o una storia importante che si profila all’orizzonte. Sai che ti scrivo ancora quando non riesco a farti capire una cosa che mi sta a cuore: quel bel quaderno verde-acqua rilegato a mano che mi regalasti per i miei ventotto anni è quasi pieno di parole per te, scritte con la mia orrenda grafia che sei ancora l’unico in grado di decifrare oltre a me. E sai che quando penso di averti deluso, come è sempre stato, preparo i muffin al cioccolato, mi siedo sullo sgabello della cucina e ne spezzo uno a metà, chiedendoti scusa mentre te ne offro una parte.
Ma oggi ho sentito che era il giorno giusto. È il ventitré dicembre, a detta tua il più sfigato dei giorni, quello in cui noi, strambi come al solito, ci scambiavamo i regali. Allora era bello anche il Natale. Oggi invece sono qui a darti il mio ultimo dono.

Sai… ho esitato davvero tanto al cancello. La codardia stava per prendere il sopravvento di nuovo. Stavo per girare sui tacchi e tornare alla macchina, parcheggiata vicinissima. Il rombo nelle orecchie, la sciarpa che mi si stringeva al collo e la mia voce arrochita che riascoltavo come se quelle parole le avessi pronunciate il giorno prima:
Solo il cielo infinito a contenere l’amore che scorre, oggi come sempre, tra tutti noi. Un cielo a volte sereno, limpido e immenso; a volte cupo, opprimente e del colore del petrolio.
Proprio come le nostre vite: momenti di una felicità assoluta e perfetta, affiancati a momenti disperati in cui la luce ci sembra solo un sogno fatto milioni di anni prima.
Esattamente come ora. Tutto è buio, tutto è infelicità, tutto è incubo.
Il vento gelido che mi fa lacrimare gli occhi, aridi fino a questo momento, mi ha riportato il coraggio e la decisione. Non voglio scappare ancora. Voglio darti di persona il mio libro.

Cerco di respirare profondamente, ma il freddo pungente mi chiude il naso e la gola. La determinazione non può nulla se il respiro si blocca e l’aria non passa.
Non voglio svenire, non voglio scappare, non voglio piangere, non voglio urlare, non voglio essere qui, non voglio andare via. Annaspo in cerca di aria, boccheggio. Mi aggrappo con entrambe le mani al cancello per non cadere, mentre il gelo del ferro battuto scotta i miei palmi senza guanti.
Il rombo nella testa ricomincia, le gambe tremano. Lacrimo, ma non piango. E ancora la mia voce, ma come posso ricordarmi qualcosa che non rileggo da quasi tre anni? Eppure non una parola è diversa come la scrissi, da come la recitai:
Se n’è andato. Puoi versare lacrime perché se n’è andato oppure puoi sorridere perché è vissuto. Puoi chiudere gli occhi e pregare che torni oppure puoi aprire gli occhi e vedere tutto ciò che ha lasciato. Il tuo cuore può essere desolato perché non lo puoi più vedere o puoi essere pieno dell’amore che hai condiviso. Puoi voltare la schiena al domani e vivere di ieri oppure puoi essere sereno per il domani a causa di ieri. Puoi ricordare che se n’è andato oppure puoi tenere caro il suo ricordo e farlo rivivere nel tuo cuore. Puoi piangere e chiudere la mente, svuotarti e tornare indietro oppure puoi fare ciò che avrebbe voluto lui: sorridi, apri gli occhi, ama e vai avanti!

Inizio a respirare di nuovo. Piano piano. Inspiro e mi stacco dall’inferriata. Espiro e mi ripeto: «Sorridi, apri gli occhi, ama e vai avanti!» Ma non è la mia voce nel ricordo a parlare adesso, sono io. Sono io che mi ripeto questo mantra, mentre varco quella cancellata lugubre, perché so che questo hai sempre voluto per me. «Ama e vai avanti… Ama e vai avanti… Ama e vai avanti… Ama e vai avanti… Ama e vai avanti…»
La stessa frase che mi sono ripetuta, piangendo, per giorni, dopo aver baciato per la prima volta un uomo che non eri tu. La stessa frase che mi sono ripetuta per ore, prima di andare a letto con un uomo che non eri tu, con il timore di una vergine e il senso di colpa di una traditrice. La stessa frase che mi dà coraggio ancora adesso, quando mi sembra di farti un torto, di ingannarti, di perderti.
«I miei ‘per sempre’ sono veri» ti dicevo.
«Mi bastano i tuoi ‘finché sei qui con me’! Ricorda sempre: ama e vai avanti, qualunque cosa succeda…» mi rispondevi.
Mi sembrava impossibile che potesse finire. Impossibile che i miei “per sempre” non fossero tali.
Ma ce l’ho fatta! Mi vedi? Sono qui… Il mantra mi ha guidato sui sassolini del vialetto, scricchiolanti sotto le suole delle mie scarpe. Dritta, senza guardarmi in giro, mentre l’oscurità già inizia a calare. Svolto a sinistra, senza esitazioni. So esattamente dove sei. So dove ti ho lasciato.

Il cipresso che veglia su di te è cresciuto parecchio da quel giorno d’aprile. Il mio passo non rallenta fino a che ti giungo accanto.
Mi siedo sul marmo gelido che vedo per la prima volta. Mio padre ha seguito le mie istruzioni alla lettera: semplice, bianco, senza immagini, senza nome, senza date. Un’unica incisione: Addio F. uomo, benvenuto F. spirito.
Guardo quel rettangolo freddo e candido che dovrebbe sigillare una vita e invece mi accorgo che, ora più che mai, sei con me. Nei miei ricordi e nel mio presente.
Per quello che mi hai dato e per quello che mi hai tolto. Per come mi hai fatto diventare e per come mi hai impedito di essere. Per le emozioni, per l’amore, per l’allegria, per la rabbia, per il dolore, per le sconfitte che abbiamo condiviso. Per i piccoli fatti quotidiani e per gli eventi straordinari. Per le volte che rimediavi alle mie distrazioni e per le volte che mitigavo la tua ira. Per le volte che hai suonato per me e per le volte che io ti ho letto i miei scritti ancora acerbi. Perché quando ti ho chiesto cosa avessi visto in me, in quella ragazza di vent’anni, mi rispondesti: «La donna che sei ora.»

Senza che me ne accorga, la mia voce si alza limpida, a recitare quei versi che mandavi a memoria e che mi insegnasti. La tua bella voce si unisce alla mia, e il ricordo lascia che trapeli una piccola nota di malinconia.
La terra emana una vibrazione
là nel tuo cuore, e quello sei tu.
E se la gente pensa che sai suonare
ebbene, suonare devi, per tutta la vita.
Come potevo coltivare i miei quaranta acri
per non parlare di acquistarne altri,
con una ridda di corni, fagotti e ottavini
che cornacchie e pettirossi mi agitavano in testa
e il cigolio di un mulino a vento – solo questo?
E non ho mai cominciato ad arare in vita mia
senza che qualcuno si fermasse per la strada
e mi portasse via a una danza o a una merenda.
Finii con quaranta acri;
finii con un violino spezzato
e una risata rotta e mille ricordi,
e neppure un rimpianto.*
Con lentezza infinita poso il piccolo pacchetto blu accanto all’incisione marcata di nero, nello spazio lasciato vuoto dalla foto che non avresti voluto.
Lascio che una lacrima scorra sulla mia guancia sinistra, mentre rivedo la tua mano calda che la asciuga come faceva sempre. Ricordo la tenerezza con cui mi arruffavi i capelli per consolarmi quando piangevo, proprio come si fa con i bambini piccoli, e alzo gli occhi al cielo invernale ormai buio, ma limpido e luccicante di stelle.

E la donna che ero, recita ancora nella mia testa quelle ultime parole:
All’improvviso una piccola scintilla brilla là in fondo. Guardando meglio vediamo un piccolo flash-back… è un sorriso. Là in fondo un altro bagliore: una stretta di mano, poi un abbraccio, un bacio, una risata, un sospiro.
Infine eccoli, tutti i momenti che abbiamo passato con lui, tutti qui, tutti piccoli diamanti scintillanti che illuminano l’oscurità. E adesso vediamo che sono talmente tanti che il buio non c’è più! Abbiamo solo un meraviglioso cielo stellato, dove la Luce coesiste con l’Ombra nello spettacolo della Vita.
E il sorriso, finalmente, si apre sul mio viso: sincero, aperto, sereno. È questo il mio ultimo regalo per te.

* Il violinista Jones, di Edgard Lee Masters in L’antologia di Spoon River.

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Monia Rota è il vero nome di un’autrice con diversi titoli all’attivo. Qui ha scelto per la prima volta di pubblicare col suo vero nome, perché quel che scrive è talmente vero da doverlo essere anche la sua firma. Simboleggia il ripartire da zero, esattamente quel che devono fare le persone che vorrebbe aiutare, offrendo le sue parole.