All’inizio per me l’immortalità era sinonimo di Paradiso: quindi qualcosa che non esisteva su questa terra, ma in un’altra dimensione, e certo molto desiderabile. In fondo la morte è il più grande spauracchio dell’essere umano. La prima crepa in questa granitica certezza me la procurò un ragazzino che si preparava alla prima comunione. Il Paradiso lo spaventava perché lì si sarebbe annoiato a morte, mi disse: tutto il giorno a pregare senza fare nient’altro, uffa! Perché, bisogna ammetterlo, il Paradiso cristiano è povero di particolari: si sa quello che non è, molto più di quello che è.
E poi ci fu Umiliati per forza maggiore, un episodio della serie storica di Star Trek, dove in un pianeta lontano Kirk e i suoi incontravano i Platoniani, un popolo di cosiddetti saggi seguaci del filosofo greco, che, migrati lì dalla terra, vivevano ancora dopo migliaia di anni. Anche in questo caso l’immortalità era vista in modo negativo come noia infinita e addirittura degenerazione sadica.
E vi ricorderete che in Highlander. L’ultimo immortale (1986) Connor non solo deve combattere per secoli con gli altri immortali sulla base del principio “alla fine ne resterà soltanto uno”, cambiando continuamente identità e paese, ma per lui tale condizione significa continua sofferenza, dal momento che, per forza di cose, perderà la donna amata (che invecchierà e morirà normalmente, mentre lui resta sempre giovane) e via via tutti gli affetti. Quando finalmente avverrà l’ultimo duello e il bene trionferà sul male, paradossalmente la ricompensa consisterà proprio nella riconquista della mortalità e quindi della possibilità di mettere al mondo dei figli e avere una vita normale come tutti gli altri, finale che, lo confesso, allora mi parve balzano.
Qualcosa di analogo succede nei time travel scozzesi della Rock, a partire da Il bacio dell’highlander.
Quando incontra Lily e si accorge che lei riesce a vederlo, a differenza degli altri, Iain, a causa di una maledizione, vaga ormai da cento anni nella foresta e a turno con i suoi due fratelli fa la guardia ad una certa porta fatata per evitare che i Sidhe, suoi misteriosi nemici, la oltrepassino. Una condanna terribile perché l’immortalità non è un dono quando sei condannato a una peregrinazione senza fine.
Quale potrebbe essere la sua salvezza? Agli anziani della foresta piaceva raccontare che il vero amore fosse l’unica via per uscire dall’immortalità. Sarà vero?
“Ti amo, Iain!” urlò Lily a pieni polmoni.
Le parole gli squillarono nelle orecchie come una campana. Echeggiarono ancora e ancora, uno scampanio continuo. Le udì e le sentì dentro di sé, come una freccia che gli trapassava il cuore.
Così, almeno per lui, l’incantesimo sarà sciolto. E poi… poi la vita vera è molto più magica di qualsiasi cosa dall’altra parte di quella porta fatata.
In tutti i romance su questo genere di tematiche, del resto, c’è il problema del lieto fine: come è possibile amarsi per sempre, come è d’obbligo nel genere, se lui vivrà per secoli e millenni e lei invece per la “breve” durata di una vita? La soluzione è semplice: alla fine del romanzo dovranno essere tutti e due immortali o tutti e due umani. All’autrice spetta il compito di escogitare la soluzione.
Dopo il precedente di Twilight, questa connotazione si è riproposta, in modo rafforzato, in alcune serie paranormali, ad esempio quella dei Principi azzurro sangue della Gianinetto, genere vampiri perbene. Prendiamo in esame Patrick, cioè il romanzo sul capo dei vampiri, il più anziano e il più saggio.
Certo, il concetto di eternità non è qualcosa con cui sia facile scendere a patti, per nessuno. Non lo era nemmeno per quelli come loro, nonostante venissero dotati di un kit genetico nuovo di zecca non appena riaprivano gli occhi sulla loro seconda vita, il quale comprendeva alcune fondamentali risorse per evitare di andare fuori di testa anche solo al pensiero di dover vivere per sempre. Una diversa percezione del tempo, tanto per citarne una, che smetteva di essere una linea retta per diventare un moto circolare, eterno per sua stessa natura.
Anche così, comunque, non era esattamente facile essere quello che erano, e per alcuni lo era meno che per altri.
Attivo da ottocento anni, il protagonista, pur conservando i valori del bene e della giustizia, ha perso nel corso del tempo ogni sensibilità:
Patrick faceva sempre quello che aveva voglia di fare, senza esitare e senza interrogarsi sul perché ne avesse voglia. Era una specie di regola, maturata nei lunghi secoli della sua esistenza, durante i quali aveva smesso quasi completamente di desiderare. Ogni barlume di desiderio, per quanto fragile e inconsistente, era come una boccata d’aria fresca per la distesa piatta e sconfinata delle sue emozioni di immortale.
Cioè una vita ripetitiva gli ha tolto quasi del tutto persino alcuni sensi e innanzitutto la capacità di amare.
Si stupiva sempre quando trovava qualcosa in grado di risvegliare i suoi sensi ormai quasi del tutto disumanizzati. Eppure la sensazione che gli provocava quel vino era vagamente simile a quella del sangue. Anche di quello, comunque, doveva berne sempre meno: presto o tardi, si disse con un brivido, sarebbe bastato completamente a se stesso, senza più alcuno spiraglio aperto verso i piaceri della vita, né verso qualunque altra creatura senziente.
E il sesso, allora?
Ogni tanto, sempre più raramente in realtà, gli capitava di incontrare delle donne con cui decideva di fare sesso. Le femmine umane avevano istintivamente paura di lui e di solito gli stava bene così: serviva a tenerle a distanza. Ma a volte capitava che una di loro riuscisse ad avvicinarglisi abbastanza da suscitare in lui un pallido barlume di interesse, tanto da indurlo a trascorrere qualche ora con lei. Ma mai, nemmeno una sola volta, aveva permesso che quelle donne provassero paura, o dolore, e mai aveva fatto loro del male. Anzi. Sapeva che, nonostante non ne serbassero alcun ricordo, il tempo passato con lui le avrebbe rese inconsapevolmente felici per parecchio tempo. Era un compromesso.
Invece, con nostra grande soddisfazione, l’incontro con Anita, cioè un personaggio con doti davvero pericolose per la stirpe dei vampiri, gli restituirà la sensibilità in modo inaspettato, forse anche per chi legge.
Fuori dell’ambito del romance vero e proprio troviamo i vampiri permale, che per me vuol dire innanzitutto Raistan della Guglielminetti. Per la verità io ho letto solo Ascesa alle tenebre (e quindi forse non ho in mano tutte le caratteristiche del personaggio), proprio perché questo genere non mi piace, indipendentemente dal valore letterario, senza dubbio notevole, della scrittura e nonostante non si tratti proprio di un dark. Raistan è un personaggio che sfugge agli schemi: ama alcune persone, un po’ umani un po’ vampiri, non è monogamo, ma ha rapporti sessuali occasionali o anche amorosi e perfino ogni tanto omosessuali. Non è proprio malvagio, ma certo uccide, quando può, i suoi nemici, di varie specie demoniche, e sistematicamente almeno una volta al giorno qualche umano per nutrirsi: in genere, ma non sempre, sceglie barboni e simili, cosa che, lo confesso, non mi consola affatto, anzi mi sa un po’ di eugenetica. Il quadro generale che esce fuori dal primo volume è davvero desolante, almeno per i miei gusti.
Ma mi spingo a dire che nessuno vorrebbe mai un’esistenza così. Del resto, se Coppola ha rappresentato il vampirismo di Dracula come la potenza della sessualità nascosta dietro il perbenismo vittoriano, nel Nosferatu di Herzog esso era, invece, il simbolo di ogni tipo di emarginazione e si identificava con lo spirito critico controcorrente.
Certo che il mondo cristiano abbia prodotto queste varie concezioni dell’immortalità è davvero strano. Probabilmente è successo perché una simile condizione è troppo diversa dalla realtà che conosciamo e di cui abbiamo esperienza. E sembrerebbe che in fondo al nostro inconscio non la desideriamo affatto.
Meria Teresa Siciliano gestisce anche la Rubrica di recensioni “L’Artiglio Rosa“
GIORGIA GOLFETTO: Interessante riflessione. Devo ammettere che non mi ero mai soffermata a riflettere su questo aspetto del paradiso.
MARIELLA MOGNI: Grazie per la bella riflessione. Ecco perché leggendo la Divina Commedia ci sentiamo più a nostro agio nell’Inferno che nella beatitudine immobile del Paradiso. Siamo fatti per essere imperfetti e transitori, la fissità, la stabilità, del per sempre è fonte di noia, inquietudine, di male nei casi estremi.
LIA WINCHESTER: Io penso che non sia proprio il concetto di immortalità in sé a far male, ma quello di immortalità associata alla mortalità di chi amiamo. Non è che non vogliamo vivere per sempre, non vogliamo sopravvivere ai nostri cari (un po’ come nell’esempio di Highlanders). Certo, anche la noia potrebbe essere un deterrente, ma trovo che la vita riservi talmente tante opportunità che uno, volendo, potrebbe non annoiarsi mai. Basti solo pensare a quanti strumenti musicali potremmo imparare a suonare, a quante materie potremmo studiare a fondo, a quante “arti” esistano in generale. E poi c’è il campo della ricerca, quello non si ferma mai. E un essere immortale potrebbe viaggiare nello spazio, scoprire altri mondi…
TERESA SICILIANO: Difatti in alcune di queste serie i personaggi prendono decine di lauree. Ma, sai, dopo tanti secoli anche questo stufa. O almeno così pensano le autrici.
LIA WINCHESTER: Mah, non vedo come la ricerca scientifica o quella dello spazio potrebbe stufare. Lì si ha una continua evoluzione, si fanno continui passi avanti. Potrebbe diventare il progetto di una vita, anche immortale. Basti pensare a tutti quegli scienziati che devono necessariamente partire dagli studi altrui e lasciare i propri studi ai posteri, senza vederne mai il risultato concreto. Un immortale potrebbe vivere di ricerca, secondo me. Non può di certo annoiare un campo in cui si scopre di continuo qualcosa di nuovo. Ma l’immortale scienziato “non fa figo”, quindi è un territorio ancora inesplorato. O forse è proprio come si diceva nell’articolo: non è facile immaginare una realtà troppo diversa dalla nostra.
MADDALENA CAFARO: Sì Lia ma mentre la materia si evolve chi la studia si troverebbe bloccato in una routine eterna, non ci sarebbe quel guizzo di vitalità, di cambiamento, che è il sale della vita. Oltretutto, la ricerca scientifica, è qualcosa che ti porta a lavorare molto in autonomia o comunque con pochissime persone. Il bello della mortalità e che sai che presto i domani finiranno, e avendone consapevolezza ti comporti di conseguenza.
TERESA SICILIANO: Qualcuno sostiene che la luce esiste solo in quanto contrario dell’ombra. Ugualmente la preziosità della vita è in stretta connessione con la sua “brevità”.
LIA WINCHESTER: Non so sinceramente se potrebbe davvero valere per tutti. Certo, si ritorna sempre alla questione “affetti”. Se si è l’unico immortale magari ci si stufa o si soffre troppo a veder soffrire gli altri, ma se si è un gruppo di persone… Vi sembrerò stupida ma se ci fosse il modo di vivere e di far vivere per sempre, che so, mia sorella e i miei genitori, i miei amici etc… anche la routine diventerebbe qualcosa di piacevole.
PAOLA GIANINETTO: Bellissimo articolo, Teresa! Sono onorata che tu abbia citato i miei Principi in questa riflessione sull’immortalità. E’ un argomento con il quale scrivendo mi confronto di continuo, tanto affascinante quanto difficile da affrontare. Quella che esprimo nei miei libri è per forza di cose la mia personale interpretazione, ma cerco di farlo nel modo migliore, senza superficialità, perché anche solo immaginare di vivere per sempre non è uno scherzo, per me.
Immortalità magari no (uhm…), però quei 2-300 anni in buona salute fisica e mentale… Se penso ai cambiamenti avvenuti negli ultimi cinquant’anni, posso immaginare come saremo fra un paio di secoli. Sono curiosa!
FEDERICA D’ASCANI: Io ci metterei la firma pure subito, per l’immortalità! Sono una persona estremamente egoista. Certo, troverei il modo di donarla anche alla mia famiglia, ma sarebbe una figata!
Posso essere sincera? Anche i parenti più amati… fra i piedi… per migliaia di anni… Pensiamoci!