Sono nata a Roma nel 1950, figlia di immigrati perché i miei genitori erano calabresi: si erano stabiliti nella città nei due anni precedenti e avevano solo la licenza elementare. Del resto nelle loro famiglie di origine c’era stato solo un caso di laurea fino a quel momento e lo zio ingegnere era il massimo vanto di tutti. Però avevo una madre molto intelligente e determinata, che avrebbe voluto continuare gli studi, ma non aveva potuto, perché al suo paese non c’era la scuola media e quindi avrebbe dovuto andare ogni giorno a Palmi, cosa all’epoca impensabile soprattutto per una ragazza. La nostra vita era piuttosto semplice perché tutti dovevamo fare sacrifici per poter acquistare un appartamento, a rate ovviamente. Nel 1957 finalmente ci trasferimmo in un quartiere nuovo che stava sorgendo in quel momento e che certo era ancora privo di tutti i servizi. Ma erano altri tempi, quelli del dopoguerra, e nessuno si lamentava, anzi ci sentivamo dei privilegiati.
Comprammo un televisore nel 1960 e, in mancanza quasi totale di libri e giornali, solo così il mondo entrò in casa nostra. Eravamo ancora all’epoca del bianco e nero, c’era un solo canale e i programmi cominciavano dopo le cinque del pomeriggio per concludersi in genere intorno alle 11. Però era la RAI pedagogica di Bernabei, cioè ad impronta rigorosamente cattolica e puritana, ma che tuttavia si collocava sulla linea culturale della generazione risorgimentale, che dopo l’Italia voleva fare gli italiani. Per questo ci fu un programma, Non è mai troppo tardi, tenuto dal maestro Manzi, che voleva lottare contro l’analfabetismo, ancora molto diffuso soprattutto nelle campagne e al sud. Era molto interessante e lo seguivamo anche noi che la licenza elementare ce l’avevamo già: un po’ per volontà di imparare, un po’ perché non c’era altro da vedere e soprattutto nient’altro da fare, una volta finiti i compiti e le faccende.
Tappa obbligata e imprescindibile tutte le sere era il telegiornale perché mio padre ci teneva molto a sapere cosa succedeva nel resto del mondo. E, se penso ai giudizi che esprimeva su avvenimenti molto importanti, oggi mi chiedo dove sarebbe arrivato se avesse potuto studiare di più.
Di film ne veniva trasmesso uno a settimana, il lunedì, e non credo di riuscire a spiegarvi con quanta ansia lo aspettavamo contando i giorni (-7, -6, e così via): venivano trasmesse le pellicole, come le chiamavamo allora, soprattutto ma non solo, degli ultimi vent’anni. Così con la famiglia riunita davanti al video vedemmo tutto il neorealismo italiano, oltre ai film americani che con la caduta del regime fascista erano stati sdoganati. Certo noi bambine e un po’ anche mia madre preferivamo le storie che ci permettevano di sognare, ma ricorderò sempre mio padre che, pur essendo un democristiano di ferro, ammiratore di Andreotti, apprezzava Ladri di biciclette o Il tetto perché, diceva, parlano di cose vere. E il venerdì c’era il teatro fra le proteste dei puristi secondo cui uno spettacolo dal vero è un’altra cosa, cosa indubitabile; ma il fatto è che solo di rado noi ci potevamo permettere di andare al cinema, figurarsi a teatro che costava molto di più. Ciò che meglio mi ricordo è l’impressione che mi fece Napoli milionaria di Eduardo e anche le commedie di Goldoni che venivano trasmesse regolarmente: nessun problema per capire il napoletano o il veneziano, un po’ perché gli attori ci aiutavano con la mimica, un po’ perché i vocaboli meno comprensibili venivano modificati. E c’erano sempre grandi discussioni fra noi, per lo più a carattere pedagogico-moralistico.
Del resto eravamo prima del Sessantotto e quindi tutta la sfera dell’amore, non parliamo poi del sesso, era preclusa a noi figlie e anche agli spettatori adulti. Inoltre mia madre ci invitava addirittura a chiudere gli occhi quando gli attori si davano un bacetto (baci appassionati mai) e dopo la prima puntata di Una tragedia americana venni mandata a letto regolarmente tutte le settimane. Ma, come immaginerete, riuscivo a sbirciare ugualmente lo schermo, nascosta dietro la porta socchiusa della nostra cameretta. La più grande trasgressione che mi ricordo: pagata con il fatto di dover vedere tutte le puntate in piedi e con il cuore in gola per la paura di essere scoperta.
Insomma, l’Italia era molto diversa da oggi e non sempre migliore, dato il maschilismo e il sessismo dilaganti. Cose che poi non tutti abbiamo superato neanche oggi: basta un’occhiata a Facebook per capirlo.
Però accanto ai programmi e ai film frivoli e superficiali c’erano anche veri e propri capolavori che venivamo aiutati a capire. E in particolare furono proprio gli sceneggiati televisivi a farci conoscere, e leggere, Dostoevskji e Tolstoj, Balzac, Dickens e tanti altri. C’era insomma il tentativo di far salire di livello gli spettatori, non di assecondarne anche gli istinti più beceri.
Io sono più “grande” di te, Teresa e ho vissuto gli anni della guerra e quelli seguenti in condizioni simili. Mio padre morì improvvisamente quando avevo 3 mesi e mia madre, venticinquenne, dovette rimboccarsi le maniche. Ha sudato, ha faticato, ma ha avuto delle soddisfazioni tra cui quella di farmi studiare. Anni difficili che tuttavia conservano una loro dolcezza e forse l’illusione di un rispetto per i valori che forse si è perduto.
Comunque ho adorato il tuo articolo
Paola Picasso
Grazie, Paola.
Sono nata due anni prima di Teresa, quindi i suoi ricordi sono anche i miei. Un amarcord con i fiocchi!
Io sono nata qualche anno dopo, non moltissimi, però il maestro Manzi me lo ricordo, forse perché mio padre, mia madre e anche la nonna, all’epoca, facevano i maestri. Forse la passione per l’insegnamento mi è venuta proprio allora. O forse no. Non mi ricordo.