L’Alchimia degli opposti 5 – LSDA

X

Tre ore.
C’erano volute tre ore prima che Greylord potesse rilevare un qualche tipo di movimento sul ricevitore delle due cimici. Seduto su uno dei due furgoni con il proprio braccio destro, Skinner, aveva avuto la tentazione infinite volte di fare irruzione nell’Amaranth per vedere quello che stava succedendo e aveva faticato sempre più a mantenersi fermo sul sedile. Il suo secondo gli lanciava di tanto in tanto occhiate incuriosite, fumando una sigaretta dopo l’altra e gettando la cenere fuori dal finestrino, ma senza commentare. Non aveva certo fatto salti di gioia, quando aveva saputo che avrebbero rischiato le chiappe per salvare un succhiasangue, ma sapeva dell’amicizia del suo capo con Van Hoeck e non aveva nemmeno iniziato una discussione, sapendola persa in partenza. Sul retro del mezzo, quello piazzato a poca distanza dall’uscita posteriore del locale, altri quattro uomini erano passati da un vago fastidio a vere e proprie proteste, ma Skinner stesso li aveva zittiti più volte, sapendo per esperienza che non era saggio portare il suo capo a un livello di nervosismo eccessivo. Persino un licantropo della sua età avrebbe potuto perdere la testa e trasformarsi in momenti poco opportuni.
“Tranquillo, il bestione biondo starà spaccando il culo a tutti, là dentro. Ci sono solo umani, no?”
“Non possiamo saperlo! Se non succede niente entro mezz’ora io entro, ti avverto, e voi vi comporterete di conseguenza. E dammi una sigaretta, porca puttana. Hai paura che muoia di cancro?!”
Skinner alzò gli occhi al cielo, poi gli porse il pacchetto di sigarette, da cui Greylord faticò non poco ad estrarre il cilindretto di veleno. Lo fece imprecando e con le mani che tremavano, e quando si accorse che l’amico lo stava fissando lasciò risalire un ringhio mortifero dalla gola.
“Non hai niente di meglio da guardare, Skin? Lasciami in pace! E che cazzo!”
“Va bene, va bene, scusa! Impazzito per una sanguisuga spilungona… robe da matti.”
Un attimo dopo, la mano di Greylord gli stava artigliando la gola in una presa ferrea e il suo viso era a pochi centimetri dal suo.
“Quando vorrò sapere la tua opinione in merito, te la chiederò, chiaro? Non mi rompere le palle!”
“Capo, quando ti ci metti sei una vera pigna nel culo. Ehi…” esclamò, dopo aver abbassato gli occhi sul ricevitore appoggiato sulle ginocchia di Greylord. Gli diede una gomitata, indicando lo schermo luminoso su cui il pallino rosso che rappresentava Raistan si stava spostando lentamente verso di loro. Greylord imprecò e si rizzò a sedere, gettando la sigaretta dal finestrino. Anche il secondo monitor indicava un’attività simile.
Dalla loro postazione, potevano scorgere la porta dell’ingresso di servizio del locale senza essere visti; dopo pochi istanti, videro uscire un gruppo di uomini che trasportavano qualcosa di grosso avvolto in un lenzuolo. Cristo… il lycan sapeva che il piano di Raistan consisteva nel farsi catturare per poter arrivare al suo amico, ma aveva sperato di vederlo almeno uscire sulle proprie gambe, anche se prigioniero. Prese il microfono della ricetrasmittente installata sul furgone e si mise in comunicazione con il secondo mezzo, senza mai perdere di vista i russi e il loro prezioso carico.
“Ci stiamo muovendo. Stateci dietro. Passo.”
“Ricevuto.”
“Vai, Skin. L’unica cosa che voglio è massacrare quei bastardi.”
“A me basta massacrare qualcuno, non faccio così il difficile. Se andasse male, possiamo papparci il tuo amico e la sua checca?” chiese l’uomo, un bestione barbuto che non avrebbe sfigurato in un bosco, a segare tronchi centenari, mentre si immetteva sulla strada principale con il furgone. Greylord stava per rispondergli in malo modo, ma vide il ghigno sulla sua faccia e si fece scappare una sghignazzata che lo fece sentire un po’ meglio.
“Bei tempi, quelli… ti ricordi com’erano buoni, quando la loro carne era intrisa di paura?”
“Ah, sì, non me ne parlare. E dopo una giornata al sole… croccanti fuori, morbidi dentro… cazzo, piantiamola, mi sta venendo fame.”
“Bene. Tienila per dopo. Svolta a destra, dopo quella pizzeria. Fantastici questi aggeggi moderni, specie quello che si è impiantato quel fottuto vampiro. Possiamo stare a distanza e non rischiare di essere individuati.”
“Meraviglie del mondo moderno, capo. Ai nostri tempi andavamo a fiuto…”

Dopo circa mezz’ora notarono che le lucine rosse su entrambi i piccoli schermi si erano stabilizzate.
“Credo che ci siamo. Fermiamoci laggiù, e organizziamoci. Entreremo mutati, in modo da non perdere tempo e da essere più resistenti ai proiettili, caso mai ci fossero guai. E prevedo che ci saranno. Non sono certo dei novellini, se hanno messo KO due vampiri come quelli.”
Skinner annuì, mentre parcheggiava il van accanto al marciapiede. Alla loro destra si estendeva la macchia scura di un grosso parco, a quell’ora deserto; il punto localizzato dal trasmettitore era qualche centinaio di metri più avanti, ma il lycan non voleva rischiare che i loro mezzi venissero individuati, senza contare che il parco era il luogo ideale per permettere alla bestia in loro di svegliarsi. Dopo pochi istanti, anche il secondo furgone si fermò a poca distanza dal primo. Sei uomini massicci e piuttosto incattiviti dall’interminabile attesa ne discesero, ruotando le spalle e la testa per sgranchirsi i muscoli del collo.
“Era ora, cazzo! E tutto per uno stronzo che starebbe meglio da morto!” ringhiò uno di loro, un biondo con una cresta da mohicano e la faccia da pazzo, noto nel branco di Greylord per aver strappato le braccia a un vampiro con la pura forza bruta. Gillespie, era il suo vero nome, ma tutti lo chiamavano Strip.
“Tu vedi di non cominciare, o ti rispedisco sul van a calci in culo, chiaro?” gli ringhiò Greylord, passando in rassegna uno ad uno i suoi uomini. Li aveva scelti per la loro ferocia, ma anche per la loro freddezza e indubbia intelligenza. Non voleva dei coglioni che dessero i numeri al momento sbagliato, mandando tutta la missione a puttane. Strip era un elemento di prim’ordine nonostante il suo odio estremo per i vampiri che, d’altronde, avevano sterminato la sua famiglia quando lui era ancora un bambino, parecchi secoli prima. Inoltre era un esperto elettricista, e a lui serviva qualcuno che sapesse armeggiare con fili e collegamenti per poter togliere la corrente al posto dove tenevano prigioniero Raistan e agire con il favore delle tenebre. Alla minaccia del proprio capo, Strip borbottò qualcosa di incomprensibile, ma non replicò.
“Allora, adesso ce ne andremo nel parco e muteremo, a parte Strip, che recupererà anche i vestiti di tutti e li riporterà sul van, poi ci seguirà. Ci divideremo in due squadre. Una si occuperà del fronte dell’edificio, l’altra del retro. Non porteremo nulla con noi, nemmeno armi, tanto non ne avremo bisogno. Solo auricolare e microfono per comunicare. Se troveremo delle guardie all’ingresso, le uccideremo in modo pulito e rapido e nasconderemo i loro corpi. Hai capito, Frank? Li nasconderemo, non li mangeremo. Ci vorrebbe troppo tempo. Chiaro, fin qui?”
Il lycan di nome Frank abbassò la testa e finse di giocare con un sassolino, mentre un ghigno malefico gli affiorava sul volto all’apparenza bonario. Gli altri annuirono e attesero ulteriori istruzioni, anche se avevano sentito quel discorso più e più volte, in quell’ultima settimana.
“Una volta dentro, Strip si occuperà di trovare il quadro elettrico e causare un bel blackout. Quando avremo il buio, ci divideremo e setacceremo il posto da cima a fondo, fino a quando non avremo trovato qualcuno che ci dica dove tengono i due vampiri, o i vampiri stessi. Cerchiamo di essere rapidi e silenziosi. Niente ululati e azioni scenografiche, chiaro? Non siamo sulla piana di Calais e questa non è una battaglia, è un raid con un obiettivo preciso. Vi voglio feroci e cazzuti, ma col cervello in funzione. Domande?”
“E se non fossero gli unici vampiri prigionieri? Il biondo sappiamo com’è fatto, ma dell’altro non conosciamo nulla. Avresti dovuto farti dire che aspetto ha…” disse Skinner, attirando cenni di approvazione tutt’intorno. “Ci manca solo di spaccarci il culo per il succhiasangue sbagliato!”
“Allora li libereremo tutti, ma spero che non ce ne sarà bisogno. Cercate uno con l’aria… elegante. Non so che altro dirvi. Ci terremo in contatto costante. Se qualcuno venisse ferito, cercherà un posto tranquillo per il tempo che gli serve a rigenerarsi; se non fosse in grado di muoversi, invece, il lupo più vicino a lui andrà ad aiutarlo. Forza, muoviamoci. Non manca molto all’alba. Tutto dovrò concludersi prima del sorgere del sole, o non riusciremo a portarli via. Direi che abbiamo circa… due ore. Non di più. Dopo sarebbe troppo pericoloso, per loro.  In bocca a noi, ragazzi. Mi aspetto il massimo da voi, e so che lo avrò.”
“Avete sentito il Comandante! Muoversi!” urlò Skinner, mettendo in moto la squadra che si addentrò nel parco deserto. “Ricordami perché lo stiamo facendo” disse a Greylord, quando tutti si furono allontanati. Non avrebbe mai messo in discussione una sua decisione davanti alla truppa.
“Perché io ve lo ordino. Anzi, no. Perché siamo un branco e il vostro capo ve lo sta chiedendo” rispose Greylord. Diede una pacca sulla spalla all’amico e, portando con sé il ricevitore su cui il puntino rosso che rappresentava Raistan era fermo da quasi un’ora, si addentrò nella vegetazione.

Dieci minuti dopo, undici licantropi e un umano dotato di ricevitore lasciavano l’oscurità del parco e si avvicinavano furtivi all’edificio da cui proveniva il segnale lampeggiante, sfruttando ogni anfratto per passare inosservati. Fortunatamente la strada era deserta e la zona ospitava pochi edifici, alcuni dei quali ancora in costruzione. Nonostante la mole, le creature si muovevano con scioltezza, le lunghe braccia che quasi sfioravano il terreno nella loro tipica andatura curva. Strip li precedeva correndo, gli occhi incollati allo schermo nero su cui il puntino rosso che identificava il loro obiettivo lampeggiava come un cuore pulsante. Non avevano bisogno di parlare: erano tutti soldati esperti e si intendevano benissimo a gesti. Quando giunsero in prossimità dell’edificio da cui sembrava provenire il segnale, Strip affidò il piccolo monitor a Greylord, alle sue spalle, e attraversò la strada di corsa, nascondendosi dietro un furgone parcheggiato a poca distanza dalla costruzione, una palazzina a più piani dall’aspetto moderno, tutta vetri e acciaio. Anche da lì poteva sentire le voci di alcuni uomini nelle vicinanze, ma non riusciva a capire che cosa dicessero: parlavano in russo. Erano sulla buona strada, dunque, anche se la loro presenza avrebbe complicato un po’ le cose e richiesto un’azione di forza immediata. Greylord toccò con l’enorme zampa la spalla del compagno e, con un cenno della testa, gli ordinò di farsi avanti, per richiamare l’attenzione dei russi e, se possibile, attirarli all’esterno. Dovevano essere almeno tre o quattro, ma se ne stavano rintanati dietro le porte a vetri per proteggersi dal freddo della notte.Strip annuì, porse il braccio alla bestia, sospirò e lasciò che il lycan gli aprisse una ferita sull’avambraccio usando un artiglio; il taglio cominciò subito a sanguinare copiosamente e l’uomo uscì allo scoperto, urlando e reggendosi il braccio, barcollando e guardandosi alle spalle con frenesia. Si diresse verso l’ingresso della palazzina e prese a battere contro i vetri con aria terrorizzata, richiamando ben presto l’attenzione degli uomini all’interno, che si pararono davanti a lui, armi in pugno, e lo guardarono con sufficienza.
“Si allontani subito. Questa è proprietà privata” ringhiò uno di loro, con un forte accento slavo, apparentemente poco impressionato dalla ferita sul braccio di Strip.
“Vi prego! Per favore, aiutatemi! Ci sono delle cose, qua fuori, loro… mi stanno inseguendo! Aprite!” urlò il lycan, molto preso dalla parte. Nascosto nell’ombra assieme ai compagni, Greylord distese le fauci in un ampio ghigno lupesco. Un’interpretazione da Oscar, bravo Strip!
“Le ho detto di allontanarsi. Non me lo faccia ripetere!”
Strip bussò con rinnovata foga sulla porta a vetri, mentre altri due uomini facevano capolino nell’atrio illuminato a giorno per capire cos’era tutto quel fracasso.
“Voi non capite, mi prenderanno! Sono dei mostri! Per favore, non lasciate che mi uccidano!” urlò, con il terrore nella voce. A dire il vero, la voglia di ridere lo stava mettendo in seria difficoltà, ma pensava di poter resistere ancora per qualche minuto. Brutti stronzi, non vedeva l’ora di mutare e mettergli le zampe addosso!
A un cenno dell’uomo altre tre guardie si materializzarono nell’atrio. Sebbene indossassero completi eleganti era chiaro che provenivano da un addestramento militare.  Prima di aprire la porta la guardia si scambiò con loro alcuni segnali. Tre degli uomini estrassero le pistole dalle fondine ascellari, altri due impugnarono quelli che sembravano corti fucili a canne mozze portati a tracolla.
La porta venne aperta e la guardia uscì a fronteggiare Strip, ma uno spaventoso ringhio proveniente dalla loro destra, nel buio, lo fece voltare di scatto. Per un attimo nessuno si mosse. Non la guardia, non Strip, e nemmeno i cinque uomini rimasti all’interno. La scena parve congelata, come l’illustrazione di un libro; una bestia gigantesca, mezza uomo e mezza lupo, si parò davanti all’ingresso, con la bava a gocciolare in fili argentei dalle fauci e gli occhi che brillavano di un’infernale luce rossastra.
Il capo delle guardie non parve sorpreso, non quanto avrebbe dovuto essere. Sollevò il braccio armato, ma prima che potesse fare fuoco altri ruggiti echeggiarono nel silenzio. Fece in tempo a gridare un ordine secco ai suoi uomini, prima che pezzi del suo corpo volassero in tutte le direzioni in un’esplosione di sangue, arti e interiora sotto lo sguardo indifferente della luna e delle stelle nel cielo nero.
Le guardie non attesero che quello scempio fosse finito per sparare. Nemmeno quando le bestie si riversarono nell’atrio tentarono la fuga, mantenendo la propria posizione, anche quando i proiettili delle pistole si dimostrarono insufficienti a fermare l’avanzata di quelle creature. Quelli dei fucili, invece, sembravano sortire effetto migliore. Più di un lupo raggiunto dai proiettili d’argento si accasciò ululando. Ma erano troppi, impossibile sbaragliarli in un corpo a corpo così ravvicinato, perfino per gente come quella, abituata evidentemente a combattere, e non solo contro semplici uomini.
“Glielo avevo detto che c’erano dei mostri, qua fuori…” commentò Strip, entrando con passo baldanzoso nell’atrio della clinica, finalmente deserto, fatta eccezione per i corpi dilaniati sparsi sul pavimento di marmo.
“Questi sanno con cosa hanno a che fare” commentò cupo Greylord, lasciando vagare lo sguardo sulla sua truppa per accertarsi delle loro condizioni. Nessuno sembrava troppo malridotto per proseguire, ma quel primo scontro non avrebbe dovuto rappresentare nessun problema. Era evidente che chiunque proteggesse la clinica fosse preparato ad affrontar situazioni che trascendevano la minaccia umana. Forse questa volta Raistan non aveva capito bene contro chi si era messo.

*

“Signor De Joie?”
Quelle parole furono accompagnate dall’accendersi del neon all’interno della piccola cella. Fu quello, e non l’ingresso dell’uomo in camice bianco, a suscitare una reazione di panico nella figura altrimenti immobile che giaceva sulla brandina asettica. In una frazione di secondo Guillaume De Joie, o ciò che di lui restava, si rattrappì in un angolo, il volto contro la parete, impossibilitato a proteggerlo con le braccia inerti.
“Perdoni la luce, ma purtroppo sono intervenute alcune spiacevoli complicazioni per cui andiamo, come dire, di fretta” si scusò il Dottore, avvicinandosi a lui. Quando lo afferrò per la spalla costringendolo a voltarsi, Guillaume non poté opporsi. E come avrebbe potuto? Non riusciva a decidere se odiava maggiormente il Dottor Janiĉek o la patetica caricatura di se stesso che lo aveva fatto diventare.
“Non è in forma, ma sarà in grado di volare. Ovviamente mi accerterò che sia protetto.”
Quanta sollecitudine… Guillaume avrebbe fatto una battuta a riguardo, se solo avesse avuto la forza di parlare. Sì limitò a fissare la sagoma che sapeva essere Janiĉek. Era tutto ciò che i suoi occhi riuscivano a distinguere, oltre alla fottuta luce al neon, ovviamente.
“Davvero sorprendente. Le sono bastatedodici ore fuori dalla gabbia per iniziare a rigenerarsi. Sono sbalordito!” si complimentava intanto Janiĉek.
Aspetta che possa metterti le mani addosso e conoscerai una nuova definizione di stupore, Dottore.
“Ci aspetta un viaggio lungo, e spero per lei non troppo disagevole. La gabbia non è trasportabile, ma dove la sto portando ne abbiamo un’altra, molto più grande e confortevole. La sistemeremo bene. E col tempo, chissà, potremmo anche trovare un modo per convivere pacificamente senza dover ricorrere a questi metodi coercitivi così barbari…”
Mentre la luce veniva abbassata e il Dottore lo risistemava amorevolmente sulla branda, come un pupazzo di stracci, Guillaume si domandò se credesse davvero a quello che diceva, o se fosse solo un’altra delle sue dannate torture.
Poi, un istante prima che l’uomo si staccasse da lui, lo sentì. Raistan. Fu solo una percezione vaga, un’eco indistinta letta addosso a Janiĉek, sulle sue mani sempre fredde, sul suo camice. Eppure Guillaume non aveva dubbi. Per quanto i suoi sensi fossero inficiati dalla sofferenza fisica, non poteva sbagliare. Il Dottore aveva incontrato Raistan. Lo aveva toccato. E questo significava solo una cosa. Anche lui era stato preso.
“Signor De Joie, che succede?”
Non si era accorto di avergli artigliato la manica del camice, di trattenere il Dottore con tutta la ridicola forza che le sue membra mutilate gli concedevano. Doveva sapere, doveva capire. Perché se anche Raistan era stato preso, allora sì, tutto era perduto.
“Non sia in apprensione” lo confortò Janiĉek, staccandosi di dosso le sue dita scheletriche una a una. “Sto cercando di approntare le cose in modo che lei non sia solo, in questo viaggio. C’è qualcuno qui che sembra terribilmente ansioso di vederla e di accertarsi delle sue condizioni.”
Fu come se qualcuno avesse gettato una pietra contro una vetrata. L’esplosione fu spaventosa, seguita da un’interminabile rovina di schegge acuminate e polvere di vetro. Il tutto ancora più terribile, perché consumato nel più assoluto silenzio.
“Confesso di essere rimasto stupito da tanta dedizione da parte di creature come voi. Il suo amico sembrava davvero molto, molto preoccupato. Insolito per dei mostri.”
“Io… non ho amici” Guillaume decise di ignorare il suono gracchiante che si faceva strada a fatica attraverso la sua gola ulcerata. Decise di ignorare anche il poco lusinghiero appellativo con cui Janiĉek si era rivolto a quelli come lui. Come Raistan.
“Ah no?” fece il Dottore, deluso. “Strano, lui sembra davvero molto in pena. Un bestione rozzo e piuttosto grossolano, le dirò. In effetti mi sono stupito che lei potesse averci a che fare.”
A dispetto del dolore che provava, dell’ansia spaventosa per le sorti di Raistan, Guillaume non poté fare a meno di sorridere dentro di sé per la succinta valutazione del Dottore. Poteva solo immaginare in che termini lo avesse apostrofato il suo Olandese. Sapeva sempre farsi nuovi amici, non c’era niente da fare…
“Se non le importa niente di questo individuo, immagino che la sua utilità si riduca drasticamente” valutò l’uomo con fare pratico. “Certo, una seduta sul Trono potrebbe garantirci una notevole scorta di sangue per effettuare i nostri esperimenti sul LSDA, ma come ben sa una seduta tende a durare parecchio.”
Sì, Guillaume lo sapeva bene. Se fosse sopravvissuto a quella brutta avventura, e ora che sapeva che anche Raistan era nelle mani di Janiĉek iniziava ad avere dei dubbi, non avrebbe mai dimenticato la sensazione orribile di quell’arnese da tortura, degli infiniti aculei che penetravano il suo corpo, lacerando la pelle, incidendo la carne, per permettere al sangue di uscire e colare nei condotti di raccolta. Quanto era durata? Quanto avrebbe potuto durare ancora? Quando Janiĉek lo aveva staccato dalla macchina, Guillaume aveva avuto una vaga percezione del proprio corpo, un ammasso di pelle rattrappita e ossa sporgenti tra le braccia vigorose di Raoul.
Non riusciva nemmeno a immaginare una sorte simile per Raistan.
“Non le servirebbe comunque a niente” si sforzò di dire. Era terribilmente frustrante non potersi esprimere con l’abituale scioltezza. La sua mente era vigile e reattiva, ma ogni suo gesto, ogni sua parola doveva passare per uno strumento spezzato, compromesso. “Solo dal mio sangue si può produrre l’LSDA. Non le serve un altro come me. Nessuno è come me.”
Guillaume sentì il Dottore ridere, quella sua risata sommessa, che aveva imparato a conoscere, e che in certi momenti saliva di intensità, assumendo una nota stridula. Non erano mai bei momenti, quelli.
“Signor De Joie, non so se apprezzarla di più per il suo ego smisurato o per questo goffo tentativo di proteggere il suo collega. Di certo non posso che essere lieto che abbia finalmente deciso di dimostrare un po’ di collaborazione riguardo la questione LSDA. Cominciavo a disperare del suo buon senso.”
Dispera finché vuoi, bastardo. Non hai ancora cominciato.
Guillaume percepì che il Dottore si era alzato. Stava lasciando la cella. Che cosa aveva deciso di fare con Raistan?
“Ora la lascio qui tranquillo. Vado a dare disposizioni per l’elicottero. Partiremo non appena avrò caricato l’attrezzatura e il nostro ombroso ospite. Poi Raoul verrà a prendere lei. Sarà questione di un attimo.”
La porta si chiuse, lasciandolo solo, nella luce indefinita. Per la prima volta, da quando era stato catturato, preda di un’autentica angoscia.
Mi senti? Raistan mi senti? Come diavolo sei finito qui?

*

Raistan emerse dal torpore indotto dalla Gabbia.
Era quasi sicuro – no, era sicuro – di aver sentito Guillaume chiamare il suo nome, invocarlo da qualche parte. Difficile capire se fosse dentro o fuori dalla sua testa. Tempo, era solo questione di tempo. Greylord sarebbe stato lì a minuti, di questo era certo. Lo avrebbe tirato fuori da quella fottuta Gabbia e insieme sarebbero andati a cercarlo. Già. L’ombra sinistra dello scranno catturò la sua visuale. Quell’arnese trasudava male. Era quasi insopportabile. Il fatto che fosse impregnato dell’eco del sangue di Guillaume lo devastava. Che cosa gli avevano fatto? Che cosa avrebbe trovato quando alla fine fosse uscito di lì? E se non lo avesse trovato? Se lo avessero portato via prima?
La porta del laboratorio si aprì, riscuotendolo dalle sue angosciose riflessioni. Si acquattò sul fondo della Gabbia, i capelli che gli ricadevano intorno come un bozzolo, l’espressione volutamente vacua. Il Dottore doveva credere di averlo sotto controllo, nei limiti del possibile.
Ma non fu la figura sottile del Dottore quella che scivolò nella stanza. Il vampiro socchiuse gli occhi, mentre Raoul si avvicinava alla Gabbia. Si muoveva silenziosamente, più di quanto qualsiasi umano avrebbe mai potuto fare, e questo a dispetto del corpo massiccio e muscoloso. Spiava l’interno della Gabbia, annusando l’aria. Annusando lui.
Raistan si costrinse a non digrignare i denti. Qualsiasi cosa fosse venuto a fare quel cane addomesticato, lo trovava decisamente in una brutta giornata.
Anche lui annusò l’aria, e quello che percepì gli risultò familiare, anche se leggermente diverso dall’odore selvatico di cane a cui Greylord lo aveva abituato. Un lycan, o qualcosa di simile. Il dottore disponeva di servi davvero interessanti e variegati, indubbiamente. Lo ignorò, per quanto possibile, cercando di sintonizzarsi di nuovo su Guillaume, sulla sua voce, ma gli era sempre più difficile concentrarsi davvero su qualcosa che non fosse la realtà a lui più prossima. Avrebbe voluto soltanto vedere quella maledetta porta aprirsi e Greylord arrivare, per liberarlo. Alla fine non resistette più al senso di minaccia che la presenza del lupo provocava in lui e si costrinse a mettersi in piedi, facendo attenzione a non sfiorare le sbarre nel farlo.
“Che cazzo vuoi, cane? Sei venuto a goderti lo spettacolo?”
Raoul non parve troppo impressionato da quella accoglienza. Aveva un’espressione naturalmente corrucciata, enfatizzata dalle folte sopracciglia scure che arrivavano quasi a congiungersi tra gli occhi color ambra.
“Come ti senti?” domandò, con quella sua voce bassa, trattenuta in gola. Raistan pensò di non aver capito.
“Bene, grazie. Si sta da Dio qui dentro, cane. Dovresti provarla anche tu. Oh, ma immagino a te riservino un altro genere di divertimento, vero? Che cosa hai? Un collare elettrificato per quando non riporti la palla abbastanza in fretta?”
Un fremito di rabbia attraversò il volto del lupo. Era segnato da numerose cicatrici, alcune molto fresche.
Raistan sapeva come i lupi ‘veri’ consideravano quelli come lui. Cani addomesticati, indegni della propria natura. Certo, c’era da capire perché a un lupo sano di mente potesse venire in mente di servire uno stronzo come quel Janiĉek. Ma esistevano poi lupi sani di mente?…
“Sei in grado di camminare?” domandò Raoul.
Raistan strinse gli occhi in due fessure colme di diffidenza. Che diavolo di domanda era? Forse si trattava di una manovra del dottore per condurlo dove voleva senza eccessivo dispendio di energia?
Eppure, lo sguardo che la creatura gli aveva rivolto quando era venuto a chiamare il dottore raccontava un’altra storia. Peccato non potergli leggere nella mente per carpire le sue vere intenzioni. Per qualche istante rimase a fissarlo e basta, non riuscendo a cogliere i sottintesi nella sua domanda.
“Perché, vuoi che ti porti al parco giochi?” chiese, con il disprezzo nella voce.
Di nuovo Raoul lo ignorò. Si avvicinò alla parete, su cui era installato un pannello elettrico. Lo aprì, facendo scorrere una carta magnetica in un lettore. Emerse un tastierino numerico, sul quale digitò un codice. Immediatamente il flusso di energia lungo le sbarre si affievolì, fino a spegnersi. Raistan rimase a fissare le sbarre, ora innocue. Certo, era una piacevole novità, ma non era ancora ora di stappare lo champagne. Continuò a studiare i movimenti del lupo, che ora si stava riavvicinando alla Gabbia. “Ascoltami bene. Hai dieci minuti per andare a prendere il tuo amico prima che Samael lo porti via. Ha già fatto preparare l’elicottero sul tetto del palazzo. Dieci minuti. Scendi al blocco F con l’ascensore che trovi in fondo al corridoio qui fuori. È un accesso riservato, devi usare questa” continuò, mostrandogli il badge nella sua mano, prima di posarlo su un piano di lavoro di acciaio lucido. “Adesso apro la gabbia” aggiunse, cercando negli occhi del vampiro il segno che avesse compreso il suo discorso, o almeno che non avesse intenzione di saltargli subitoalla gola.
Non ci fu nessuna reazione, da parte di Raistan, in un primo tempo. A un tratto però, rapido come una folata di vento, sfrecciò fuori dalla gabbia, afferrò il badge e quasi nello stesso istante si portò alle spalle del lupo, cingendogli il collo con le braccia. Avrebbe potuto sembrare un gesto affettuoso, se non fosse stato per le zanne a pochi millimetri dalla sua gola, e la sua voce gelida che gli sussurrava nell’orecchio un comando difficile da ignorare: “Tu vieni con me, lupacchiotto. Apprezzerò il gesto più tardi, se sarà il caso.” Poi, per un attimo, Raoul avvertì tutto il peso del massiccio vampiro gravargli addosso; voltandosi, vide che aveva chiuso gli occhi e gli aveva appoggiato la testa sulla spalla, come a cercare un attimo di tregua.
Il corpo del lupo era teso, pronto all’attacco. E tuttavia non reagiva. Si limitava a respirare, piano, lunghi respiri profondi. Come se gli stesse dando il tempo per riposare. Solo quando la porta si aprì nuovamente ebbe un sussulto, e improvvisamente fu una molla in procinto di scattare. Anche Raistan aprì gli occhi, allarmato da quel mutamento. Sulla porta era apparso un ragazzino. Esile, biondo. C’era qualcosa nel suo aspetto che ricordava il Dottore. Qualcosa nel suo odore. Scorgendo le due figure avvinghiate i suoi occhi chiari si spalancarono. “Raoul?” gridò, allarmato.
Il lupo sollevò solo un dito, facendogli cenno di tacere. “Julian, va tutto bene, taci.”
Ma a Julian non sembrava che andasse affatto bene. I suoi occhi spiritati andarono dal lupo al vampiro alle sue spalle. Solo una volta corsero alla porta. Di nuovo Raoul richiamò la sua attenzione.
“Va tutto bene. Non chiamare nessuno. Non fare nulla.”
“Ma lo zio ha detto che dobbiamo partire” obiettò il ragazzo.
“Lo so. E tu devi essere bravo e raggiungere lo zio sul tetto. Io devo fare qualcosa prima, ma lo zio non deve saperlo. Lo capisci, Julian? Capisci che è importante? Mi aiuterai?”
Adesso era Raoul a trattenere Raistan, senza darlo a vedere. Tempo, aveva bisogno di tempo per allontanare il ragazzo, ma il tempo era la sola cosa che non avevano.
Julian però sembrò aver capito.
“Io vado. Tengo impegnato lo zio. Non preoccuparti. Tu però torna presto, ti prego.”
Raistan sentì la mascella del lupo contrarsi fino a scricchiolare.
“Tornerò presto, Julian. Adesso vai, però.”
Il ragazzino scivolò fuori dalla porta simile a un’ombra luminosa.
“Muoviamoci, vampiro” suggerì il lupo. La sua voce sembrò ancora più stanca.

*

Il percorso fino al luogo indicato da Raoulparve a Raistan interminabile. L’uscita dalla gabbia, invece di fortificarlo, aveva acuito le sue sensazioni peggiori, rendendo tutto più simile a un sogno a tratti angosciante e confuso. Seguiva il licantropo da breve distanza, cercando di memorizzare le svolte o altri punti di riferimento, ma senza grande successo. Dieci minuti… dieci minuti…
“Quanto cazzo manca, ancora?” Non ce la faccio più, avrebbe voluto aggiungere, ma non lo fece e non permise nemmeno a se stesso di sperare fino in fondo che di lì a poco avrebbe rivisto Guillaume. Forse si stava dirigendo verso la trappola definitiva, ma era troppo tardi per preoccuparsene.
Raoul si girava spesso per accertarsi che tenesse il passo. Lungo il percorso non incontrarono resistenza. Il luogo sembrava completamente abbandonato, segno che chi lo aveva occupato aveva ritenuto saggio togliere il disturbo. O, semplicemente, come suggerivano i rumori di spari, le grida e gli ululati che giungevano dai piani inferiori dell’edificio, gli uomini di Janiĉek erano impegnati altrove.
Raoul aprì svariate porte utilizzando il badge, attivò due ascensori, dando a un certo punto a Raistan l’impressione che stessero girando in tondo. Quel posto era così maledettamente asettico, ogni ambiente sembrava identico agli altri! Al terzo ascensore il vampiro stava giungendo alla conclusione di dover tentare un’altra strada, ma quando le porte si aprirono comprese di essere giunto in un livello nuovo.
Due file di porte blindate si aprivano sui due lati di un ampio corridoio illuminato da fredde luci al neon.
“Cella 5, muoviti, io tengo bloccato l’ascensore” ordinò Raoul, lanciando al vampiro un’occhiata perentoria.
Questa volta Raistan non perse tempo a replicare. Si accorse di tremare, mentre percorreva gli ultimi metri di corridoio che lo separavano dalla cella che il lupo gli aveva indicato. Quando vi fu davanti, gettò un’occhiata al monitor che ne rivelava l’interno, ma la luce era spenta e non era possibile vedere un granché. Usò il badge e fece scattare la serratura. Aprì la porta. C’era… c’era qualcosa, sulla branda. Una sagoma. Avrebbe potuto essere chiunque. Quando accese la luce, Raistan avrebbe desiderato che fosse chiunque. Rimase come fulminato sulla soglia, sentendo la nausea arrampicarglisi su per la gola, poi si costrinse ad avanzare, le gambe pesanti come macigni. E poi l’essere rannicchiato sulla tavola metallica si voltò a guardarlo e Raistan udì un gemito orribile echeggiare fra le pareti della stanzetta, rendendosi conto solo in un secondo tempo di essere stato lui stesso ad emetterlo. Si precipitò su di lui, con le mani nei capelli, poi cadde in ginocchio ai suoi piedi, incapace di profferire parola.
“Raist…?” Guillaume seppe immediatamente che si trattava di lui. Lo seppe senza poterlo vedere, senza poter allungare le mani per toccarlo, senza potersi alzare per andargli incontro. Il sollievo discese in lui come in balsamo benefico, e tuttavia il fatto che fosse lì non significava che fossero salvi. “La tua reazione mi lascia poche speranze riguardo il mio aspetto… Tu sì che sai tranquillizzare la gente, Olandese.”
La voce gli usciva dalla gola come carta che crepitasse tra le fiamme, eppure perfino in quello stato l’intenzione provocatoria era palese. Evidentemente Raistan riusciva sempre a tirargli fuori il lato migliore. Ma quell’illusione di serenità durò solo un attimo. “Come sei arrivato qui? Quante speranze abbiamo di riuscire a andarcene?”
“Parli sempre troppo, Fiorellino. Vieni, coraggio. Ogni occasione è buona per farsi portare in braccio, vero?” Raistan lo sollevò e constatò con orrore quanto fosse leggero, nonché la rilassatezza innaturale delle sue membra. Averlo sentito parlare, tuttavia, gli aveva ridato il coraggio che aveva perso in blocco quando aveva constatato le condizioni orribili in cui versava. Notò la sua smorfia di dolore, quando lo sollevò, e se lo sistemò fra le braccia con la massima delicatezza, lasciando la cella ad ampie falcate. Una parte non troppo piccola di lui aveva il terrore di arrivare agli ascensori e di scoprire che il lupo se n’era andato, chiudendoli dentro. Dio, che beffa, sarebbe stata. Almeno però sarebbe rimasto con lui. Era quello il suo posto. Percepì il corpo di Guillaume rilassarsi fra le sue braccia e gli posò un veloce bacio sulla testa. Poi scorse Raoul che lo attendeva là dove avrebbe detto che sarebbe stato. Il lupo gli fece spazio per salire. Qualcosa esplose da qualche parte ai piani inferiori. Pezzi di intonaco si staccarono dal soffitto e i neon iniziarono a sfarfallare.
“Gli uomini di Boris stanno facendo saltare tutto. Era il piano di evacuazione. Da adesso in poi ognuno per sé, là sotto.”
Questo significava solo una cosa. Greylord e i suoi avevano infranto le difese dei mercenari, costringendoli alla ritirata. Raistan si complimentò mentalmente.
“Dovrai scendere lungo le scale, gli ascensori non saranno più sicuri” continuava intanto Raoul. Le porte si aprirono su un piano anonimo. Un silenzio polveroso era calato sull’edificio, rotto solo da nuove, occasionali esplosioni. Il lupo indicò la porta di accesso alle scale.
“Vai, non fermarti, qui crollerà tutto in una manciata di minuti.” Qualcosa iniziò a emettere un beepfastidioso addosso al lupo. Raistan lo vide estrarre dalla tasca un cercapersone. Vide i suoi occhi incupirsi di una rabbia antica.
“Non è ancora finita. Se io non rispondo manderà qualcuno a prenderlo. Non rinuncerà a lui. Portalo via, subito.”
A dispetto della fretta che lo divorava, Raistan indugiò per un attimo a guardare Raoul. “Beh, allora rispondi, e poi vieni con noi. Ci sono dei lupi come te, laggiù. Il loro capo è mio amico. Ti accoglieranno volentieri. Non vorrai mica restare con quel bastardo, no? Ti ucciderà, dopo quello che hai fatto. Dai, muovi il culo, cucciolo. Non ho tutta la notte, e nemmeno lui.”
“Non posso. Loro non mi accoglierebbero mai. E comunque non posso” ripeté Raoul con una punta di durezza. Raistan sarebbe stato pronto a scommettere tutto sul fatto che il ragazzino incontrato poco prima avesse a che fare con quell’assurda ostinazione. Ma non era il momento migliore per scommettere qualsiasi cosa, no davvero.
“Senti, fai come ti pare, ma qualsiasi cosa ti trattenga qui, da morto non potrai fare un granché, ti pare?”
“Tu vai. Porta il tuo amico fuori di qui. Farò il possibile per coprire la vostra fuga fino all’ultimo, lo giuro.”
Il tono e l’espressione lasciavano intendere che quel tipo non fosse incline a pronunciare giuramenti a vanvera.
“Vai!”
Raistan lo fissò ancora per un lungo istante.
“Grazie. Siete una razza fastidiosa, ma con le palle. Io ne so qualcosa” disse, poi si lanciò giù per le scale, cercando di limitare al massimo gli scossoni al suo prezioso fardello. Gli lanciava occhiate ansiose ogni pochi istanti, e quando a un tratto si accorse che aveva perso i sensi e giaceva del tutto inerme fra le sue braccia, aumentò ancora l’andatura, parlandogli, quasi inconsapevole delle parole che gli uscivano dalla bocca: “Tu non farai scherzi, vero fiorellino? Non puoi lasciarmi qui da solo, brutto stronzo. Tu… tu mi hai cambiato, e adesso non posso cambiare di nuovo. Non ce la faccio. Per favore. Fallo per me. Fallo per me, Guillaume. Ti odierò, se morirai. Te lo giuro, ti odierò tanto che lo sentirai anche all’inferno e non avrai pace, perché non potrò mai perdonarti per avermi lasciato indietro. Se vivrai, invece, cercherò di farlo, anche se saremo lontani. Anche se non potrò più svegliarmi accanto a te, ogni sera, e guardarti e meravigliarmi perché ci sei e perché sei mio. Anche se non potrò più toccarti. Mi basterà sapere che stai bene e sei a casa tua, a Belgravia, con Eloisa e la tua statua del cazzo, pensa un po’ quanto mi sono rimbecillito. Magari qualche volta riusciremo persino a vederci, chi lo sa. Non è importante, adesso. Quello che conta è che tu viva. Io non voglio stare in un mondo dove tu non ci sei. Già lo odio, questo mondo, con tutto quello che ci ha fatto, a te e a me, ma adesso non riuscirei più a sopportarlo. Quindi vedi di riprenderti, se non vuoi ammazzare anche me. Te ne importa qualcosa, Guillaume De Joie? Rispondimi, te ne importa?!  Io ti amo, bastardo figlio di puttana, mi hai distrutto e devo fartela pagare, quindi torna. Stai con me, francesino. Ti prego.”
Le rampe di scale si succedevano una dopo l’altra, in una discesa frenetica. Le esplosioni si erano fatte più vicine, ora. In più di un’occasione Raistan fu costretto a fermarsi, per proteggere Guillaume dalla pioggia di calcinacci e detriti che pioveva tutto intorno a loro. Ancora un paio di colpi ben assestati e tutta la baracca sarebbe stata sventrata. Il più era arrivare a terra, nel frattempo.Accecato dalla polvere, allo stremo delle forze, Raistan riusciva solo a correre, senza chiedersi più cosa avrebbe sostenuto il suo prossimo passo. Quando giunse in fondo all’ultima rampa di scale non se ne rese conto e andò a urtare contro la porta di accesso. Spinse il maniglione con un calcio, solo per scoprire che la porta era chiusa. Rimase per un attimo agghiacciato a fissare la lastra metallica che lo separava dalla salvezza poi, con delicatezza, adagiò Guillaume a terra, desiderando avere qualcosa per avvolgerlo, per proteggere quel corpo così provato e dovendosi invece rassegnare a posarlo nella polvere grigiastra, di un colore non molto diverso da quello delle sue membra quasi scheletriche. Infine si voltò, ruotò le spalle, prese quel poco di rincorsa che il piccolo vano gli permetteva e si scagliò con tutto il proprio peso contro la porta. Una, due, tre volte, ruggendo di rabbia e di frustrazione. Se fosse stato al massimo della forma sarebbe bastato un dito, ma non era quello il caso. Al quarto tentativo i cardini cedettero e la porta si schiantò al suolo con un gran fragore, seguita dall’olandese che si sbilanciò e crollò carponi sul pavimento di quello che, scoprì, era l’atrio della struttura, o almeno quello che ne restava. Per un attimo pensò che non sarebbe più riuscito ad alzarsi, ma lo fece. Tornò sui propri passi e raccolse da terra il corpo del francese.
In quel momento la parete di vetro che dava sull’esterno esplose con un fragore assordante.
Schegge lunghe un braccio e travetti d’acciaio furono scagliati tutt’intorno con la violenza di proiettili, costringendo Raistan, ancora una volta, ad accucciarsi e fare scudo con il proprio corpo a quello del Francese. Poi, mentre la polvere di vetro cadeva a depositarsi in un tappeto scintillante, i lupi emersero dal ventre squarciato dell’edificio. Alcuni di loro sorreggevano i compagni feriti, altri premevano sugli arti mutilati. Ma erano ancora in piedi, tutti. Raistan li guardò sfilare e si scoprì a pensare che non avrebbe mai creduto di poter trovare bello un dannato branco che tornava da una battaglia. I giganteschi lupi lo circondarono, e lui provò la familiare sensazione di disagio. Per un attimo non scorse il loro capo, riconoscibile per il pelo grigio chiaro e i gelidi occhi azzurri, e il disagio si trasformò in apprensione. Prima che potesse chiedere notizie di Greylord, tuttavia, il comandante si fece largo tra i propri soldati e squadrò Raistan dall’alto, scuotendo la grossa testa. Poi, senza dire una parola, lo sollevò assieme al suo carico e lasciò quel luogo di follia e di morte.

EPILOGO

Una settimana dopo
“Raistan, non hai niente di meglio da guardare? Sono due ore che mi fissi. Capisco che la mia quasi ritrovata avvenenza sia qualcosa a cui non sei più abituato, ma insomma…”
L’olandese, seduto sulla poltrona accanto al letto dove Guillaume stazionava ormai da una settimana, si riscosse dai propri cupi pensieri e accennò un vago sorriso al compagno.
“Non ti dare troppe arie, Fiorellino. Non sei ancora al top. Però va meglio. Sì, va meglio” disse pensieroso, ricordando quanto poco bene era andata nei primi giorni dopo il salvataggio, quando aveva seriamente temuto di vedere il compagno mummificarsi senza poter far niente per impedirlo. Anche se era uno processo reversibile, era lo stesso una condizione molto rischiosa, che avrebbe necessitato di sangue molto più antico del suo per scomparire. Per le prime 72 ore Guillaume non aveva quasi dato segni di vita, e Raistan, provato a sua volta da quella terribile esperienza, aveva toccato momenti di vera disperazione. Non lo aveva abbandonato mai, nemmeno per un attimo,neanche durante il sonno diurno, quando lo teneva stretto fra le braccia perché prima o poi sarebbero arrivati gli incubi e lo avrebbero fatto urlare e solo le sue parole sussurrategli nell’orecchio, nel buio, sembravano calmarlo; quando, quattro giorni prima, Greylord gli aveva fatto visita per vedere come se la passavano, non era riuscito a dirgli una parola per paura di scoppiare in lacrime proprio lì, davanti a lui. Al lupo era bastato guardarlo in faccia per capire la drammaticità della situazione. Si era arrotolato la manica della camicia, guardando Raistan con aria esasperata.
“Bevi, forza. E fai bere anche lui. 1200 anni serviranno a qualcosa, no?”
Aveva ricambiato lo sguardo stravolto del vampiro e gli aveva piazzato il braccio nerboruto sotto il naso, invitandolo a nutrirsi da lui; dopo un altro momento di esitazione, l’Olandese aveva ceduto e il viso gli si era disteso immediatamente in un’espressione di sollievo. Non si era nutrito a lungo, preferendo riservare la maggior parte del sangue per Guillaume; gli si era coricato accanto e lo aveva preso fra le braccia, aprendogli la bocca per permettere al lycan di fargli sgocciolare il suo sangue in gola. Dopo pochi istanti, le palpebre del francese si erano alzate, mettendoli a fuoco entrambi.
“Per essere al top mi ci vorrà ancora un po’, sì” ammise Guillaume, sollevando la mano per passarsela tra i capelli. Evitò di farlo. Detestava la loro consistenza, anche se almeno avevano smesso di staccarsi a ciocche. Per non parlare del rumore disgustoso che faceva il suo cuoio capelluto, come se si fosse trasformato in carta crespa.  “Sul serio, non c’è bisogno che resti tutto il tempo qui. Mi pare evidente che non potrò andare molto lontano. Almeno finché non mi saranno ricresciuti i tendini.” Fece una smorfia. “Puoi stare abbastanza tranquillo che non mi metterò in un’altra situazione imbecille a breve.”
Sdrammatizzare, sempre e comunque. Era più forte di lui.Forse era solo per questo che era riuscito a sopravvivere per quasi cinquecento anni. Buffo pensare che da vivo aveva avuto la tendenza a prendere tutto sempre maledettamente sul serio, se stesso in primis.
Si appoggiò al guanciale, contemplando la figura dell’Olandese davanti a lui. Era lì che lo aveva visto, quando infine i suoi occhi si erano riaperti, e lì che lo rivedeva da allora, ogni volta che emergeva dal torpore. Una visione ancora incerta, velata di una patina biancastra, ma non poteva sbagliarsi su quella presenza.
“C’è qualcosa che devi dirmi? Hai sfasciato la Maserati mentre ero via…?”
Raistan distolse lo sguardo e si passò una mano fra i capelli, puntando gli occhi sulla finestra schermata dalle pesanti tende oscuranti. Qualunque cosa, tranne guardarlo in faccia, per quello che gli doveva dire.
“Ecco… no, la tua macchina sta bene. È che io… ahhh cazzo…”
“Oh meno male. Douglas ne avrebbe fatta una tragedia. Nessuno sa essere tragico come lui quando si tratta di beni di lusso. Qualsiasi altra cosa non potrà essere altrettanto grave” continuò, cercando lo sguardo dell’Olandese. Avrebbe voluto afferrargli il mento e costringerlo a guardarlo, ma le sue braccia erano ancora così deboli.
“Raistan, non farmi sentire ancora più impotente e patetico di quanto già non mi sento, per l’amor di dio!”
Raistansi strofinò gli occhi. Se solo non si fosse sentito ancora così maledettamente stanco… Donare il proprio sangue a Guillaume tutti i giorni non era stato esattamente un toccasana, ma lo avrebbe continuato a fare, se solo quei bastardi glielo avessero permesso. E invece, la sera prima era arrivata la telefonata che aveva tanto temuto. Quella che avrebbe totalmente cambiato la sua vita da quel momento in poi.
Rafael. “Sommo Maestro, sono felice di sapere che il tempo che ti abbiamo concesso sia stato utile. Adesso però quel tempo è scaduto. Devi rispettare la tua parte di accordo.” Ed era stato come se il coperchio di una tomba si fosse richiuso sopra di lui.
“Devo… è successo un casino, mentre tu non c’eri, con quelli del Kilarmeth. Mi ero lasciato un po’… trasportare… ho dovuto promettere che mi sarei trasferito definitivamente a Parigi, alla Casa Madre. E quindi… non potrò più… stare qui. Con te. Ma lo rifarei mille volte, fiorellino. Solo che… non voglio. Non voglio lasciarti. Mai. Non adesso, che sei ancora così debole. Non posso sopportarlo. Ma loro se ne fregano. Di te, di me.”
Sialzò in piedi di scatto e prese a camminare avanti e indietro, come un’anima in pena.
“Io… ho cercato di farli ragionare, ma loro non sono come noi. Sono solo dei burocrati del cazzo, intrappolati nel passato. Vivono seppelliti in quel museo e vogliono seppellire anche me e io sono stato costretto a permetterglielo, per poter essere libero di venirti a salvare. E tu… tu hai Eloisa, hai la tua vita. Io non ho il diritto di chiederti niente, e non te lo chiederò. L’unica cosa che ti chiedo è di perdonarmi per… per non essere come te. Per non aver saputo reagire al loro ricatto come avresti fatto tu e di aver permesso loro di… rovinare anche la tua vita, ammesso che la mia partenza possa significare un cambiamento negativo per te.
Per me è molto difficilecredere di essere… amato da qualcuno. So cosa provo, ma non sono mai sicuro di quello che gli altri provano per me. Non voglio nemmeno saperlo, non è importante. Contava quello che sentivo io mentre ti cercavo. La certezza di non poter sopravvivere se non fossi sopravvissuto anche tu. La rabbia, perché anche tu mi avevi escluso. Quella saltava fuori, a volte, ma in fondo nemmeno quello conta. Non più, non adesso. Forse avevi ragione a volerlo fare. Come questo accordo scellerato dimostra, combino dei casini la maggior parte delle volte che mi muovo e che apro bocca. Insomma, non so nemmeno perché ti sto dicendo tutte queste cose. So solo che domani devo partire e che ho un altro motivo per odiarmi. Chi… chi si occuperà di te, adesso? E… cosa farò io, chiuso là dentro?”
Guillaume era rimasto in silenzio per tutta la durata di quell’accorato sfogo. Il suo volto, scavato e ancora segnato da profondi solchi e vene in rilievo, che davano l’impressione che qualcuno si fosse divertito a comporre una mappa tridimensionale sui suoi lineamenti, sembrava privo di espressione. Del resto, non era mai stato facile per Raistan capire cosa gli passasse davvero per la testa, anche in circostanze normali.
“Hai preso un impegno, e gli impegni vanno rispettati” sentenziò infine. Anche la sua voce risuonava atona, una nota dura a inasprirne l’abituale morbidezza. E poi tacque, come se non vi fosse altro da aggiungere sull’argomento. Raistan lo fissava, imponendosi di nascondere l’incredulità, la delusione che quella reazione, o piuttosto la mancanza della medesima, gli causava. Ma Raistan non era molto bravo a nascondere alcunché. Guillaume sì, era bravissimo in questo, ma lasciò che un moto di dolcezza gli sfuggisse dagli occhi, davanti a quello sconforto. Avrebbe sollevato una mano a sfiorargli la guancia, se solo avesse potuto.
“Io me la caverò, Raistan. Presto sarò di nuovo in forma, non è la prima volta che mi trovo in una situazione di impotenza, non dura mai molto. Non devi darti pena per questo.” Lasciò vagare lo sguardo ancora appannato sulla stanza. Non aveva bisogno di vedere bene per riconoscerne ogni dettaglio, impresso nella sua memoria in modo indelebile. “Il Kilarmeth non è qualcosa da prendere alla leggera. Non avresti mai dovuto permettere loro di incastrarti, ma ora che sei in ballo… Ti sembrerà strano, ma ho avuto una lunga esperienza in questo campo, nel corso dei secoli. Dietro l’atteggiamento frivolo e l’aspetto straordinariamente avvenente si cela un freddo, spietato burocrate. Potrei insegnare una o due cosette ai tuoi amici Kilar.”
Quell’accenno all’antico spirito rischiarò lo sguardo di Raistan, ma solo un po’. Nemmeno l’eloquio irresistibile di Guillaume poteva cambiare lo stato delle cose. Si era scavato la fatidica fossa con le sue stesse mani, che cosa si aspettava? Aiuto? Pietà?
“E poi, Olandese, l’eternità è un tempo così lungo. È incredibile come tu ancora non lo abbia compreso” aveva ripreso a parlare Guillaume. “Con la tua fame di vita, con la tua fretta, sembri non tenere mai conto che tutto cambia, continuamente, e se c’è una cosa di cui quelli come noi non dovrebbero preoccuparsi è del tempo necessario perché ciò avvenga. Tu vivi ogni notte come se fosse l’ultima, Raistan Van Hoeck, ogni abbraccio, ogni amplesso, come se la vita potesse esserti strappata via in un istante. Sei la negazione della nostra maledizione.”
Guillaume finalmente riuscì a muovere le dita, almeno quel tanto che bastava per fargli capire che doveva prendergli la mano, subito. L’olandese si sedette sul letto accanto al compagno e prese la sua mano nella propria. Non la strinse, per paura di fargli male. Era ancora così fragile… rimase in silenzio, non sapendo bene come interpretare le sue parole, anche se la sua insicurezza lo spingeva a vedere in esse l’ennesimo rifiuto. “E… e quindi?” chiese alla fine, cercando rassicurazione sul viso del francese.
“E quindi? E quindi vai a far vedere quanto vali, che domande!” Raistan solo poteva intuire la veemenza che Guillaume avrebbe voluto infondere in quell’esortazione. “Rendimi fiero di te e fai vedere a quella gente che puoi essere meglio di come hanno deciso di etichettarti.  Nulla manda in paranoia i burocrati quanto il vedere scombinate le loro certezze, Raistan. Io so che puoi assolvere a qualsiasi compito meglio di molti altri, tutto sta a volerlo” concluse.
“Ma io non voglio! Non mi interessa! Per più di un secolo sono stato costretto a condurre una vita che odiavo! Ne ero uscito, non volevo più averci niente a che fare, e invece mi hanno incastrato di nuovo! Per sempre! Non posso. Non voglio. Perché stai cercando di convincermi a sottostare al loro ricatto? Perché!? Forse perché in fondo starai meglio senza di me, non è così?”
Guillaume ignorò quell’ultima affermazione.
“Io non cerco di convincerti, Raistan”. Di nuovo la voce gli si era indurita. “Non ne ho bisogno. Non puoi scegliere, a meno di sfidare l’intero sistema politico e ritrovarti costretto a trascorrere i prossimi secoli in fuga, a nasconderti notte dopo notte, giorno dopo giorno. Non credo che tu voglia nemmeno questo. Di certo non lo voglio io per me.”
La sua mano, tra le dita di Raistan, era inerte.
“Non sempre possiamo scegliere. Non sempre possiamo fare ciò che vogliamo. Anche questo dovresti averlo capito. Io lo avevo capito ancora prima di diventare quello che sono. Se vuoi essere commiserato, dovresti sapere che non è nella mia indole indulgere in certi sentimenti inutili. ”
“Tu non…” iniziò, ma lo squillo del cellulare li zittì entrambi. Raistan lo estrasse dalla tasca e controllò il display. Eloisa.  Di nuovo. La ragazza non si dava pace per non aver ancora potuto riabbracciare Guillaume, ma lui era stato irremovibile. Non fino a che il suo aspetto non fosse stato accettabile. “Per te” disse Raist, allungandogli il telefono.
Mise l’apparecchio in vivavoce e lo appoggiò sul letto a fianco di Guillaume, poi si spostò nella stanza accanto, dove aveva radunato le cose da portare con sé, ma senza un reale ordine logico. Fino a quel momento, si era rifiutato di credere che – davvero – il suo, il loro destino insieme fosse segnato. Una parte di lui aveva sperato persino che Guillaume trovasse una soluzione e che quell’incubo finisse ancora prima di cominciare, ma non era così. Chiuse la valigia di scatto e si sedette sul letto, chinando il viso fra le mani. Una tempesta di sentimenti diversi infuriava in lui, che non era mai stato bravo a gestirli. La reazione di Guillaume, puramente razionale, lo aveva ferito come una coltellata, ma gli aveva anche trasmesso un inaspettato sollievo. A quanto pareavrebbe dovuto preoccuparsi unicamente di quello che provava lui stesso. Lo invidiò e nello stesso tempo desiderò fare irruzione nella camera accanto e finire il lavoro del dottore. Quando senti la sua voce chiamarlo, si alzò di scatto dal letto e lo raggiunse, ma rimase accanto alla porta ed evitò di guardarlo.
“Tutto bene, con la ragazzina?” chiese con tono casuale, lo sguardo sempre puntato verso il basso.
“Il solito. Ha bisogno di essere rassicurata, la capisco. Mi dispiace per quello che ha passato per causa mia” rispose Guillaume. Raistan avvertì una staffilata di rabbia terribile e comprese che non sarebbe riuscito a rimandarla al mittente.
“Ah, per lei ti dispiace, certo. Molto nobile, da parte tua. Di quello che ho passato io per colpa della tua infinita arroganza, invece, non te ne frega un cazzo, giusto? No, sua maestà De Joie doveva giocare a Sherlock Holmes e non si è nemmeno degnato di informare la persona con cui vive da due anni su dove stava andando, ci mancherebbe. Lui non ha bisogno di niente e di nessuno, tanto meno di questo coglione Olandese, se non quando si deve giocare a fare i bulli in un club di russi. Bene, perfetto. Ti sei chiesto anche solo per un attimo cos’abbia significato, per me, svegliarmi sentendo lo stesso dolore che provavi tu, ma senza capire, senza sapere niente, senza poter chiedere aiuto a nessuno, solo con l’urgenza di raggiungerti prima che fosse troppo tardi, ma non avendo la minima traccia? Hai idea di quello che ho dovuto fare, per riuscirci? Pretendi di trattarmi come un bambino viziato che vuole sfuggire alle proprie responsabilità, ma dimentichi che se non fosse stato per te, non mi troverei in questa situazione di merda! Mi sono dovuto… inginocchiare davanti a quei bastardi, per avere il permesso di venirti a salvare, dopo che mi avevano rifiutato la squadra che avevo legittimamente richiesto! Ecco che cos’ha fatto il bambino viziato, stronzo, senza contare tutto il resto. Non pretendo gratitudine, ma rispetto sì, cazzo. Io sono certo di essermelo guadagnato. Adesso, se permetti, esco a farmi un pasto decente, visto che sono due settimane che mangio merda in plastica. Tanto te la caverai benissimo anche senza di me, com’è sempre stato, giusto? E io sono il Sommo Maestro dei Diurni, non un cazzo di infermiere.”
Senza attendere la replica del Francese, Raistan uscì dalla stanza come una furia, poi lasciò il cottage sbattendo la porta dietro di sé. Sfortunato l’umano che lo avrebbe incontrato, quella sera, ma non vedeva l’ora che succedesse.
Quando rientrò, stanco, insanguinato e avvilito, l’alba era alle porte. Si mosse silenzioso per la casa e si affacciò alla porta della camera da letto; scorse la sagoma di Guillaume fra le lenzuola, immobile, ma non riuscì a capire se dormisse o no. Si sentiva del tutto svuotato, incapace persino di provare risentimento o rabbia. Si ritrovò accanto al letto, ad allungare una mano verso i capelli del compagno in una carezza quasi impercettibile. Dio, faceva così male sentire… così male… Spense l’abat jour, si spostò nella camera degli ospiti e decise di trascorrere lì l’ultimo giorno che lo separava dal nulla in cui si sarebbe trasformata la sua vita. A pensarci bene, aveva già cominciato a succedere.

***

Dietro la parete di vetro la notte era strisciata fino alla villa, avvolgendola. Una notte pallida, crivellata dalle mille luci dei faretti che definivano il perimetro della proprietà, tagliata dal reticolato invisibile del sofisticato sistema d’allarme che la circondava. Nulla di paragonabile alla notte vera, quella che iniziava al limitare del bosco. Un’oscurità perfetta, inviolata, un buio fatto di assenza,di negazione, eppure ricco e vibrante di una sua segreta pienezza.
A quell’oscura perfezione anelava l’uomo in piedi dietro il vetro affacciato sulla notte. A quella libertà così vicina che sarebbe bastato allungare una mano per afferrarla. Quante volte nella sua mente aveva percorso quel tragitto? La porta d’ingresso spalancata di slancio, i passi affrettati che si mutavano in corsa lungo il vialetto di brecciolino bianco, poi sull’erba umida di rugiada notturna. Aveva vissuto così tante volte il momento in cui il suo corpo sarebbe stato accolto dal folto del sottobosco da indovinare l’odore esatto del muschio bagnato, delle felci stillanti gocce gelide, della terra scura in cui i suoi piedi avrebbero impresso impronte che all’alba non sarebbero state più visibili nemmeno all’occhio del più esperto dei cacciatori.
Notte dopo notte Raoul aveva pregustato quella libertà, notte dopo notte aveva scelto deliberatamente di rinunciarvi.
“Lo zio sta cercando di riposare. Uno dei suoi brutti mal di testa.”
La voce di Julian lo raggiunse dalla porta alle sue spalle. Raoul non si voltò. Era presumibile che Samael stesse risentendo del loro rientro frettoloso alla villa, nonché del fallimento della sua ultima impresa. Per una settimana o due avrebbero dovuto sopportare il suo malumore e le sue indisposizioni vere o presunte. Forse meno, se suo fratello Ossian fosse venuto a fargli visita. C’era da augurarselo.
Raoul non si mosse nemmeno quando sentì le braccia esili del ragazzino cingerlo da dietro e la sua fronte appoggiarsi alla sua schiena. Socchiuse gli occhi, e il bosco con il suo richiamo suadente sembrò scomparire. Ecco la sua unica, vera prigione.
“Ho creduto che saresti andato via” mormorò il ragazzo alle sue spalle. “Ho sperato che lo avresti fatto, anche se nello stesso tempo lo temo. Oh, Raoul…”
“Non potrei mai andarmene, Julian” rispose l’uomo, la voce trattenuta in gola, gli occhi d’ambra di nuovo aperti verso il buio sempre più distante. Cercò le mani che gli stringevano il petto e le coprì con le proprie. “Non potrei mai lasciarti, non con lui” aggiunse, intrecciando le dita forti con quelle sottili del ragazzo. Samael gliela avrebbe fatta pagare per quello che era successo alla clinica? Forse. Non avrebbe potuto essere peggio di ciò che gli aveva fatto in tutti quegli anni.
“Andremo via insieme, presto, allora” mormorò Julian contro la sua schiena. “Ti porterò via, dove lui non potrà più toccarti, dove potremo stare insieme.”
Quelle parole, quelle mani delicate, erano la più crudele delle celle, l’unica che poteva trattenerlo. Raoul ne era consapevole, come era consapevole del fatto che anche Samael lo sapeva.
Eppure, affacciato sulla notte che si ritirava, in quella villa che era la sua prigione da sempre, sentiva di non poter desiderare di essere in nessun altro luogo.

***

“Eh, chi non muore…”
Guillaume De Joie accolse con un sorriso quel saluto lasciato a metà dal Chimico.
“… è immortale” si affrettò a concludere la frase, mentre entrava nell’appartamento, le mani sprofondate nelle tasche del soprabito bianco. “Stai tinteggiando” constatò poi, lasciando vagare lo sguardo intorno a sé.
“Bello, eh?” lo affiancò l’uomo, le braccia conserte sulla maglia lisa. Guillaume non se la sentì di contraddirlo. Beninteso, lui era sempre per un gusto alquanto minimal e moderno, per quanto concerneva il design, con qualche concessione all’antico nei dettagli di pregio. Ma dubitava che il Chimico avesse mai preso in mano una copia di Vogue Living in vita sua. Lo stesso si poteva facilmente immaginare della ragazza che, infagottata in una felpa grigia schizzata di vernice, appollaiata su uno sgabello, stava dipingendo una gigantesca farfalla sulla parete del salotto.
“Salve Caska” la salutò il vampiro, e subito lei si voltò a cercarlo con lo sguardo, scese dallo sgabello e lo raggiunse esibendo un ampio sorriso. Anche il suo volto era imbrattato di vernice multicolore, per non parlare dei capelli, ma dal momento che anche il Chimico era più o meno nella medesima condizione, c’era da immaginare si stessero divertendo davvero molto a ricoprire le pareti del rifugio di farfalle e fiori sgargianti.
“Vi trovo bene. Entrambi” osservò Guillaume, valutando la coppia con un sorriso che tuttavia non raggiunse gli occhi.
Caska allacciò il fianco del Chimico e gli strusciò il volto sulla spalla, lasciandogli una nuova macchia verde e gialla. Una delle sue iridi aveva assunto una colorazione rossa, che conferiva al suo sguardo una disarmonia unica. A parte questo, non si poteva dire che fosse molto loquace, da quando il Chimico l’aveva presa con sé, ormai da quasi due mesi, ma dal momento che nessuno aveva avuto modo di fare conversazione con lei prima che Janiĉek la riempisse di sangue di lycan, non era escluso che fosse sempre stata così. Di certo sembrava felice e serena, mentre il Chimico le passava le dita sul volto disegnandole quattro linee arancioni. Quel gesto le strappò un grido deliziato, e corse via, le gambe nude che spuntavano dalle pieghe della felpa bianche e invitanti.A Guillaume non sfuggì come il Chimico la seguisse con lo sguardo. Nascose un sorriso.
“Anche tu ti sei rimesso in sesto” osservò l’uomo, quando tornò a rivolgersi a lui. “Sei in partenza?”
“Già” rispose succinto il vampiro. Aveva smesso di stupirsi di come il Chimico sembrasse conoscere le cose prima che esse avvenissero. Forse aveva a che fare con tutto ciò che assumeva, con un’esasperazione delle percezioni indotta dalle droghe, come avveniva per gli sciamani in molte culture. Forse, come tutti i matti, aveva veduto il volto di Dio, e questo lo rendeva onnisciente.
“Ho sistemato i miei affari qui” si sentì in dovere di aggiungere. “Non ho più nulla che mi trattenga. È tempo che cambi aria.”
Non fece cenno a Eloisa, che avrebbe iniziato i corsi estivi nel sud della Francia. Lei apparteneva a un mondo di cui il Chimico non avrebbe mai fatto parte. Non finché lui fosse rimasto in circolazione, almeno.
Per il resto… no, non c’era più davvero nulla che lo legasse a Londra.
“Se ripassi in città fatti vivo, mi raccomando” lo salutò il Chimico, porgendogli la mano, che Guillaume strinse nella propria.
“Tu abbi cura di te. E di lei” fece il vampiro, in tutta risposta, indicando con un cenno del capo la ragazza che era tornata alle sue farfalle. “E non pasticciare troppo con il Sangue degli Angeli. Difficilmente potrà mai venire qualcosa di buono da certa gente…”
Mentre già s’incamminava lungo il vialetto che collegava la porta d’ingresso con la strada, la voce dell’uomo lo raggiunse di nuovo.
“E salutami il tuo amico, quando lo rivedrai.”
Guillaume non si fermò, non si voltò, limitandosi ad alzare la mano e ad agitarla in aria, in cenno di saluto.

***

“Sommo Maestro! Sommo Maestro!”
Ramsey, il gufesco assistente di Raistan, sembrava aver dimenticato una delle regole imprescindibili del luogo in cui si trovava. Non che corresse proprio per i corridoi di pietra, no, ma la sua andatura era abbastanza sostenuta da far sì che i suoi passi riecheggiassero, propagando un rimbombo metallico tutt’intorno. Per sua fortuna in quel momento nessuno aveva tempo e predisposizione d’animo per far caso a lui, non in quell’ala del palazzo disertata dai più.
“Sommo Maestro!” chiamò ancora, osando alzare la voce. L’eco di quel richiamo si perse nel silenzio desolato delle vaste sale deserte. Una ruga di disappunto increspò la fronte lasciata scoperta dai capelli di colore indefinibile. Eppure era certo che avrebbe trovato il Sommo Maestro lì. Non era un mistero per nessuno che fosse quello il luogo in cui preferiva ritirarsi, quando i suoi doveri non lo richiedevano al cospetto dei Giudici e il Kilar Rafael sembrava disposto a concedergli un po’ di pace.
Era un vero peccato che non gli riuscisse di trovarlo. Ci teneva così tanto ad essere il primo a dargli quella notizia! Stava già per girare i tacchi e tornare alla sala comune, quando colse con la coda dell’occhio un movimento proveniente da uno dei davanzali delle finestre murate che si aprivano appena sotto il soffitto. Per un attimo pensò si trattasse solo di un lembo degli antichi tendaggi che pendevano laceri dalle intelaiature. Visto lo scarso uso che si faceva di quell’ala del palazzo, nessuno aveva pensato che fosse il caso di sostituirle da qualche secolo. Ma non ebbe bisogno di una seconda occhiata per sapere che non era così.
“Sommo Maestro, perdonate se vengo a disturbarvi” gridò, rivolto verso il davanzale avvolto nell’ombra. Non ottenne risposta, solo ancora un ondeggiare di tessuto scuro, che accolse come una concessione a continuare.
“Ho pensato che potesse interessarvi sapere che c’è gran fermento, di sopra.” E aggiunse, consapevole che quella fosse l’ultima carta da giocare per avere l’attenzione del vampiro più antico, “il Kilar Rafael si è raccomandato che voi non veniste disturbato, fino a cosa fatte, ma ho creduto fosse opportuno informarvi.”
La tenebra parve coagularsi nel punto esatto in cui il piccolo vampiro aveva colto il movimento. Un attimo dopo Raistan Van Hoeck atterrò senza un suono davanti a lui, dopo un volo di almeno venti metri. Flesse le gambe e subito si raddrizzò, gettando indietro i capelli che ricaddero in una massa argentea sulle ampie spalle rivestite dal velluto della veste nera.
Squadrò Ramsey con espressione cupa.
“Augurati che per una volta Rafael non abbia avuto ragione, cornacchia, perché se mi hai disturbato senza un valido motivo…” ringhiò. Non ebbe bisogno di concludere la frase. Era già stato fin troppo eloquente.Quell’atteggiamento ostile non parve scoraggiare il piccoletto, cosa che aveva davvero dell’incredibile, visto che viveva nel terrore del suo superiore.
“Nossignore. Sono sicuro che giudicherete il motivo più che valido” lo rassicurò. E dal momento che l’altro non rispose, limitandosi a fissarlo truce, si sentì autorizzato a continuare. “Poco dopo il tramonto è giunto un ospite del tutto inatteso. Avresti dovuto esserci, Sommo Maestro: è stato come se qualcuno avesse gettato una bomba in mezzo alla sala delle udienze!”
“Risparmiami le figure retoriche, Ramsey” lo ammonì Raistan, con voce atona. “Vieni al punto o togliti dai piedi.”
“Sissignore. Per farla breve, sono tutti in gran fermento. Il Kilar Rafael ha quasi perso il controllo, non lo avevo mai visto così!”
Raistan lanciò un’ultima occhiata ammonitrice al proprio assistente.
“Un Arconte. Un Arconte del Concilio!” esclamò finalmente Ramsey, rendendosi conto che protrarre quell’attesa avrebbe potuto avere conseguenze nefaste. “Senza alcun preavviso, senza nessun annuncio ufficiale. Si è presentato direttamente ai cancelli, con una bolla ufficiale e due bauli da viaggio. Un Arconte vero!”
Questa volta fu il turno di Raistan di manifestare sconcerto. Che accidenti ci faceva un Arconte alla Casa Madre? C’era solo un motivo per cui quel genere di individui si muoveva, e non era mai un buon motivo.
“C’è un processo in corso?” si informò cauto, cercando di riordinare le idee. Per un attimo lo sfiorò perfino il dubbio che lo avessero fatto chiamare per lui, per giudicarlo una volta per tutte e liberarsi della sua scomoda presenza. Ma questo non avrebbe giustificato la reazione di Rafael.
“No, che io sappia. È la stessa cosa che ho pensato io” rispose pronto Ramsey. “E comunque perché il Concilio dovrebbe mandare un Arconte alla Casa Madre? Quic’è già un tribunale, e se ci fosse una questione di importanza superiore, che esula dagli interessi del singolo Clan, dovremmo saperlo tutti. Per questo mi sono stupito e ho pensato voi doveste essere informato subito…”
Raistan lo zittì con un cenno della mano. Sì. Non era una questione da prendere sottogamba. In Europa il Concilio vantava solo tre Arconti, per quanto ne sapeva lui, figuresuper partes investite di pieni poteri, chiamate a giudicare i casi in cui la sicurezza dei Clan fosse messa in pericolo da questioni che esulavano la giurisdizione dei Clan stessi. Personalmente non ne aveva mai incontrato uno, e non ci teneva particolarmente. Erano individui ammantati di un’aura sinistra, intoccabili, che con i loro giudizi potevano invocare una sentenza di Morte ultima perfino sui regnanti. Il più delle volte si presentavano già accompagnati da un Esecutore, un boia incaricato di eseguire la condanna da loro pronunciata. Non c’era da augurarsi di avere mai a che fare con loro.
“Ho sentito Rafael bisbigliare qualcosa all’usciere” aveva ripreso intanto Ramsey, eccitato dall’attenzione che era riuscito a suscitare in Raistan. “Insomma, sembra che l’Arconte sia venuto per stabilire il suo Ministero qui, alla sede del Clan. Vuole usarlo come appoggio, e si aspetta la massima collaborazione da parte di tutti. Tra l’altro, è un francese, sembra. Il che giustificherebbe almeno in parte la scelta…”
Il piccolo vampiro notò con disappunto che il Sommo Maestro non lo ascoltava più. Anzi, gli aveva girato le spalle e si era incamminato attraverso la Sala e verso il corridoio che conduceva ai piani superiori. Partì all’inseguimento, cercando di non farsi distanziare.
“Un francese, dicevo” riprese, cercando invano di affiancare il vampiro più anziano. “Non si è mai visto un Arconte alla Casa Madre! Ci deve essere qualcosa di grosso in ballo! Magari sceglierà uno di noi come Esecutore!” continuò, quasi correndo per non farsi lasciare indietro.
Era sicuro che al Sommo Maestro aveva fatto piacere essere informato, si congratulò mentalmente con se stesso!

Arconti.
Ci mancavano gli Arconti, lì, alla Casa Madre. Un altro burocrate del cazzo da cui guardarsi, proprio quello che ci voleva. Magari avrebbe dovuto perfino parlargli, collaborare con lui. Gli si inacidiva il sangue solo a pensarci. Di un’unica cosa gli era grato ancora prima di fare la sua conoscenza: aveva fatto perdere le staffe ai Kilar. Man mano che si avvicinava al salone delle udienze, sentiva le loro voci irate e non riuscì a trattenere un ghigno, prima di ritornare a chiedersi che cosa, tutto ciò, avrebbe potuto comportare per lui. Quando spalancò la porta, tuttavia, e vide la figura di spalle, immobile davanti agli scranni dei giudici che schiumavano di rabbia, si bloccò a sua volta.Quello era…. no, non poteva essere. Eppure, chi se ne andava in giro vestito completamente di bianco, nel ventunesimo secolo? E tutto il resto… i capelli… la struttura fisica… cazzo… l’odore… Si accorse di stare stringendo la maniglia con tale forza da farla scricchiolare e si impose di allentare la presa. I giudici, in compenso, non sembravano nemmeno essersi accorti del suo ingresso e continuavano a inveire contro il nuovo arrivato, sventolandogli davanti scartoffie polverose.
“Ma che cazzo” si sentì dire, con una voce che non riconobbe assolutamente come la propria. Vi fu un attimo di silenzio costernato, talmente perfetto che la polvere, cadendo, produceva un frastuono assordante.
“E questi è il nostro Sommo Maestro” annunciò poi Kilar Rafael, la voce che grondava biasimo. Il tono e lo sguardo con cui accompagnò quell’annuncio non sembravano davvero adeguati a una simile presentazione. Il suo illustre ospite, tuttavia, non parve badarci più di tanto. Si voltò e fronteggiò il nuovo venuto, squadrandolo da capo a piedi con garbato interesse.
“Ho sentito molto parlare di voi, Sommo Maestro” asserì poi, chinando il capo in un cenno di saluto.
Rafael assisteva a quell’incontro con l’aria di uno che stesse camminando in equilibrio sulle punte di una selva di frecce acuminate.
“Sommo Maestro, l’Arconte del Concilio Supremo, Guillaume De Joie” espletò la presentazione come se avesse fretta di interrompere ciò che l’Arconte avrebbe potuto dire riguardo la fama di Raistan. E aggiunse, giusto per rivendicare il proprio ruolo in quello scomodo scambio: “L’Arconte ci farà l’onore di restare tra noi fino a data da destinarsi. Inutile dirvi che il Kilarmeth lo ha come ospite di assoluto riguardo e gli ha assicurato la propria completa disponibilità per tutto il tempo della sua permanenza…”
“… che sarà, prevedo, molto lunga, Kilar Rafael” Questa volta fu il turno dell’Arconte di interrompere il Giudice. Un fremito attraversò i presenti. Il volto di Rafael era dello stesso colore della pietra che pavimentava la sala, e della pietra aveva anche l’espressione.
“Naturalmente, Domine. Tutto il tempo che riterrete opportuno” sibilò.
Guillaume fece un cenno di graziosa accondiscendenza col capo, prima di tornare a rivolgersi a Raistan.
“E da parte vostra, sommo Maestro? Posso sperare nella più piena e assoluta collaborazione?”
“Ma. Che. Cazzo” ripeté Raistan, poi si rese conto che tutti gli occhi erano puntati su di lui, specie quelli del nuovo arrivato e dovette consapevolmente resistere alla tentazione di girare i tacchi e uscire dalla stanza. Tutte le emozioni che aveva tentato di soffocare in quegli ultimi mesi minacciavano di sfociare in qualche manifestazione davvero violenta e imbarazzante, per cui deglutì un paio di volte, prima di riuscire a balbettare qualcosa di sensato.
“Piena. Collaborazione” si sentì dire.
L’Arconte annuì compiaciuto. Del resto, non si era aspettato nulla di diverso. Era per quel motivo che si trovava lì. Solo per quello.

Parte Prima

Parte Seconda

Parte Terza