Pensavate di trascorrere il fine settimana sul divano? A guardare la TV?
Niente affatto!
Siete TUTTI arruolati per un contest: leggete la citazione e scrivete l’incipit di una storia che non dovrà superare le dieci righe. Tempo? Fino alle ore 23.59 di domenica.
“Accontentarsi di chiunque pur di non restare soli.
Se dovessi spiegare a parole l’infelicità, lo farei così”.
Charles Bukowski
Il vostro “parto” dovrà essere inserito con un commento, qui sotto.
La giuria (Babs, Maddy, Lia, Federica, Amneris) assegnerà un premio misterioso all’incipit ritenuto più interessante.
Elena scansò la tenda con la mano e guardò fuori dalla finestra. La stessa vista di ogni giorno, fatta di lenzuola stese sui balconi e vite sempre uguali, intrappolate in giorni solo all’apparenza diversi, ma figli di un grande disegno che avrebbe dovuto condurli tutti da qualche parte. Ma non era così per lei, non più. Non avrebbe saputo dire come, quando o perché, ma qualcosa in quel meccanismo si era inceppato, da un momento all’altro. Se avesse creduto nel destino, avrebbe pensato che quello che era accaduto nelle ultime settimane fosse dovuto all’intervento di un grande burattinaio che aveva deciso di intromettersi nella sua vita così, per noia o solo per cambiare quel copione che ormai puzzava di cose andate a male e che ancora non ti decidi a buttare. Ma lei nel destino non ci credeva, non più. Inspirò a fondo, racimolando un po’ di coraggio, ma non era certo in quei tetti tutti uguali che l’avrebbe trovato. Lasciò andare la tenda e si girò. «Giulio, è finita». Tre parole. Erano bastate solo tre parole per pugnalarlo al cuore.
Lo guardò irritata, alzando appena lo sguardo dal libro che stava leggendo. La pancia prominente fuoriusciva dai boxer troppo stretti in vita, modello fuori moda dall’assurdo colore giallo canarino. I peli del petto che intravedeva al di sopra del giornale sportivo erano già tinti di grigio. In testa un ridicolo cappellino della squadra del cuore, scucito da un lato, patetico quanto il pacchiano orologio al polso. Era abbandonato sullo sdraio, indifferente alla bellezza della natura e alla vita che c’era intorno, immerso nel suo ristretto mondo. Giurò che se avesse sentito anche solo una parola sul campionato o su come rimpiangeva la sua comoda poltrona, l’avrebbe ucciso. Be’, l’avrebbe ucciso prima di quanto era previsto. Era stanca di sentirsi infelice, era esasperata da tutti quegli anni buttati via pur di non essere l’unica figlia nubile della grande diva Amberini, l’unica a non aver ereditato la sua sofisticata bellezza. Dal mare uscì un uomo dal corpo di un dio greco, la pelle bagnata risplendeva sotto i raggi del sole. Anna ebbe un impercettibile movimento delle labbra e posò il libro.
Gli imprevedibili percorsi del fato!
Al bivio, giro a destra o a sinistra?
E’ una mia libera scelta, e sia che la prenda assecondando l’istinto sia che la prenda usando il ragionamento, è una decisione che cambierà il mio presente ed il mio futuro.
Ogni decisione che prendo mi porta su una direzione diversa, il mio futuro gira l’angolo e prende una strada non ancora percorsa, tutta da esplorare.
E se invece rimanessi ferma lì, davanti a quel bivio?
Non dovrei fare una scelta, certo, ma non vivrei, mi limiterei a sopravvivere, ad accontentarmi, non avrei paure, non proverei dolore, non vivrei gioie, sarei bloccata in un limbo di emozioni e possibilità.
E allora davanti a quel bivio, davanti ad ogni bivio che incontrerò lascerò che sia il mio cuore a decidere la direzione, senza remore, e non mi pentirò dei miei passi.
Non voglio più accontentarmi del meno, mai più.
Tic tac tic tac tic tac
L’incessante ticchettio dell’orologio da tavolo alle spalle del dottor Johnson sortiva un effetto ipnotico su di me, rimasi completamente incantata senza più riuscire a distogliere lo sguardo.
«Rachel.»
tic tac tic tac
Le lancette proseguivano imperterrite con i loro scatti meccanici e perfetti.
Quella mattina era cominciata così, pensando al tempo che era passato e a quanto fosse stato rapido.
tic tac tic tac
Forse era stato quel primo capello bianco, scoperto appena sveglia, mentre mi specchiavo. In trentacinque anni non ne avevo mai trovati e poi, eccolo lì, il bastardo! Lo avevo fissato, contemplandolo come fosse un reperto archeologico raro, accorgendomi, così, anche di tutte gli altri piccoli segni sulla pelle.
Avevo passato una buona mezz’ora a fissarmi allo specchio, ad aprire e chiudere la bocca come un pesce, a muovere il viso o a stirare qualche lembo di pelle.
Una rughetta qui, una macchietta là… una zampa di gallina… il mio viso era cambiato ed io ero stata talmente distratta da non essermene nemmeno accorta.
Fino a quel momento.
Ma perché solo ora?
Lo sapevo fin troppo bene. Ero stata sveglia tutta la notte a rimuginarci sopra. La causa era Elizabeth, e la lettera che avevo ricevuto. Rivedere il suo nome dopo tanto tempo, ripensare a lei… aveva risvegliato in me qualcosa che negli anni avevo seppellito profondamente nella memoria. Mi aveva destabilizzata e nella notte, erano tornati a galla i ricordi, i pensieri, i dolori.
«Rachel!»
tic tac tic tac tic tac
«Rachel!!» il dottor Johnson colpì la mia scrivania con il palmo aperto della mano e a quel punto lo sentii.
Albert Romanov era rimasto in ufficio più tardi del solito e questa volta aveva qualcosa di diverso da fare che compilare il rapporto mensile per il consiglio d’amministrazione. Aspettando che tutti fossero usciti, inclusa la propria segretaria, continuava a guardare l’orologio e la lista delle presenze sul proprio computer, fino a quando non fu finalmente sicuro di essere l’unica persona nell’edificio.
Aveva riletto per l’ultima volta l’incartamento Vozniek, costituito da diverse pratiche aperte sulla moderna scrivania di radica che aveva richiesto e scelto personalmente due anni prima, e non poteva capacitarsi di come le cose erano andate di male in peggio. Prima le autorizzazioni ad aprire conti e società offshore, poi i trasferimenti di denaro in Lussemburgo, iniziati come un normale sotterfugio per sottrarre qualche soldo al fisco e lentamente diventati un’operazione ben più ampia.
Non che fosse diventato moralista all’improvviso ma se tutto aveva un prezzo a questo mondo, forse il conto che si era trovato a dover pagare era di gran lunga troppo salato. Aveva cominciato anni prima a rimaneggiare i conti della banca, a fare favori e accumulare consistenti somme di denaro nel suo conto in Svizzera. Certo non era l’unico che si era arricchito e Vozniek stesso, il titolare della banca privata in Praga, aveva senza dubbio sottratto la sua parte. E così capitò che Albert si fece prendere dagli eventi, continuando a giocare una partita perché tutto sommato non sapeva fare altro, e fermarsi a riflettere avrebbe solo evidenziato ulteriormente il vuoto oppressivo creatosi intorno a lui.
«Ho sopportato questo tuo desiderio di avventura quando era una fantasia, ma ora dovresti vedere la stupidità che c’è dietro questa azione. Oggi c’è la mostra!» mi ha gridato Manuel.
La cosa stupida è il bangee jumping, il grande salto che attendo di fare prima che un imbecille al volante mi ha falciato sulla strada, togliendomi sorriso e voglia di vivere che sono tornate dopo anni di riabilitazione e desiderio di riscatto. “Ce la farò!” mi sono ripetuta in lunghe ore di esercizi in attesa di provare il volo che avrebbe ridato slancio alla mia vita.
«Non mi fermerai!» ho ripetuto caparbia.
«Potrei non esserci al tuo ritorno…» ha ripetuto stupito e forse anche deluso.
«Non ci sei stato per mesi perché ti vergognavi della mia sedia a rotelle e ora dovrei venire alla mostra con te, per gonfiare il tuo orgoglio e fingere che nulla sia accaduto? Io mi butto!»
Ho preso la mia attrezzatura, guidato fino al ponte dove un uomo sorridente mi porge una corda e mi dice: «Pronta?»
Lo sono da un vita!
Conati mi ghermiscono lo stomaco. Questa non è arte. NON È ARTE. L’odore di morte, il sangue rapppreso, l’occhio vitreo del corpo incastonato in quel quadro. Non è arte. Mi guardo attorno. Tutti contemplano le immagini come fossero Somma Arte. Io ho bisogno di un bagno o anche solo di un secchio per buttare fuori la colazione. Questa mostra non mi fa riflettere, non mi fa pensare, mi fa solo schifo. E io, ora, devo solo vomitare.
Erano passati appena due giorni da quando aveva divorziato da Shana, che, preso dall’euforia e dal desiderio di staccare con il passato e dalla voglia di mettere un bel po’ di chilometri tra sé e la vecchia vita, aveva risposto ad un annuncio, trovato chissà dove in rete, per un posto vacante da veterinario. Così, fatti i bagagli, aveva caricato la macchina delle sue cose, aveva fatto salire Brutus e Marlow sul sedile posteriore e via, a caccia di uno dei paesini più sperduti del Wisconsin. Greendale, abitanti circa duemila, con la densità di fattorie e aziende agricole più alta di quasi tutti gli Stati Uniti.
Il viaggio in macchina con i suoi amici a quattro zampe si era rivelato molto più interessante di tutti quelli che aveva sostenuto con la sua ex moglie; almeno loro non lo criticavano per la guida, per la velocità, per la musica, per l’aria troppo fredda, per quella troppo calda, per la barba troppo corta o poco rasata, per il maglioncino troppo scuro o troppo chiaro, e non chiedevano una sosta ad intervalli regolari di due ore l’una dall’altra.
Aveva passato il confine che era da poco tramontato il sole e proprio in quel momento il navigatore aveva avuto la brillante idea di spegnersi e non volersi più riaccendere. Così si era dovuto affidare alla segnaletica e fermare a chiedere informazioni nei locali che trovava lungo la strada, cosa che era stata sicuramente gradita ai suoi animali che potevano almeno sgranchirsi le zampe.
«Ragazzi, e ora che si fa?» Ad ora di cena aveva fermato l’auto in prossimità di un bivio che aveva l’aria di essere decisivi. «Sembra quello della mia vita. A destra continuare con la solita vita, preconfezionata e predigerita, a sinistra l’ignoto. Spaventoso ma stimolante.»
Mise a fuoco il nome su di un cartello che aveva ignorato e svoltò a sinistra. Il Redneck aveva tutta l’aria di essere uno di quei locali dove si fermavano i camionisti per divertirsi, cupo, quasi isolato, e dal cui interno proveniva il rimbombo di musica assordante.
Sono due ore che corro, sono talmente sudata che perfino le scarpe sono inzuppate.
Dopo la notte insonne che ho trascorso è un sollievo sentire i miei muscoli urlare di quel dolore sordo che per tutto il giorno mi farà digrignare i denti, distraendomi da tutta la melma che mi ha tenuta sveglia.
Sbuffo scrollando la testa e aumento il ritmo della corsa, sono uscita per distruggermi di adrenalina non per crogiolarmi in pensieri troppo familiari e ridicolmente pietosi. Faccio il giro dell’isolato per l’ennesima volta e mi accorgo che le imposte dei miei vicini si stanno pian piano aprendo, accogliendo il nuovo giorno. La signora Truman mi saluta svolazzando la mano mentre con l’altra regge una tazza di caffè. Probabilmente ha tenuto il conto di quante volte sono passata davanti casa sua.
È l’impicciona della città, il gazzettino aggiornato, la megera pronta a tutto, la religiosa fasulla…c’è proprio bisogno di gente come lei nel mondo così ogni moglie sospettosa saprà a chi rivolgersi mordendo un fazzoletto e ingoiando lacrime, tutte le madri ansiose sapranno a chi indirizzare le domande più o meno appropriate, qualunque suocera preoccupata troverà sostegno e verità.
Se solo andassi da lei anche io potrei dormire, finalmente.