Comincia oggi la seconda avventura di Raistan Van Hoeck e Guillaume de Joie, i vampiri creati da Lucia Guglielminetti e Federica Soprani. Ricordiamo che la storia presenta connotazioni tali da renderla adatta solo a un pubblico adulto. Buona lettura!

1

Raistan Van Hoeck si stava godendo un po’ di sano relax domestico.

Allungato sul divano di pelle nera – di fatto l’unico mobile presente nell’enorme salone, se si escludeva l’imponente impianto home theatre – era immerso nella lettura di una raccolta di racconti di Lovecraft, quando il campanello trillò. Alzò la testa dai cuscini, sorpreso: da quando si era trasferito nella sua nuova dimora, circa sei mesi prima, non aveva mai ricevuto visite. La sua vita sociale era piuttosto limitata, per non dire inesistente. Il bello è che non gliene importava un fico secco.

Lo spinello che stava fumando lo aveva reso ancora più tranquillo, tuttavia, e nemmeno ringhiò, quando dovette alzarsi. Chi cazzo poteva essere, a quell’ora? Forse Greylord? Shibeen, la sua creatrice, tornata da chissà dove? Gli bastarono pochi passi in direzione della porta per rendersi conto che le sue previsioni erano del tutto errate. Riconosceva benissimo quell’odore. Soprattutto dopo aver bevuto parecchio del sangue di colui a cui apparteneva, in una notte che più folle non avrebbe potuto essere.

A onor del vero rallentò l’andatura ed ebbe anche la tentazione di fingersi assente, ma sospettava che l’ospite inatteso si fosse già accorto della sua presenza in casa. Non voleva che pensasse che aveva paura di lui. Non ne aveva, di fatto. O forse un pochino sì. Forse era la sua completa imprevedibilità che lo metteva a disagio. O no? La mistura di Ciro, nella canna, non era l’ideale per mettere insieme pensieri coerenti.

Arrivato nei pressi della porta, aspirò l’ennesima boccata di fumo e la trattenne, poi aprì.

Eccolo lì. Il maledetto francesino, di un’eleganza abbagliante quanto il sorriso che aveva stampato in faccia.

Raistan si appoggiò allo stipite con il braccio alzato, lo squadrò con sguardo neutro e lasciò sfuggire lentamente il fumo dalla bocca dritto sulla faccia di Guillaume. Non ebbe la reazione che sperava. L’attenzione dell’Immortale era tutta rivolta alla porzione di pelle scoperta tra l’orlo della maglietta nera e i pantaloni della tuta che Raistan indossava quella sera. Gli occhi gli si erano fatti torbidi, in un’espressione avida che l’Olandese aveva già visto e che non era sicuro gli piacesse.

“Come diavolo hai fatto a trovare casa mia, Fiorellino?” gli chiese.

Ci vollero alcuni secondi prima che Guillaume riuscisse a rispondere. Quando lo fece, le sue parole non avevano nulla a che fare con quello che Raistan gli aveva chiesto: “Ma tu ce l’hai il porto d’armi per andare in giro in questo modo, cheri? Sei pericoloso, dico sul serio.”

Allungò persino una mano con l’intenzione di seguire il contorno di quella fossa iliaca così appetitosa, ma Raistan gliela schiaffeggiò senza tante cerimonie. “Ti ho chiesto come hai fatto a trovarmi” sibilò, mentre Guillaume cercava di sporgersi oltre le sue spalle per sbirciare dentro casa.

“Kensington, cottage isolato, di pietra. Ce ne sono altri due, ma hanno cani nel giardino. Uno ha anche un’altalena. Mi sono sentito autorizzato a scartarli. E ho fatto bene. Allora, vediamo un po’ questa tua sontuosa dimora…”

Spostò da un lato Raistan con un gesto gentile, ma deciso e l’Olandese non riuscì a opporsi alla sua forza. Doveva cercare di non dimenticare mai che sotto quelle spoglie così delicate si celava un killer letale, più potente di lui. Prese un’altra lunga boccata di fumo, scosse la testa e si chiuse la porta alle spalle.

2

Guillaume si liberò con nonchalance del lungo soprabito bianco, rivelando un impeccabile completo dello stesso colore. I pantaloni cadevano con una linea dritta come filo a piombo, la giacca sembrava cucita su misura per le sue spalle, la sua vita, i suoi fianchi. Probabile che fosse proprio così. Dopo essersi guardato intorno un istante, lasciò cadere il soprabito sul divano e si tolse anche la giacca, rimanendo in maniche di camicia e panciotto. Valutò con un’occhiata di compiacimento l’home theatre, prima di andare alla ricerca di altre stanze.

“Fai pure come se fossi a casa tua, mi raccomando” lo inseguì la voce di Raistan. Lui non si prese la briga di rispondere, limitandosi a sogghignare tra sé. Quando tornò nel salone, l’Olandese era di nuovo stravaccato sul divano a fumare, il capo riverso all’indietro. Guillaume contemplò la lunga figura abbandonata con apparente rilassatezza, dalla quale, ne era certo, avrebbe potuto riscuotersi in qualsiasi momento, balzando in piedi in un fascio di muscoli pronti a scattare. Anche questo faceva parte della sua bellezza. C’era da chiedersi se Raistan se ne rendesse minimamente conto.

Prese posto in un angolo del divano, sedendo compostamente, il busto appena flesso in avanti, le mani intrecciate.

Raistan lo spiava cauto tra le ciglia. Era così perfetto da risultare fastidioso, con quel capelli pettinati all’indietro in un’onda che scendeva sul collo in morbidi boccoli disegnati dalla mano di un artista. Sarebbe bastato allungare una mano per sgualcirlo irrimediabilmente, e un po’ faceva venire voglia di farlo. Ma in qualche modo l’Olandese sospettava che ci volesse ben altro per turbare quella strana creatura.

“Sì, anche tu mi sei mancato, Raggio di sole…”

Il volto di Raistan si contrasse in una smorfia orribile. Non si era reso conto di essere rimasto a fissare Guillaume in silenzio finché non aveva udito la sua voce. Ora il francese lo guardava con la consueta espressione serafica che avrebbe fatto prudere le mani a un santo o a un monaco buddista.

“Le notti erano lunghe e noiose senza il tuo fascino, il tuo acume, la tua brillante conversazione, la tua sagacia…”

“De Joie, trovi da solo la porta o vuoi che ti mostri dov’è?” lo interruppe secco Raistan.

L’altro si limitò a ridere.

Passarono alcuni minuti in cui il silenzio regnò sovrano, in casa Van Hoeck.

Raistan sembrava perso in un mondo tutto suo e fumava tranquillo, senza degnare della minima attenzione Guillaume, che invece fotografava l’ambiente con gli occhi come se lo stesse già arredando. Stranamente fu l’Olandese a rompere la quiete.

“Vuoi qualcosa da bere?” disse con voce roca. Teneva gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, mentre dalla canna abbandonata in un angolo delle labbra le spire di fumo salivano verso il soffitto. Guillaume si voltò verso di lui. “Certo, perché no?”

“La cucina è da quella parte” rispose Raistan, sollevando un dito e puntandolo verso una porta sul lato destro del locale.

Il sorriso si congelò sul volto del francese, che lo guardò incredulo.

“Dimmi un po’, ma dove sei cresciuto? Presso una tribù di barbari, su un altopiano della Siberia? Sei mai stato minimamente gentile con qualcuno, in vita tua? Vita o non-vita, non fa differenza. E dire che sono venuto con le migliori intenzioni per aiutarti…”

“Sei venuto sperando di scopare. Peccato che la mia mezz’ora gay annuale sia finita poco prima che tu arrivassi…” rispose Raistan, senza scomporsi e senza nemmeno aprire gli occhi. D’altronde era sempre quella la sua tattica: mettere alla prova le persone portandole all’esasperazione, una scortesia dopo l’altra. Qualcuno – la maggior parte – scappava, ma quelli che, per qualche misterioso motivo, resistevano, avevano accesso anche al lato di lui più nascosto e che spiacevole non era. Se così non fosse stato, la sua creatrice lo avrebbe ucciso molto tempo prima. Qualche volta la tentazione l’aveva avuta, ma il suo amore per lui non era mai stato in discussione.

“Io non sono gay, idiota. Sai bene che queste catalogazioni umane tra di noi non hanno senso. Mi vedi, Van Hoeck?”

“Purtroppo sì, ma spero che sia una cosa passeggera” rispose l’Olandese, sghignazzando.

Un attimo dopo, una mano di Guillaume lo teneva saldamente artigliato per i capelli e Raistan fu costretto a dedicargli più attenzione. Spalancò gli occhi solo per stringerli in una fessura minacciosa e regalò al suo ospite un ringhio feroce dal fondo della gola, cercando nel contempo di fargli mollare la presa. La cosa si rivelò più ardua del previsto. Anche l’espressione del francese era minacciosa, adesso. La dolcezza dei suoi lineamenti era stata sostituita da una maschera gelida e le labbra erano sollevate a mostrare canini spaventosi, che Raistan non mancò di notare.

“Allora, mi vedi, zotico che non sei altro?”

La sua presa si fece ancora più decisa e Raistan ringhiò di nuovo. Tentò di colpirlo al volto con un manrovescio, ma la mano gli venne bloccata a mezz’aria.

“Rispondi!”

“Sì, ti vedo, cazzo, ti vedo. E allora?! Lasciami, ti avverto. Non mi toccare, non…”

“E allora avrai notato che sono bello. Bellissimo. E potrei avere tutti quelli che voglio. Maschi e femmine, per me non fa differenza. Sono anche ricco, colto e affascinante, se ti fosse sfuggito. Credi che abbia bisogno della tua compagnia, o dei tuoi favori sessuali? Il mondo è mio, Olandese. Basta che io tenda la mano per afferrarlo. Se sono qui è per mia scelta, non per necessità.”

Lasciò la presa sui capelli di Raistan e si alzò in piedi con uno scatto fulmineo, risistemandosi il colletto della camicia con mosse nervose. Voltò deliberatamente le spalle all’Olandese, per fargli capire che non aveva paura di lui, anche se era pronto a combattere e si aspettava di doverlo fare. Maledetto lui e i suoi modi da caprone! Odiava venire alle mani, alzare la voce e fare il gradasso ma, se la loro strana amicizia voleva avere uno straccio di possibilità, era necessario che l’Olandese capisse chi si celava sotto quella superficie tanto raffinata.

3

Raistan, del canto suo, si era acquattato in posizione d’attacco, gli occhi dalla pupilla verticale conficcati in mezzo alla schiena di quel maledetto francese. Il suo istinto era uno solo: balzargli contro e fare scempio di lui, cancellargli dalla faccia troppo bella quella sicurezza ostentata, fare a pezzi il suo corpo proporzionato e armonioso, cercando l’anima nella carne, ammesso che gliene fosse rimasta una briciola. C’era il sangue, sì, quello lo aveva assaggiato, accidenti a lui. Lo sentiva ancora scorrergli tra le labbra, possente, inarrestabile, un flusso di eternità prorompente che aveva rischiato di sbalzarlo da se stesso. Si accorse di avere la bocca arsa, le labbra dolenti. Le gengive si erano ritirate sulle zanne, e non solo per la rabbia. Più di ogni cosa desiderava affondare nuovamente in Guillaume De Joie, fino a ubriacarsene, possederlo come mai aveva desiderato possedere qualunque donna, qualunque uomo.

“Che c’è? Vuoi mangiarmi?”

Quando il francese gli rivolse di nuovo la parola, Raistan si accorse di aver digrignato i denti fino al punto di farli scricchiolare. Cercò di articolare un suono qualsiasi, ma la gola era arida come una cava di sabbia e aveva l’impressione di avere lamette da barba lungo l’esofago.

Guillaume lo guardava con espressione ineffabile. Non sorrideva. Si limitava a fissarlo con quel suo sguardo da giovane infinitamente vecchio, le labbra appena atteggiate in un broncio che tradiva una vulnerabilità solo illusoria. Impossibile capire cosa gli passasse davvero per la testa, e nello stato in cui Raistan si trovava, quell’imprevedibilità, che pure era più reale di qualsiasi piacevole maschera il francese avesse adottato a suo beneficio fino ad allora, era spaventosa.

Poi Guillaume inarcò un sopracciglio e il suo volto mutò all’improvviso, come una mosaico scombinato da una mano molesta, un caleidoscopio in perpetuo mutamento. Riassunse la consueta espressione annoiata e indolente.

“Suvvia, Von Hoeck, ti pare il caso di serbare rancore?” lo canzonò bonariamente, “Un ragazzone grande e grosso come te! Abbiamo del lavoro da fare, ricordi? Questa baracca non si ammobilierà da sola.”

Mentre parlava aveva recuperato il soprabito. “Muovi quel tuo appetitoso culo e cerca di starmi dietro. Ti piace la cucina asiatica?”

Raistan non gli rispose.

Non era in grado. Sfrecciò in cucina, spalancò il frigo e ne trasse due sacche di sangue che squarciò con i denti in rapida sequenza e svuotò avidamente, con le mani che tremavano, senza preoccuparsi di quello che gli finiva sulla maglietta o sul pavimento. Era l’unico modo per riassumere un vago controllo di sé. Perché quel tipo gli facesse un effetto tanto destabilizzante era un mistero, poi. Non gli era mai successo niente del genere in tre secoli, poco ma sicuro.

Fu strappato alle sue riflessioni dalla voce di Guillaume che, appoggiato allo stipite della cucina, lo stava guardando con espressione vagamente disgustata: “È così che ti nutri, di solito? Non mi sorprende che il mio sangue abbia avuto un effetto tanto devastante su di te. Dio, bisogna ricominciare tutto da capo, devo proprio insegnarti tutto…”

Si diresse verso di lui, ma Raistan si spostò rapido presso il lavello e gettò la plastica ormai prosciugata delle sacche. Si sentiva un po’ meglio, un po’ più padrone di sé. Ma solo un po’. Non voleva che quel maledetto francese si avvicinasse troppo. Quando lo aveva afferrato per i capelli, poco prima, aveva percepito tutta la sua letale energia e l’aveva temuta. E lui odiava temere qualcuno, perché l’imprevedibilità di Guillaume era anche la sua e non sempre riusciva a controllarsi. A conti fatti temeva se stesso tanto quanto il francese. Un bel problema, per usare un eufemismo.

“Vorrei che te ne andassi” gli disse, tenendosi artigliato al bordo del lavandino, il capo chino e i capelli che spiovevano in avanti a coprirgli il volto.

Sentì il corpo di Guillaume aderire alla sua schiena, le braccia che salivano a cingergli il torace e lo accarezzavano e si irrigidì con un lamento strozzato. Poi l’abbraccio si sciolse, ma solo per permettere alle sue mani di insinuarsi sotto la maglietta e sfiorargli la pelle dei fianchi e del petto. Lì si bloccarono. Raistan non poteva vederlo, ma l’espressione di Guillaume era cambiata. Aveva aggrottato la fronte e sgranato gli occhi, perché quello che sentiva sotto le dita era troppo inquietante. La pelle dell’Olandese era solcata da un reticolo di cicatrici, alcune in rilievo, altre infossate come solchi, come se qualcuno si fosse divertito a giocare a tris usando lui come lavagna.

Guillaume si staccò e gli sollevò lentamente la t-shirt, scoprendo il gigantesco tatuaggio che gli copriva la schiena da circa un anno. Un delirio di fiamme e argento con una città in rovina sullo sfondo, che celava le cicatrici delle frustate, ma non poteva annullarne la consistenza. I fianchi, poi, erano attraversati da tre enormi solchi per lato, come graffi inferti da un grosso animale. Le sue dita gli avevano suggerito che anche il torace fosse devastato da qualcosa di simile. Per una volta, Guillaume de Joie era rimasto senza parole.

Fece un passo indietro, fissando Raistan. Lui si era voltato, ma rifuggiva il suo sguardo. Si teneva ancora al bordo del lavandino, immobile. Poi, in un impeto di orgoglio, alzò gli occhi e intrappolò quelli dei francese.

“Ti è passata la voglia di toccarmi? Meglio così. Adesso alza i tacchi e lasciami in pace.”

Guillaume scosse il capo, in un gesto lento. Anziché retrocedere avanzò di uno passo, costringendo Raistan a schiacciarsi contro il lavandino. Sollevò la mano disegnando un arco flessuoso nell’aria, e allungò le dita a spianare la ruga che aggrottava la fronte dell’Olandese. Raistan distolse il volto, accentuandola ancora di più.

“Abbiamo tutti le nostre cicatrici, Olandese” mormorò Guillaume, inclinando il capo da un lato. “Alcune sono evidenti, come le tue, una carta geografica tracciata nella carne che ci riconduce a ciò che siamo stati, a ciò che non potremo mai più essere. Altre sono invisibili, incise nell’anima, marchiate a fuoco in ogni singola fibra del nostro essere” La voce gli si addolcì appena, mentre ritirava la mano. “In entrambi i casi sono il nostro retaggio, le fondamenta su cui erigiamo notte dopo notte il nostro personale impero.”

Si portò il polso alle labbra e vi affondò i denti. Pelle e carne si lacerarono con un rumore di carta crespa. Il sangue iniziò a colare sul pavimento della cucina, disegnando una scia di granati sulle piastrelle bianche. Raistan fissava quello stillicidio, gli occhi sbarrati, le labbra che tremavano irrefrenabilmente.

“Tutto ciò che costruiamo è fatto di sabbia e cenere” riprese Guillaume. Il blu dei suoi occhi aveva assunto quella tonalità torbida che ormai l’altro vampiro aveva imparato a conoscere. “Tutto è destinato a cadere, a svanire, ma non le nostre cicatrici. Loro sono la mappa che ci riporterà a casa, sempre.”

Quando avvicinò il polso sanguinante, Raistan non poté fare a meno di annusare rumorosamente l’aria. Il volto gli si deformò in un’espressione sofferente e un gemito sordo gli scaturì dal fondo della gola, trasformandosi in un verso gutturale prima di giungere alla bocca.

Poi, fulmineo, afferrò il braccio di Guillaume con furia e premette le labbra sulla ferita, con disperata voluttà.

Imprigionato in quella morsa, il francese socchiuse gli occhi, dilatando le narici, e le sue labbra si piegarono in un sorriso di sfinge.

4

Raistan lasciava che il sangue antico gli scorresse in gola, accogliendolo con il sollievo con cui un terreno riarso accoglie la prima pioggia. Non era come saziarsi dei mortali, inutile raccontarsi storie. Il piacere che derivava dal bere il sangue pompato da un cuore impazzito dal terrore non era paragonabile all’estasi assoluta che derivava dall’immergersi in quel flusso possente, che trascendeva il tempo, ingannava la morte. C’era la storia del mondo, in quel sangue, il suo principio, le sue innumerevoli fini, perché la vita di ogni uomo era un susseguirsi di piccole apocalissi, di infinite morti, dalle quali era sempre più difficile tornare. Il vampiro si immerse in quel caleidoscopio di voci e sensazioni, inseguendo la folla di pensieri, cercando tra i mille volti sconosciuti qualcosa che lo riconducesse all’uomo che stringeva tra le braccia. Si ritrovò in una sala da ballo, che era la somma di cento sale da ballo, in un delirante connubio di forme architettoniche le più disparate. In essa ballerini che indossavano abiti appartenenti a tutte le epoche e a nessuna volteggiavano al suono di una cacofonia assordante, che univa in sé ogni musica da ballo mai scritta… Tutti indossavano maschere di ogni foggia e colore, che trasformavano i loro volti in una visione grottesca e spaventosa.

Avvertì che Guillaume stava allontanando il polso dalla sua bocca. No, questa volta non glielo avrebbe permesso. Il francese aveva visto le sue cicatrici? Bene, adesso toccava a lui scoprire cosa nascondesse quella sua adamantina perfezione, quell’imperturbabile spensieratezza.

Si staccò lui stesso dal suo polso, solo per afferrarlo e sbatterlo contro il piano della cucina, schiacciandolo contro il bordo del lavandino. Col mento imbrattato di sangue si godette per un secondo lo stupore negli occhi blu del francese, la sua bocca carnosa socchiusa e miracolosamente priva di voce. Poi affondò nel suo collo, premendosi contro di lui, imprigionandolo in una morsa d’acciaio. Avvertì il corpo di Guillaume irrigidirsi e serrò ancora di più la stretta. Non avrebbe potuto impedirgli di liberarsi, se lo avesse voluto veramente, e lo sapeva. Poteva solo sperare di rendergli la cosa difficile. Sentirlo lottare lo eccitava terribilmente. Fu colto dal desiderio improvviso di possederlo in ogni modo possibile, di violare non solo il suo sangue, anche il suo corpo. Ma doveva approfittare della curva inerme di quel collo d’alabastro finché poteva, strappare da essa tutta l’estasi possibile.

Ridiscese nella sala da ballo, che ora era deserta, brandelli di festoni che pendevano dalle pareti in continuo mutamento, specchiere in frantumi che rimbalzavano la sua immagine in milioni di schegge taglienti. L’aria era satura dell’odore di sangue e fiori schiacciati. Il frastuono era cessato. Solo una melodia risuonava, in lontananza, un suono vivace di Gagliarda intonato da archi e strumenti a fiato su un tappeto di tamburi. All’improvviso un tramestio distrasse la sua attenzione, attirandola verso una grande porta a due ante. Prima che potesse realizzare altro, essa si aprì e una folla di uomini fece irruzione, rabbiosa e irrefrenabile, i volti sfigurati dalla ferocia resi irriconoscibili dal sangue che inzuppava anche le loro mani, le loro vesti.

Si sentì afferrare e scagliare lontano, dall’altra parte della cucina. Sbatté con violenza contro la parete e si rivoltò, pronto a scagliarsi contro quegli uomini e la loro oscura minaccia.

Ma dall’altro lato della stanza c’era solo Guillaume De Joie, che si tastava il collo cercando di porre rimedio al danno che lui gli aveva inferto. Appariva più pallido che mai, scarmigliato come non doveva essere stato da tempo immemore. Lo fissava senza intenzione, apparentemente senza rabbia, solo un po’ accigliato. La cupezza nel suo sguardo lo faceva apparire giovane, esposto.

Raistan riusciva solo a pensare avido a quella bocca lieve come seta.

5

Una voce dentro di lui gli stava urlando di fermarsi. Era la parte saggia di se stesso. Ma quando mai le aveva dato retta?

“Chi ti ha detto che avevo finito, con te, Fiorellino?” ringhiò, aprendo e chiudendo i pugni. Poi scattò. Abbrancò il francese bloccandogli le braccia contro il corpo, lo sollevò e lo trasportò presso il tavolo, una lastra di marmo nero che campeggiava al centro della stanza, scaraventandocelo sopra prono e schiacciandolo su di esso con tutto il proprio peso. Guillaume cercò di sollevarsi, ma si ritrovò di nuovo col viso premuto contro il marmo e per la prima volta ringhiò. Donare il sangue a Raistan lo aveva indebolito molto e stava contemplando per la prima volta, e con notevole stupore, la possibilità di essere sopraffatto dall’Olandese, in quel momento non più razionale di un animale.

Antichi ricordi premevano per salire in superficie nella sua mente. Cose a cui non voleva pensare. Altre mani su di lui. Altri luoghi. Altre persone che ignoravano la sua volontà e facevano di lui ciò che volevano, come se fosse stato solo un pezzo di carne. Si divincolò con decisione, scalciando, ma Raistan gli si era piazzato tra le gambe e i suoi calci non avevano modo di andare a segno. Lo sentiva ansimare e ringhiare e quando i pantaloni gli vennero bruscamente calati sui fianchi fu un’improvvisa staffilata di odio a dargli la forza di afferrarsi al piano e trascinarsi in avanti quel tanto che bastava per poter ruotare il busto e raccogliere le gambe contro il petto. Investì l’Olandese con un calcio in pieno viso che lo fece rovinare all’indietro sul pavimento, con un ruggito di protesta. Si alzò in piedi di scatto, risistemandosi i vestiti con frenesia e si diresse verso di lui che stava tentando di alzarsi, la faccia trasformata in una maschera di sangue, i canini sguainati.

“Non farlo mai più!” gli urlò. “Mai più, hai capito? Mai più! Non sono la puttana di nessuno! Non lo sarò più!” Nemmeno si era accorto di aver preso Raistan per la gola e che sul suo volto era affiorata un’espressione sbigottita, come se si fosse appena svegliato da un sogno. Ci sarebbe voluto poco per strappargli via la trachea. Così poco… Registrò distrattamente le proprie dita affondare ai lati della cartilagine della sua gola, la mano di Raistan che si aggrappava al suo braccio e i penosi rantoli che gli sfuggivano dalla bocca, poi le dita dell’Olandese raggiunsero il suo, di collo, e incominciarono a stringere a loro volta.

“Forse…” tossì Raistan “Forse… è meglio… che… ci diamo… tutti e due… una calmata…”

Anche lo sguardo di Guillaume si snebbiò.

“È.. la prima… cosa… sensata… che hai detto… da quando… ti conosco… Raggio di sole…”

Lasciarono la presa quasi in contemporanea e si afflosciarono sul pavimento, l’uno davanti all’altro.

Rimasero in silenzio per un lungo istante, ognuno perso nelle proprie riflessioni, ma senza smettere di lanciarsi caute occhiate.

Poi Guillaume ruppe il silenzio: “Hai una vasca da bagno in questa capanna, o ti lavi nelle pozzanghere quando piove?”

Raistan fece per ribattere con una risposta acida, ma si trattenne. Era ancora turbato per quanto avvenuto poco prima, per il modo in cui aveva perso completamente il controllo, per quello che era stato sul punto di fare. Lo turbava anche il fatto che non gli fosse affatto passata la voglia, ma, se non altro, riusciva a mantenere una parvenza di razionalità. Inoltre il francese sembrava sconvolto quanto lui, anche se lo mascherava bene, e quando si passò la mano tra i capelli biondi gli parve stanco, esausto.

“C’è una doccia.”

Le labbra di Guillaume si piegarono in una smorfia costernata.

“Una doccia… così ti perdi almeno la metà del piacere di una sala da bagno. Non c’è problema, rimedieremo presto” continuò, alzandosi in piedi con un movimento felino.

“Devi proprio?” obiettò Raistan, aggrottando la fronte. Ora Guillaume incombeva su di lui e lo guardava dall’alto in basso. Alle sue parole inarcò un sopracciglio.

“Nel caso non te ne fossi accorto il mio outfit da duemila sterline è ridotto a uno straccio buono per pulire il pavimento di una macelleria” osservò caustico. Esagerato. Sì, il gilet bianco e la camicia erano inzuppati di sangue, ma i pantaloni avevano solo qualche schizzo, oltre alla chiusura strappata.

“Ok, fatti la doccia. E poi spero che leverai le tende.”

“E per i vestiti?”

“Ho un guardaroba. Prenditi quello che ti pare.” Non era il caso di fare una tragedia per due stracci, con quello che era successo! “Certo, ti cascheranno un po’ addosso” aggiunse, valutando con aria scettica la figura snella del francese.

“Tranquillo, è solo finché non arriviamo al mio appartamento” lo tranquillizzò quest’ultimo, slacciandosi i polsini della camicia con gesti nervosi. “Per quanto apprezzi il tuo look, non ci tengo ad andare in giro come una rockstar anni Ottanta.”

“Fottiti!” lo apostrofò Raistan, alzandosi a sua volta. Ma l’altro gli aveva dato le spalle e aveva già lasciato la cucina.

6

Guillaume lasciò scorrere lo sguardo sugli abiti di Raistan stesi davanti a lui. La stanza era occupata solo dal grande letto, semplice fino ad essere spartano, privo di testiera.

L’aria era satura del vapore che lo aveva seguito dal bagno e del profumo del doccia schiuma usato senza alcuna parsimonia. Guillaume amava fare docce molto calde, al limite dell’ustione. In realtà preferiva fare il bagno, ma in quel caso si era dovuto accontentare. Se non altro si sentiva meglio, i brutti ricordi lavati via insieme al sangue rappreso. Sentiva solo una grande stanchezza e il bisogno di nutrirsi il prima possibile, cosa che contava di fare non appena avessero lasciato il cottage.

Aveva scelto alcuni capi che potevano andare bene, nonostante le differenze fisiche tra lui e il bestione Olandese. Il tessuto freddo della camicia nera gli provocò un brivido di piacere quando scivolò sulle sue braccia e gli avvolse le spalle. Seta, nientemeno. Forse dopotutto lo aveva sottovalutato. I pantaloni avrebbero potuto risultare più problematici. Ne trovò un paio che non gli pendevano troppo dai fianchi e valutò brevemente la propria figura nello specchio che capeggiava sulla parete. Un giovane uomo dalla bellezza insolente, vestito con una noncuranza che su di lui si trasformava in sensualità.

C’era stato un tempo in cui si era convinto di essere maledetto, che Dio avesse voluto dargli quell’aspetto per condannarlo a una vita di sofferenza e umiliazione. Questo accadeva quando ancora credeva in Dio.

Raggiunse Raistan in salotto e lo trovò semidisteso sul divano.

“Sei pronto?” lo incitò, recuperando il proprio soprabito.

“Scusa…?” bofonchiò l’altro.

Guillaume sbuffò.

“Ho preso tre appuntamenti stasera e prima dobbiamo passare da me, così che mi possa cambiare. Dobbiamo cercare i mobili per questa tana, ricordi?”

Spalancò la porta d’ingresso e rimase in attesa che l’Olandese si degnasse di precederlo.

Raistan lo guardò, esasperato. “Per uno che tiene tanto al look, non ti sei nemmeno accorto che non posso uscire così. Mi toccherà lavarmi e vestirmi. Che noia, francese. Il concetto di serata tranquilla non fa parte del tuo vocabolario, vero?”

Detto questo si alzò e si diresse con aria indolente verso il bagno, conscio degli occhi di Guillaume puntati sulla sua schiena. Quando Raistan fu sparito dietro la porta, De Joie si guardò intorno e sospirò, impaziente. Si spostò verso l’impianto home theatre per esaminarlo, ma, quando udì l’acqua della doccia che incominciava a scorrere, i suoi piedi si mossero quasi per volontà propria verso la porta del bagno.

La aprì di uno spiraglio e si affacciò nella fessura. La doccia era perfettamente visibile anche da quello spazio così ristretto.

Ed ecco l’Olandese sotto il getto dell’acqua, il corpo bianchissimo che spiccava contro il marmo nero dello sfondo. Era voltato di schiena, entrambe le mani appoggiate alla parete, a testa china e lasciava che l’acqua gli si abbattesse tra le scapole, immobile come una statua.

‘Il fuoco è la mia tenerezza, perché angelo e belva insieme nel mio spirito caddero abbracciati’ recitava la scritta che attraversava il tatuaggio.

Oh, sì Olandese. È proprio quella la tua essenza’ pensò Guillaume e allargò di qualche centimetro il varco, per stare più comodo. Poi Raistan si voltò e cercò tentoni il flacone dello shampoo, versandosene una generosa dose sul palmo della mano e cospargendosi i capelli, che prese a massaggiare con movimenti lenti e sensuali, gli occhi chiusi, i muscoli del costato che guizzavano sotto la pelle.

Guillaume si ritrovò suo malgrado ipnotizzato da quella visione. La fame ruggiva prepotente nelle sue viscere. E non era solo fame di sangue. Se non fosse stato già vestito di tutto punto, probabilmente si sarebbe scagliato verso la doccia, avrebbe scardinato la porta e avrebbe insegnato a Raistan Van Hoeck cosa significasse essere davvero in balìa di qualcuno. Ma non poteva. Avrebbe dovuto accontentarsi di guardare, per questa volta. Prima o poi lo avrebbe avuto. Oh sì. E niente e nessuno avrebbe potuto impedirglielo.

Le mani di Raistan scesero a insaponare il resto del corpo e Guillaume le seguì con lo sguardo, indugiando quando raggiunsero le parti intime e lì si fermarono. Si era voltato su un fianco, rispetto a lui, ora, ma Guillaume poteva vedere comunque il pugno alzarsi e abbassarsi lentamente sul suo membro, mentre con l’altra mano si reggeva alla parete, le dita che si contraevano e si allargavano al ritmo delle scariche di piacere che percepiva. Teneva di nuovo la testa bassa e gli occhi chiusi, con i capelli che gli coprivano quasi del tutto il viso, ma di tanto in tanto la piegava all’indietro e Guillaume poteva godersi il suo profilo, la bocca socchiusa in cui si intravedevano, letali, i canini, l’espressione di estasi che gli addolciva il volto. Nonostante lo scroscio dell’acqua, era in grado di udire i gemiti bassi e rauchi che salivano dalla gola di Raistan. Digrignò i denti. La fame stava raggiungendo il suo parossismo, e con essa il desiderio squisitamente umano di toccare quel corpo.

Si sintonizzò con il flusso mentale di Raistan e captò immagini vorticose di sesso sfrenato, con donne e con uomini, sangue, morte e lussuria. E vide se stesso. Si vide attraverso gli occhi dell’Olandese, assorbì la potenza delle sue fantasie su di lui, in cui attimi di dominio totale si alternavano ad altri di completa sottomissione. Spalancò gli occhi, quasi sull’orlo della perdita del controllo, giusto in tempo per vedere Raistan raggiungere il culmine e inarcare il corpo con un grido strozzato, per poi ricadere in avanti col capo e aggrapparsi al muro di fronte con le dita contratte.

Richiuse la porta e raggiunse il divano con gambe malferme, sperando di riuscire a riprendersi prima dell’arrivo dell’Olandese.

7

Mezz’ora dopo viaggiavano insieme lungo Edgware Road, direzione Belgravia.

Avevano optato per l’auto di Guillaume, una Maserati Grancabrio simile a un’affilata scheggia di onice. Il francese non aveva dovuto nemmeno faticare troppo per convincere il suo nuovo amico. Gli era bastato offrirgli la possibilità di guidare e Raistan era stato più che lieto di avere tra le mani quel gioiello. Sembrava divertirsi un mondo a far rombare il motore dell’auto e a spingerla a tutta velocità.

Guillaume, seduto accanto a lui, si godeva la corsa e le vibrazioni che dal sedile di pelle risalivano al suo corpo in una deliziosa tortura. Teneva il capo reclinato, gli occhi socchiusi, lanciando solo occasionali occhiate all’Olandese che, al suo fianco, fissava la strada come se volesse divorarla.

“Puoi fermarti un momento?” domandò a un certo punto, indicando un ampio parcheggio alla loro destra. Raistan si rabbuiò.

“Perché? Non mi hai detto di portarti a Belgravia…?”

“Non posso andare a casa mia in queste condizioni” lo interruppe Guillaume, con un sospiro. E visto che Raistan non sembrava comprendere, aggiunse: “Mi devo nutrire, Raggio di sole! Tu hai bevuto quel tuo disgustoso cibo congelato e ti sei tolto qualche soddisfazione con me…”

“Non quante avrei voluto” commentò l’Olandese con un ghigno malefico. Ma il lampo di puro odio che attraverso gli occhi dell’altro vampiro gli fece capire che non era il caso di rivangare l’accaduto.

“Non posso andare a casa senza essermi nutrito. Quindi gentilmente ferma questa macchina e fammi scendere. Sarà questione di un attimo.”

“Come no? Hai intenzione di azzannare il primo camionista che si ferma a pisciare, francese?” domandò Raistan caustico.

Guillaume fece un cenno di diniego, indicando un capannello di ragazzi intenti a ciondolare tra le polle di luce che i lampioni aprivano sull’asfalto.

Sul volto dell’Olandese si dipinse una maschera di scetticismo, ma fermò l’auto e lasciò che Guillaume scendesse. Non passarono che pochi secondi prima che un ragazzo si staccasse dal gruppo e gli si accostasse, le mani in tasca.

“Solo con te o anche con il tuo amico?” domandò, valutando la figura di Raistan seduto alla guida della decapottabile. Non poteva avere più di vent’anni, capelli rosso scuro lunghi sugli occhi e carnagione chiara.

“No, solo con me, dico bene?” rispose Guillaume, voltandosi per lasciare a Raistan un’occhiata. Per tutta risposta l’Olandese partì sgommando, andando a parcheggiare in fondo allo spiazzo. Il ragazzo alzò le spalle, facendo cenno a Guillaume di seguirlo. Ma lui lo fermò.

“Fai venire anche un tuo amico, ti spiace?” chiese, ostentando un sorriso che avrebbe convinto gli angeli a staccarsi le ali, figurarsi un marchettaro di Edgware Road a dividersi un cliente con un collega.

Accanto al parcheggio si apriva un piccolo spazio verde. Chiamarlo ‘parco’ sarebbe stato esagerato, ma gli alberi e i fitti cespugli fornivano ai ragazzi la privacy necessaria per svolgere il loro lavoro.

Guillaume attese accanto a un platano che il rosso lo raggiungesse insieme a un altro ragazzo un po’ più robusto. Se non altro non avrebbe dovuto preoccuparsi di indebolirlo troppo, quando avesse finito con lui.

Uscì dal folto degli alberi qualche minuto dopo, con passo elastico e le falde del soprabito che gli svolazzavano intorno. Quando saltò sul posto del passeggero, al fianco di Raistan, aveva un’aria decisamente soddisfatta.

“Forza Olandese, abbiamo mille cose da fare e la notte è troppo breve!” annunciò allegramente.

8

“Vuoi passare o no da casa? Se ti fosse sfuggito, non sono il tuo chaffeur.”

Raistan si deterse la bocca con un gesto veloce e lanciò un’occhiata furente a Guillaume, che lo guardò incuriosito. A giudicare dalle vibrazioni malefiche che emanava, sembrava di umore più funereo del solito.

“Sì, devo andarci per forza. Beh? Che ti succede, Raggio di sole?”

“Offrire no, eh? Mi hai fatto tornare la sete. Stronzo.”

Schiacciò il pedale dell’acceleratore e partì in picchiata, mentre Guillaume lo fissava, sorpreso. Quel tipo aveva una faccia tosta da concorso.

“Ma senti chi parla a proposito di offerte! Ti ricordi cos’è successo nelle toilette delloSteel Flamingo, vero, perché sua maestà non poteva condividere la sua preda con un suo simile assetato?!”

“È diverso” tagliò corto Raistan, bruciando un semaforo senza nemmeno rallentare.

“E perché sarebbe diverso? Tra l’altro, ti dispiacerebbe andare più piano? Non vorrei concludere la serata alla Polizia. Grazie a te è già stata abbastanza movimentata.” Le immagini di Raistan che si toccava nella doccia minacciarono di scatenare di nuovo la sete, in lui, quindi preferì pensare ad altro. Ma ‘altro’ poteva significare il tentativo di stupro di cui era stato vittima poco prima dello show acquatico di Raistan, quindi scelse di non pensare proprio a niente e di attendere la risposta.

“Non ci conoscevamo. Non ero tenuto a condividere un bel niente con te. Non eri mio…”

“Tuo? …” chiese Guillaume, pieno di aspettativa. Vide le sue mani stringere il volante con ancora più forza e sentì la plastica scricchiolare.

“Non eri nessuno. Basta con le domande idiote. Dove devo fermarmi?”

Il francese gli diede le ultime indicazioni e Raistan parcheggiò a lato del marciapiede in uno stridio di freni. Quando scesero dall’auto, Guillaume gli fece strada all’interno di un sontuoso palazzo d’epoca. Furono accolti dal portiere, il discreto signor Moss, che, se si accorse della stranezza del nuovo arrivato non lo fece notare in alcun modo e li salutò entrambi con calore. Guillaume ricambiò il sorriso, mentre Raistan si limitò a un secco cenno della testa e distolse subito lo sguardo. Aveva dimenticato di indossare le lenti a contatto e le pupille da rettile, nell’azzurro ghiaccio dell’iride screziata di rosso, spiccavano come minacciose stele funerarie. Salirono sul piccolo ascensore privato che portava all’attico. Il francese digitò un codice sulla tastiera posta all’interno della cabina e si prestò al riconoscimento vocale dicendo “Raggio di sole”, cosa che gli fruttò un gestaccio da parte dell’Olandese.

“Vivi con un’umana?” gli chiese quello appena le porte si chiusero. Il vago sorriso di Guillaume fu sostituito all’istante da un’espressione gelida come l’inverno. Avrebbe dovuto immaginare che l’Olandese ne avrebbe sentito l’odore, in un ambiente così piccolo.

“No” rispose in tutta fretta, ma poi vide le sopracciglia di Raistan inarcarsi scettiche e si rese conto che la sua bugia non avrebbe retto a lungo.

“Non sei bravo a mentire, fighetto. Allora non sei una checca totale come pensavo, complimenti! E com’è? Visto che sei in debito con me non mi dispiacerebbe condivi…”

Non riuscì a concludere la frase, perché si ritrovò spiaccicato contro la parete dell’ascensore, tenuto per la gola da una mano che assomigliava a una morsa. Sgranò per un attimo gli occhi, sorpreso da una reazione tanto repentina e violenta, il volto del francese vicinissimo al suo, con i canini scoperti in un ringhio.

“Ascolta quello che ti dico, Olandese. Chi lei sia non ti riguarda. Come sia tanto meno. Non condivideremo niente che la riguardi, nemmeno il pensiero di lei, è chiaro? E in ogni caso non c’è, in questo momento. Lei ha la sua vita, io la mia. Non me lo farai ripetere una seconda volta, ne c’est pas?”

Lasciò la presa e si lisciò i capelli, con gli occhi ancora puntati in quelli di Raistan che, per parte sua, si stava massaggiando la gola con aria offesa.

“Basta chiedere, Fiorellino…” disse, schiarendosi la voce. Le porte dell’ascensore si aprirono, finalmente, dando loro accesso al grande attico di proprietà di Guillaume.

“Accomodati, fai come se fossi a casa tua. Io vado a cambiarmi” disse, attraversando l’enorme salone che costituiva la parte principale della sua dimora, in cui antico e moderno si mescolavano per formare un amalgama del tutto nuovo e molto piacevole. Poltrone e divani un po’ ovunque, una grande libreria che occupava un’intera parete, quadri delle epoche più diverse e una statua a grandezza naturale, somigliante a Guillaume in ogni dettaglio, in un angolo della stanza. Fu quest’oggetto ad attirare l’attenzione di Raistan, che la raggiunse a passo lento, scrollando la testa con un vago sorriso. Vanesio a tal punto da tenere un monumento di se stesso in casa, incredibile. Lo avrebbe preso per i fondelli per i successivi seicento anni, poco ma sicuro.

Udì una porta aprirsi, ma non ci fece caso, convinto che fosse il suo ospite che tornava da lui.

Invece una voce giovane e piena di meraviglia lo fece voltare di scatto.

“Ma che figata! Sephiroth!” esclamò una ragazzina sui quindici anni, poco oltre la soglia della stanza, fissandolo con espressione deliziata. Fu con orrore che la vide impugnare il cellulare e puntarglielo contro per fotografarlo. Non riuscì a limitare la velocità del proprio scatto per raggiungerla. Un attimo dopo glielo aveva strappato di mano, suscitando le sue proteste nonché uno strillo di spavento.

“Ehi! Ridammelo! Capo! Ziooooo! C’è un maniaco in soggiorno che mi ha rubato il cellulareeee!”

“Taci ragazzina, cosa vuoi che…”

Zio?!! Non aveva ancora potuto riaversi dallo stupore per quell’inaspettata rivelazione che percepì una ventata alle proprie spalle e si senti afferrare per la collottola, nella fattispecie il bavero sollevato del cappotto di pelle, reduce da un lavaggio professionale che lo aveva riportato al suo antico splendore dopo l’atterraggio nei rifiuti.

Si irrigidì e tentò di voltarsi, imprecando, ma venne scrollato come un cucciolo disobbediente e ringhiò, mentre la ragazzina li osservava con tanto d’occhi e quell’irritante sorriso ancora stampato sul volto acerbo.

“Che cosa ti avevo appena detto, Olandese? Buonasera, mon chérubin, questa… persona se ne stava giusto andando, non prima di averti ridato il telefono. Che cosa ne volevi fare, si può sapere?” sibilò Guillaume, strappandogli il cellulare di mano e restituendolo alla protetta.

Raistan si divincolò e riuscì a sfilarsi il cappotto, che rimase in mano al francese come la pelle di un serpente. Dopodiché lo abbrancò per la camicia, ancora fuori dai pantaloni, e lo fece volare attraverso la stanza come un fuscello, per poi dirigersi come una furia verso la porta.

“Ci mancava la famiglia Addams! Io me ne vado, mi sono rotto le palle!”

Udì la ragazzina che commentava l’accaduto con un Wow sognante e mandò a quel paese anche lei ma, quando aveva già la mano sul pomello della porta, quella stessa voce lo richiamò: “Aspetta! È…. è stata colpa mia, non mi ricordavo la faccenda delle foto… scusa!”

Raistan si fermò e trasse un lungo, inutile sospiro, poi si voltò, lo sguardo basso e torvo.

“Chi cazzo è Sephiroth, comunque?”